Da “Stati Uniti
d’Europa? Meglio dare un’occhiata ai precedenti” di Alberto Bagnai, pubblicato
su “il Fatto Quotidiano” dell’11 di novembre dell’anno 2015: (…).
La strategia consistente nel forzare un processo politico (l’unione
dell’Europa) costringendo gli elettori a gestire le conseguenze di un fatto
compiuto (l’unione monetaria) ha causato gravi tensioni fra i paesi europei.
Può sembrare un paradosso, ma l’euro è stato uno dei più grandi successi della
scienza economica. Raramente è accaduto che gli economisti prevedessero con
tanta precisione le conseguenze di una decisione politica. Gli irriducibili
però insistono, argomentando che i problemi erano previsti, ma la soluzione è a
portata di mano: basterà cedere sovranità. E qui sorgono due domande: a chi? E
come? La risposta alla prima domanda è dentro tutti noi, perché la propaganda
ha fatto tanto per inculcarcela: all’Unione europea. Temo però che sia sbagliata,
per diversi motivi. Il primo è di ordine politologico: come nota Giandomenico
Majone nel suo Rethinking the union of Europe (Ripensare l’unione dell’Europa),
l’Ue si è data le forme di uno Stato democratico: un Parlamento, un esecutivo
(la Commissione), un’alta corte. Forme rassicuranti, che offuscano una ben
diversa sostanza. I membri della Commissione, non eletti, hanno non solo il
potere esecutivo, ma anche quello di iniziativa legislativa. Una concentrazione
di poteri senza uguali e senza precedenti, che pone qualche dubbio sulla
democraticità del “superstato”cui ci viene chiesto di affidarci. Dubbi simili,
peraltro, li pone lo strapotere della Bce, non bilanciato da alcuna controparte
politica, cosa che comincia a inquietare perfino il Financial Times. Il secondo
è di ordine storico: dalla Seconda guerra mondiale in poi la sovranità politica
si è andata frazionando, al punto che da circa 70 stati sovrani, siamo passati
a più di 200. Quando l’informazione circola con difficoltà, ostacolando il coordinamento
di decisioni decentrate, organizzazioni gerarchiche e centralizzate assicurano
più efficienza. Ma nel mondo globalizzato il costo dell’informazione è sceso
drasticamente: Jean Jacques Rosa, economista a Sciences Po, ha dimostrato come
questa rivoluzione renda più efficienti unità decisionali decentrate. Questo
potrebbe spiegare perché paesi piccoli ottengano ottimi risultati anche sul
piano economico (…). C’è poi il problema del “come” unirsi. Anche qui, la
risposta viene data per scontata: tramite uno Stato federale, come gli Usa. Ma
la scelta del modello federativo non è così banale. Ogni paese membro dell’Ue
ha adottato una qualche forma di decentramento, di regionalizzazione, qualche
volta su base identitaria (la Catalogna, la Scozia), qualche volta su base
opportunistica (per esigere fondi europei, come nel caso della Finlandia). I
problemi del federalismo “interno” sono uguali ovunque: le regioni ricche non
vogliono pagare per le povere e i governi locali litigano con quello centrale.
Le soluzioni sono caso per caso diverse. Quale sarebbe allora il modello di
Stato federale da scegliere? Probabilmente, come nel caso della Banca centrale,
sceglieremmo quello del paese egemone, la Germania: un modello recentemente
riformato nel segno del centralismo, con la scusa (molto in voga anche da noi)
che questo velocizza le decisioni. Ma il centralismo, oggi, è una scelta
efficiente? (…).
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