L’affermazione più pronta, inattesa, è stata: “è fuggito”.
Come pure: “si è sottratto alle sue responsabilità”. La più “cattiva” è
stata: “disertore”. Sono state le considerazioni sentite in un
familiare convivio. È che il tempo che ci è dato da vivere, periglioso assai, è
affetto da quel “superomismo” per cui il Carles di Barcellona non avrebbe
potuto aspettarsi di meglio. Sicuramente se si fosse piegato o prestato ad una
“prova muscolare” maggiori consensi e maggiore considerazione avrebbe
conquistato sul campo. Ma così non è stato. Da quel che leggo è il tratto
dell’uomo, la sua valenza umana, la sua cifra come suol dirsi. Per cui, al
tempo di superuomini e di mostruosità varie, Carles Puigdemond non ha meritato
di meglio. Tanto è che un opinionista di fama e di grande vaglia – che leggo
sempre con attenzione e grande considerazione - ha tirato in ballo – tanto per
non parlarne bene questa volta - il Catilina da contrapporre a quel Carles di
Barcellona, quel Catilina che imperterrito andò incontro alla morte. Ecco, un
atteggiamento da superuomo gli sarebbe tornato utile. Ma non l’ha cercato,
forse non l’ha voluto. Ha scritto bene Concita De Gregorio – che è spagnola per
via della madre Concha originaria della Barcellona di Carles - in “Carles, il ribelle riluttante porta la
sfida catalana nel cuore dell’Europa” pubblicato sul quotidiano la
Repubblica del 1° di novembre ultimo: Il gesto di Carles Puigdemont – andare
fisicamente, portare il suo corpo al centro dell’Europa – ha la semplicità
disarmante del disegno di un bambino: se non hai capito cosa intendo te lo
faccio vedere, (cosa) significa quel gesto. Intende dire, il
presidente destituito della Catalogna, che di questa vicenda si deve occupare
l’Unione. «A cosa serve, altrimenti, l’Europa di Altiero Spinelli se non a
dirimere le questioni di democrazia, di libertà, di rispetto reciproco e di
rispetto del voto dei cittadini degli Stati membri? », mi ha detto. A cosa
serve l’Europa se non è in grado di fare quel che farebbe qualunque padre con
due figli che litigano: lasciarli dire e fare, finché è lecito e possibile, poi
convocarli a sé: venite qui, a questo tavolo, parliamo. «Un’Europa che risponde
solo alle banche, all’interesse economico, alla convenienza dello Stato guida
non è quella per cui in tutta la nostra storia ci siamo battuti». Ecco
una prova nuova, se ne fosse mancata ancora una, che l’Europa sognata Carles
Puigdemont e da milioni di altri europei, ovvero l’Europa dei popoli, non è in
questa Europa, non lo è proprio; è semmai, questa, l’Europa della finanza,
l’Europa della burocrazia, ma non l’Europa degli spiriti liberi non affetti dal
“superomismo” dominante. Perché, infatti, in questa Europa, possono trovare
risorgente ascolto le voci maldestre di chi sogna un ritorno al passato fatto
da un rinchiudersi egoistico nel propri confini? Affascina la figura di quel
Carles di Bracellona, ostinato sognatore di un’Europa che tardiamo a vedere.
Scrive ancora Concita De Gregorio nella Sua analisi, tra le migliori che mi sia
capitato di leggere: La Catalogna è la più europeista delle
regioni di Spagna, storicamente. Tra le più europeiste d’Europa, in questi
tempi. Il silenzio imbarazzato delle istituzioni europee e l’inazione
dell’Unione di fronte ai fatti di Spagna – di fronte alle ripetute, ossessive e
quasi monotone richieste pubbliche e private rivolte da Puigdemont ai leader
europei - è il dato politico più eloquente e insieme più preoccupante non solo
per la Catalogna, ma per tutti gli stati dell’Unione. Per il futuro, più che
per il presente. Un difetto di senso strutturale. (…). E poi: …se il
governo centrale guidato dal Partito Popolare di Mariano Rajoy avesse
consentito che i catalani votassero al referendum avrebbe quasi certamente
vinto il no, convengono tutti gli analisti (il governo poteva farlo e non lo ha
fatto: quando si dice che il referendum era illegale si omette di aggiungere
che la Costituzione del ’78 ammette quel tipo di consultazione se concordata
col governo centrale. Che in questo caso ha negato il consenso). I catalani
volevano la libertà di votare – la posizione di Podemos e di En Comù Podem
della sindaca Ada Colau, contraria all’indipendenza ma favorevole al voto, è
uno dei molti esempi. Perché Rajoy dunque non lo ha consentito? È sciocco? È
incapace? (…). Né sciocco né incapace, il capo del governo spagnolo aveva tutto
l’interesse ad infiammare la questione catalana e lo ha fatto. Interesse
duplice: uno, incassare consenso elettorale in vista delle prossime politiche,
per arrivare alla maggioranza assoluta e liberarsi dello scomodo appoggio dei
socialisti, avversari storici e in altri tempi naturali del Pp. Due,
distogliere l’attenzione dalle incredibili vicende di corruzione che hanno
riguardato e riguardano membri del suo esecutivo. Il governo Rajoy, lo dicono i
fascicoli giudiziari aperti, è tra i più corrotti del dopo-Franco. (…). L’anticatalanismo
atavico del resto di Spagna è il sentimento su cui Rajoy ha fatto leva, ergendosi
a paladino dell’Unità in vista di un futuro incasso elettorale. (…). Poiché
è certo che la politica non offre mai il volto suo più innocente, più trasparente.
