Da “Le
campagne elettorali che non finiscono mai” di Massimiliano Panarari – attualmente
docente nell’Università Bocconi di Milano, Dipartimento di Analisi delle
Politiche e Management Pubblico -, pubblicato sul settimanale “D” del 5 di
novembre dell’anno 2016: Fattore donne. Come Hillary (Rodham)
Clinton, la candidata. Come le signore e ragazze molestate o insultate da
Donald Trump, l'altro candidato. Come Melania (Knauss) Trump, che ripropone uno
stereotipo di "femminilità decorativa", complice-vittima del
"maschio alfa" che ha messo fortemente a disagio il Partito
repubblicano con i suoi comportamenti da "predatore sessuale" (ma, in
quanto a overdosi di testosterone, anche la competitor ha i suoi grattacapi con
il marito ex presidente). E, last but not least, Michelle (Robinson) Obama, che
ha subìto il plagio di un discorso (scritto dalla speechwriter Sara Hurwitz) da
parte di Melania Trump (ovvero di Meredith McIver, che le prepara i testi) alla
convention del Partito repubblicano a Cleveland, e che, in un evento a sostegno
di Hillary in New Hampshire a metà ottobre, ha tenuto quello che il New York
Times ha definito l'intervento più importante di una First lady statunitense
negli ultimi vent'anni, possibile preludio di un futuro in politica di una
donna di colore dagli evidenti tratti carismatici. La campagna elettorale
"all'americana", nella sua evoluzione, rappresenta la manifestazione
per eccellenza del progresso delle strategie di organizzazione del consenso e
dell'affinamento delle "tecnologie" di persuasione dell'opinione
pubblica. È la "campagna permanente" (categoria messa a punto, nel
1980, da Sidney Blumenthal, consigliere di lungo corso dei coniugi Clinton, nel
suo libro The Permanent Campaigning), che ne costituisce nella storia delle
democrazie rappresentative la forma più sofisticata e avanzata (e con le
capacità più elevate di manipolazione soft). Al punto, come scriveva Blumenthal
agli albori della lunga stagione reaganiana (che tanto doveva proprio alle
innovazioni comunicative), da identificare la vera «ideologia politica della
nostra epoca», mentre la frattura tradizionale tra destra e sinistra appare
oggi consumata, sostituita da varianti come quella che oppone il populismo e
l'antipolitica alle forze di sistema. Dagli anni Ottanta la percezione del
"senso per la leadership" del candidato rappresenta una delle
motivazioni fondamentali del voto dei cittadini, e le attività di comunicazione
diventano centrali, estendendosi nel tempo ben al di là della durata consueta
del periodo della campagna elettorale. Che richiede competenze specifiche, con
la professionalizzazione sempre più spinta delle figure dei consulenti e
comunicatori e un ruolo decisivo svolto dai direttori di campagna (stile John
Podesta, già capo di gabinetto di Bill Clinton e di Barack Obama, e ora al
vertice della macchina organizzativa e propagandistica di Hillary) e dagli spin
doctor, gli specialisti che hanno il compito di dare ai messaggi politici lo
"spin", sovraccaricandone la portata e l'effetto sull'opinione
pubblica. Perché a loro, innanzitutto, spetta la missione di costruire e far
funzionare l'ingegneria del consenso, nonché di influenzare i mezzi di
comunicazione di massa, ai quali ci si deve necessariamente rivolgere, in epoca
di debolezza (se non di scomparsa) dei partiti, di disintermediazione e di
continui "appelli diretti al popolo", per arrivare agli elettori.
A colpi di marketing politico-elettorale, di web-politics, di "transpolitica", di storytelling, di narrazioni e di battaglie per imporre il proprio framing politico-sociale, e per dominare l'agenda del dibattito pubblico costringendo l'avversario a "rincorrere". E, dunque, una campagna elettorale che si è fatta postmoderna nelle tecniche per conquistare un immaginario via via più omogeneo e un consenso sempre più disincantato, è diventata ininterrotta come nel caso dell'attuale corsa per la presidenza degli Stati Uniti, iniziata da un tempo che sembra infinito (…). Quella Usa, come hanno rimarcato molti osservatori, è stata la più «pazza» e «cattiva», nel disprezzo reciproco tra i candidati, delle campagne elettorali in quella che resta la nazione guida dell'Occidente. Un altro segno del malessere delle nostre liberaldemocrazie, purtroppo convertite ormai in postdemocrazie.
A colpi di marketing politico-elettorale, di web-politics, di "transpolitica", di storytelling, di narrazioni e di battaglie per imporre il proprio framing politico-sociale, e per dominare l'agenda del dibattito pubblico costringendo l'avversario a "rincorrere". E, dunque, una campagna elettorale che si è fatta postmoderna nelle tecniche per conquistare un immaginario via via più omogeneo e un consenso sempre più disincantato, è diventata ininterrotta come nel caso dell'attuale corsa per la presidenza degli Stati Uniti, iniziata da un tempo che sembra infinito (…). Quella Usa, come hanno rimarcato molti osservatori, è stata la più «pazza» e «cattiva», nel disprezzo reciproco tra i candidati, delle campagne elettorali in quella che resta la nazione guida dell'Occidente. Un altro segno del malessere delle nostre liberaldemocrazie, purtroppo convertite ormai in postdemocrazie.
Nessun commento:
Posta un commento