Da “Il
vestito buono della politica” di Gustavo Zagrebelsky, pubblicato sul
quotidiano “la Repubblica” del 23 di novembre 2017: (…). In Italia c’è il suffragio
universale: vero e falso. Vero, perché il diritto di voto è riconosciuto a
tutti; falso, perché solo una minoranza lo esercita. È la differenza tra ciò
che è in potenza (il diritto) e ciò che è in atto (l’esercizio del diritto). Il
voto è diritto di tutti e molti non lo usano. Così la democrazia, che dovrebbe
essere il sistema politico della larga partecipazione, diventa “olicrazia”, il
regime in cui il governo è nelle mani di minoranze. Senza che si cambino le
leggi, cambia la forma di governo. C’è, innanzitutto, una questione
quantitativa. Un tempo, “l’astenuto” era l’eccezione. Nelle prime elezioni
repubblicane, nel 1948, i cittadini che andarono al voto furono il 92,23 per
cento: cioè, tolti coloro che erano impediti dagli acciacchi, dalla malattia o
dall’assenza dall’Italia, tutti. A partire dagli anni ’80, si scese sotto l’80
per cento e si incominciò a riflettere. Oggi possiamo dire che non è l’astenuto
l’eccezione, ma è il votante, soprattutto in certe fasce d’età e in certe
categorie sociali. Una volta ci si chiedeva quali fossero le ragioni del non-
voto; oggi, quali le ragioni del voto: un vero e proprio ribaltamento. Il
diritto c’è, ma la maggioranza non ne fa uso. Se è vero che l’esercizio dei
diritti è ciò che forma l’ossatura morale d’una società (una volta si diceva
che bisogna tenere sempre strette le mani sui propri diritti), allora dobbiamo
concludere che siamo diventati un popolo straordinariamente malleabile,
arrendevole. I politologi si consolano troppo facilmente osservando che
l’astensionismo è diffuso dappertutto, talora in misura anche maggiore che in
Italia. Parlando solo dell’Europa, le statistiche provano che siamo comunque
nella media dei maggiori Paesi dei quali non si potrebbe contestare il
carattere democratico (Regno Unito, Francia, Germania, Svizzera, ecc.). Si dice
anzi che sarebbe il sintomo di “democrazie mature”, consolidate: ci si fida a
tal punto gli uni degli altri che non si considera necessario agire in proprio.
In un certo senso, gli astenuti si fanno rappresentare dai votanti. Il sintomo, tuttavia, è ambiguo. Non
dappertutto e sempre esso significa la stessa cosa. Occorrerebbe andare a fondo
nelle motivazioni: molta fiducia e molta sfiducia possono produrre lo stesso
effetto. La fiducia è il pilastro della democrazia, ma la sfiducia ne è il
tarlo. Non c’è bisogno di sondaggi, statistiche, analisi per capire che in
Italia siamo di fronte al rinascente fenomeno di massa del rifiuto della
politica, e per sapere di quale mescolanza di delusione, frustrazione,
rassegnazione, rabbia e disprezzo esso si alimenta. Basta un po’ di ordinarie,
quotidiane frequentazioni e conversazioni. C’è, poi anche, una questione
qualitativa. Si dice che il nostro tempo è quello del populismo e
dell’antipolitica, e il dilagante astensionismo è spesso indicato come un
effetto dell’uno e dell’altra. Chissà perché? I populismi, comunque li si
concepisca, sono sempre regimi della mobilitazione di massa (mobilitazione, non
partecipazione), mentre l’astensione è una smobilitazione. L’anti-politica,
poi, è un sentimento attivo che si rivolge “contro”: contro le istituzioni, i
politici, lo Stato, e può sfociare in ribellismo e in anarchismo.