E Concita De Gregorio ricorda che (…). …fu il socialista Pasqual Maragall a
scrivere l’Estatut – la carta di autonomia concordata col governo socialista di
Zapatero – che, se fosse rimasta in vigore, avrebbe messo il punto alla vicenda
catalana. Ma il Partito Popolare, sopraggiunto al governo a dicembre del 2011,
un anno prima aveva favorito la pronuncia della Corte costituzionale (per una
parte di nomina politica) a sfavore dell’Estatut, che decadde. La storia di
oggi comincia allora: nel 2010, con la cancellazione di un lavoro politico di
decenni, ottenuto e infine cassato. Per sette anni i catalani hanno chiesto un
nuovo Statuto di autonomia, invano. Illuminante assai questo passaggio
della analisi di Concita. Impegni non mantenuti, irrigidimenti voluti mirando
ad utilizzare il “problema catalano” per fini politici di parte, di casta. E
Concita De Gregorio ci offre una immagine “nuova”, la misura prettamente e
smisuratamente umana di Carles Puigdemond, immagine ignorata da quei media
della contrapposizione a tutti i costi sulla quale costruire le proprie fortune
editoriali, magari con una contrapposizione “muscolare” meglio ancora, accada
quel che accada poi, laddove scrive che:
(…). Il leader destituito è subentrato al
governo catalano in maniera inaspettata, candidato dell’ultimora alla
sostituzione di Artur Mas. Era sindaco di Girona, una cittadina vicina al
confine con la Francia. Giornalista pubblicista, cattolico, scout, pacifista.
Uomo di destra moderata. Una destra democristiana, diremmo in Italia. Ha subito
chiarito che avrebbe esercitato un solo mandato. La missione politica, per la
quale è stato sostenuto al governo dalla sinistra radicale della Cup e da
quella anticomunista e antisocialista di Esquerra Republicana, era chiara:
indire il referendum, e tener fede al risultato. «Ho un solo compito. Portare
il mio popolo a votare e tener conto del voto, qualunque esso sia. Il giorno
dopo torno dalla mia famiglia. Ho due figlie piccole, voglio vederle crescere,
la politica non è nel mio futuro ». Dopo il referendum del 1° ottobre e
nonostante l’aggressione alla quale i cittadini sono stati sottoposti (negli
attacchi della Guardia Civil una donna ha perso un occhio a causa di una
pallottola di gomma, proiettile proibito dalla legge, centinaia sono stati i
feriti) il presidente ha cercato senza sosta una posizione di dialogo col
governo. Anche dopo la messa sotto accusa del capo dei Mossos d’Esquadra, la
polizia regionale che non si è unita agli assalti, dopo l’arresto dei “due
Jordi”, dopo le dichiarazioni pubbliche della vicepresidente del governo Soraya
Sáenz de Santamaría che negava le violenze documentate da giornalisti di tutto
il mondo Puigdemont ha continuato in pubblico e in privato a invocare
l’intervento dell’Europa. Ha sperato in Prodi, che con Fassino e Bobo Craxi
aveva sottoscritto un documento in favore del dialogo. «Ho cercato tutti. Le
questioni di libertà e di democrazia poste dalla Catalogna sono materia che
compete all’Europa. Noi abbiamo subito violenza e non ne abbiamo esercitata.
Non una mano si è levata, non un vetro si è rotto nelle strade per parte
nostra. Anche di fronte alle provocazioni, alle prevaricazioni. In attesa di
essere chiamati a un tavolo: di avere un luogo dove discutere dei diritti di
chi chiede di essere ascoltato, di votare». L’intenzione di Puigdemont, negli
ultimi giorni, era quella di indire nuove elezioni catalane. La spinta della
Cup e di Esquerra lo ha portato verso la dichiarazione unilaterale di
indipendenza come gesto ormai solo simbolico: la procedura di destituzione da
parte del governo centrale era ormai avviata. Ha forzato la mano quando non c’era
altro da fare, «perché restasse almeno il segno che quel che abbiamo fatto non
è stato vano». A chi gli dice che il risultato elettorale non consentiva di
dichiarare indipendenza - che non c’era maggioranza effettiva degli aventi
diritto al voto - risponde che vale la maggioranza di chi è andato a votare, in
democrazia. «Il punto, oggi, è che l’Europa non può tacere. Non può voltare le
spalle e liquidare quel che è avvenuto come un fatto interno. Non vogliamo
un’Europa dei banchieri, vogliamo un’Europa dei cittadini. Non sono io il
problema, è la Catalogna. Io non ci sarò in futuro, la nostra gente sì. La mia
missione politica si chiude qui». Qui, a Bruxelles. A dire fisicamente a chi
governa l’Unione: parliamo. È quanto l’Europa - non dei popoli - ha
voluto cinicamente ignorare distogliendo lo sguardo da quell’angolo di Spagna e
rimanendo sorda ed insensibile alla richiesta di solidarietà e comprensione di
una parte della quella sua gente. È questa l’assurda e tragica storia di quel
sognatore di un’Europa dei popoli che non c’è. Ci sarà mai?
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