Da “Marchionne,
il manager di un’era che non esiste più” di Marco Revelli, pubblicato sul
quotidiano “il Manifesto” del 22 di luglio 2018: (…). Cosa è stato Marchionne per la
Fiat e per Torino? Cosa ha rappresentato per l’Italia? E in qualche misura per tutti
noi, che sotto il segno di auto, industria, finanza abbiamo vissuto e, negli
ultimi tempi, patito? È l’«uomo che ha salvato la Fiat e l’ha portata nel
mondo» – come recita la congregazione dei plaudenti – o quello che ne ha
decretato la fine facendola americana? È il manager che ha sburocratizzato la
pesante macchina industriale fordista introducendovi lo stile informale e il
passo lieve del demiurgo post-moderno, o quello della mano pesante e del
tradizionale autoritarismo padronale nei referendum di Pomigliano e Mirafiori? È
l’uomo del futuro, che incarna nella propria visione e nella propria azione un
«nuovo paradigma» industriale-finanziario, o è «soltanto» un buon navigatore
nella sistematica del caos che caratterizza la nostra epoca, capace di mantenersi
a galla grazie alla propria vocazione a cambiar forma? Difficile dare ora una
risposta certa. Ma su un punto credo di avere le idee chiare. Marchionne è
l’«uomo della transizione». Non certo l’uomo del passato – di un passato
industriale diventato indubbiamente improponibile -, ma nemmeno l’uomo del
futuro. Ha trascinato la Fiat fuori dal Novecento (e dal fondo di un baratro),
ma non l’ha consegnata a un’identità certa e stabile. A un «modello» nuovo e
sicuro. Ha pareggiato i conti, certo (e si tratta di un quasi-miracolo che gli
ha permesso di annodarsi per la prima volta dal 2006 la cravatta al collo), ma
Fca rimane comunque un gruppo minore nel panorama dei grandi produttori
automobilistici globali: l’ottavo, con i suoi 4.863.291 autoveicoli venduti (di
cui appena un settimo prodotto in Italia), il 5,1% del mercato, esattamente la
metà rispetto a colossi come Volkswagen e Toyota, molto dietro alla francese
Renault. Un gruppo del tutto incerto sul profilo del proprio prodotto: unica
certezza il successo di Jeep (il cui capo del brand, Mike Manley, è appunto il
successore di Marchionne), per il resto oscillazioni tra l’opzione per modelli
premium e de luxe o i tradizionali prodotti di massa. In una delle sue ultime
dichiarazioni pubbliche era stato annunciato un piano d’investimenti massicci
sull’auto elettrica (45 miliardi in 4 anni), un settore difficile, affollato, a
micidiale competitività, con concorrenti dalla tradizione ventennale come
Toyota, che garantirebbe di sicuro vantaggi futuri ma su cui tutto resta molto
incerto, ed embrionale.
Più chiara ed evidente la questione dell’Italia. Qui la «transizione» si è consumata con un exit secco, cioè con un trasferimento di risorse e di sedi che ha assestato un durissimo colpo alla vocazione industriale del Paese. Forse potremmo dire che l’Italia industriale, così come l’avevamo conosciuta nella seconda metà del XX secolo, ha cessato ufficialmente di esistere allora, con quell’esodo, quando la Fiat non ha cambiato solo nome, sede legale (Olanda) e sede fiscale (Londra), ma con un massiccio trasferimento di tecnologie ha contribuito al rinsanguamento di un’industria automobilistica americana esangue restando tuttavia a sua volta in una condizione di anemia quasi mortale. Con il 2010 del «Progetto Italia», lanciato in gran pompa l’anno prima come condizione per una resa sindacale e operaia pesantissima, non è rimasto più nulla. Sotto l’ala protettrice di Barak Obama, il baricentro è stato spostato da Torino e dalla Campania al Michigan e Detroit. Qui da noi sono rimasti gli scheletri spolpati di Mirafiori (oggi pressoché deserta, dopo che i residui operai della Maserati sono stati concentrati a Grugliasco) e di Pomigliano (dove la parabola discendente della Panda lascia una scia dolorosa di cassa integrazione cronica). Era stato lo stesso Marchionne, da Fabio Fazio (sempre lui!), nell’ottobre del 2009 ad affermare, testualmente, che «la Fiat potrebbe fare di più se potesse tagliare l’Italia». E da uomo di parola aveva fatto seguire i fatti. In Italia Fca è passata dai 120mila dipendenti del 2000 ai 29mila di oggi. Oggi i dipendenti diretti di Fca in Italia sono 29.000 compresi quelli di Maserati e Ferrari. Erano oltre 120.000 nel 2000. Ora Sergio Marchionne lascia silenziosamente la scena quando l’era della transizione – il «suo» tempo – è finita. Il mondo che viene avanti non è più quello della globalizzazione leggera, dello spazio liscio della comunicazione e delle contaminazioni feconde, e neppure di quella più dura dalla competizione feroce. È il tempo dei muri e dei dazi. Delle barriere e del confronto muscolare. Il tempo delle guerre commerciali che minacciano di non fare prigionieri. Forse ricorderemo i suoi maglioncini tutti uguali, nel tempo degli elmetti e delle tute mimetiche.
Più chiara ed evidente la questione dell’Italia. Qui la «transizione» si è consumata con un exit secco, cioè con un trasferimento di risorse e di sedi che ha assestato un durissimo colpo alla vocazione industriale del Paese. Forse potremmo dire che l’Italia industriale, così come l’avevamo conosciuta nella seconda metà del XX secolo, ha cessato ufficialmente di esistere allora, con quell’esodo, quando la Fiat non ha cambiato solo nome, sede legale (Olanda) e sede fiscale (Londra), ma con un massiccio trasferimento di tecnologie ha contribuito al rinsanguamento di un’industria automobilistica americana esangue restando tuttavia a sua volta in una condizione di anemia quasi mortale. Con il 2010 del «Progetto Italia», lanciato in gran pompa l’anno prima come condizione per una resa sindacale e operaia pesantissima, non è rimasto più nulla. Sotto l’ala protettrice di Barak Obama, il baricentro è stato spostato da Torino e dalla Campania al Michigan e Detroit. Qui da noi sono rimasti gli scheletri spolpati di Mirafiori (oggi pressoché deserta, dopo che i residui operai della Maserati sono stati concentrati a Grugliasco) e di Pomigliano (dove la parabola discendente della Panda lascia una scia dolorosa di cassa integrazione cronica). Era stato lo stesso Marchionne, da Fabio Fazio (sempre lui!), nell’ottobre del 2009 ad affermare, testualmente, che «la Fiat potrebbe fare di più se potesse tagliare l’Italia». E da uomo di parola aveva fatto seguire i fatti. In Italia Fca è passata dai 120mila dipendenti del 2000 ai 29mila di oggi. Oggi i dipendenti diretti di Fca in Italia sono 29.000 compresi quelli di Maserati e Ferrari. Erano oltre 120.000 nel 2000. Ora Sergio Marchionne lascia silenziosamente la scena quando l’era della transizione – il «suo» tempo – è finita. Il mondo che viene avanti non è più quello della globalizzazione leggera, dello spazio liscio della comunicazione e delle contaminazioni feconde, e neppure di quella più dura dalla competizione feroce. È il tempo dei muri e dei dazi. Delle barriere e del confronto muscolare. Il tempo delle guerre commerciali che minacciano di non fare prigionieri. Forse ricorderemo i suoi maglioncini tutti uguali, nel tempo degli elmetti e delle tute mimetiche.
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