Da “L’altro
populismo” di Roberto Esposito, pubblicato sul quotidiano “la Repubblica” del
14 di novembre dell’anno 2016: (…). Populismo è un nome vuoto, pronto a
essere riempito da contenuti anche molto eterogenei e a essere adoperato con
intenzioni differenti e contrastanti. Esso, (…), è l’esito di una caduta di mediazioni
istituzionali tra politica e vita materiale che era stata colta da tempo dalla
riflessione più acuminata. In base a tale caduta, quell’insieme di segmenti
differenziati e spesso concorrenti che formano un popolo chiedono una risposta
immediata, cioè rapida e diretta, ai loro bisogni, desideri, pulsioni, paure,
speranze. Ciò spiega perché in tutto il mondo occidentale quella che si chiama
comunemente crisi della politica sia in realtà soprattutto crisi della
rappresentanza e degli organi che la incarnano — istituzioni, partiti,
sindacati. Anche l’aumento verticale di personalizzazione della politica è
l’esito di questa dinamica. Ma, ecco la domanda decisiva: questa crisi della
rappresentanza coincide con una crisi della democrazia? La domanda è più che
legittima, visto che la democrazia moderna è essenzialmente rappresentativa. Ma
la risposta non è scontata. Dal momento che la rappresentanza è una polarità,
certo necessaria, dei sistemi democratici, il cui altro polo è pur sempre la
sovranità popolare. Ora è evidente che nell’attuale difficoltà degli organismi
rappresentativi, il gioco politico si concentra su questo secondo polo. È per
esso che passa il discrimine di cui si diceva, all’interno del campo populista.
Nel senso che l’implicazione immediata tra politica e vita, rispetto alla quale
non è più possibile tornare indietro, può essere orientata in direzioni diverse
e anche alternative. Non più riducibili alla dicotomia orizzontale tra destra e
sinistra, ma piuttosto relative alla scala verticale tra stratificazioni
sociali sovrapposte. È su questo che i populismi si dividono e possono essere
divisi. Se, (…), il loro avversario comune è sempre l’establishment politico,
finanziario, tecnocratico, diverso è il rapporto che si determina tra gruppi sociali.
Come diverso è il rapporto di forza che passa tra essi — quello che un tempo si
definiva “egemonia”. In questione è la relazione che si determina tra blocchi
socio-culturali diversi e quale tra essi ne governi la saldatura. Da qui anche
la relazione, non necessariamente negativa, con il quadro democratico. In un
certo tipo di populismo, che possiamo chiamare inclusivo, si può creare
un’alleanza tra coloro che più sono stati colpiti dalla crisi economica e ceti
sociali intermedi, senza che questo comporti una barriera nei confronti della
forza lavoro degli immigrati. Un altro tipo di populismo, di carattere
escludente, presente in Europa come in America, si chiude su se stesso,
saldando la propria identità alle spinte regressive e xenofobe che provengono
da ambienti sociali diversi in direzione letteralmente reazionaria. La partita
che oggi si apre, insomma, è in buona parte interna al campo populista. Ed essa
va giocata anche in quel campo. La vinceranno coloro che sapranno orientare il
mutamento ormai irreversibile in una direzione allo stesso tempo innovativa e
compatibile con gli standard e i valori della democrazia moderna.
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