L’astensionismo, forse, più precisamente potrebbe definirsi non-politica, “impolitica”:
cioè l’atteggiamento rassegnato di chi dice “lasciatemi in pace” oppure,
drammaticamente, “ho perso ogni speranza” perché non so chi votare, a chi
votarmi. C’è poi, invece, il popolo dei votanti, il popolo composto da coloro
che sanno chi votare - perché mantengono viva una fedeltà, una speranza e una
fiducia - e da coloro che sanno a chi votarsi - perché hanno ricevuto promesse
di favori o minacce di ritorsioni. Il voto dei primi è libero; quello dei secondi,
è forzato. Coloro che appartengono al mondo di chi sa a chi votarsi di certo
non si astengono. Così, tanto maggiore è il loro numero, tanto maggiore è
l’incidenza del voto corrotto su quello libero. Se - supponiamo - votano in
cento e i voti corrotti sono venti, i venti rappresentano un quinto del totale;
se votano in sessanta e i voti corrotti sono sempre venti, i venti
rappresentano un terzo del totale. Ciò significa, in breve, che l’astensionismo
attribuisce un plusvalore al voto di scambio e, in genere, all’influenza delle
varie forme di criminalità organizzata che operano nel nostro Paese. La
crescita dell’astensione le favorisce. Si ha un bel dire che, astenendosi, i
cittadini reagiscono in quel modo al degrado della politica “lanciando segnali”:
nel frattempo, però, non fanno altro che dare maggiore potere a coloro contro i
quali vorrebbero dirigere la loro protesta. C’è, infine, la questione politica.
Tra gli astenuti, moltissimi sono coloro che dicono: voterei certamente, se
solo sapessi per chi. E molti lo dicono con amarezza, perché sanno quanto è
costata in lacrime e sangue la conquista del diritto di voto, per ogni spirito
democratico il più sacro di tutti. Ma, per non fare vuota retorica (“occorre”,
“serve”, “bisogna”), non basta (più) invocare il “dovere civico” di cui parla
la Costituzione. Deve riattivarsi il circuito della domanda (degli elettori) e
dell’offerta (di chi si candida a essere eletto).
C’è stato un tempo in cui si
chiedeva: tu che ti astieni, che motivo hai per non votare. Oggi, spesso, si
vuole sapere da chi non si astiene che motivo ha per votare. Qui c’è la
questione politica. Il voto è un mercato. La parola può sembrare odiosa e lo è
se il “bene” offerto è il favoritismo, il patronage d’interessi particolari a
danno di quelli comuni, il clientelismo, la promessa d’illegalità, la
corruzione, la partecipazione in opache strutture d’interessi. Non siamo (ancora)
a questo punto ma, se i “giri del potere” si stringeranno ancora e l’astensione
di coloro che ne sono estranei crescerà, verrà il momento in cui l’elettore che
fa uso del diritto di voto sarà sospettato di collusione. La merce offerta sul
mercato elettorale può, tuttavia, essere altra: onestà, esperienza, competenza,
idee e ideali concreti di vita comune. Questa è la merce che manca al popolo di
chi si astiene. (…). I partiti che si candidano alle elezioni, così come sono,
sono all’altezza del bisogno? Oppure il tempo per correre ai ripari è passato
irrimediabilmente? È difficile l’innamoramento di ritorno, ma è ancor più
difficile il ritorno alla politica di chi ne è stato prima illuso e poi
disgustato. Di fronte a questo compito, tanto vasto e urgente quanto essenziale
per la democrazia, gli slogan, le promesse, le alchimie, le furbizie
elettorali, le incoerenze, le menzogne e le recriminazioni reciproche sono
contorcimenti nel vuoto che, se possibile, danno ragioni crescenti al popolo
degli astenuti che osserva. C’è nell’aria un desiderio di ricominciamento; c’è
un sentimento ambiguo di “piazza pulita”. Può essere il preludio a una
catastrofe o a una rigenerazione. Se sarà la prima, gli storici daranno tutta
la colpa alle inadeguatezze dei partiti e dei loro dirigenti, all’arroccamento
nei posti e sulle posizioni acquisite e all’incapacità di cogliere il momento,
comprendendo quando i vecchi tempi sono al tramonto e occorre promuoverne di
nuovi.
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