Recita l’autorevolissima
Enciclopedia Treccani che nella mitologia “Crono (gr. Κρόνος) (era) Il
più giovane dei Titani della mitologia greca, figlio di Urano (il Cielo) e di
Gea (la Terra). Secondo la Teogonia esiodea, C. mutilò il padre che, timoroso
di perdere la signoria del mondo, teneva in prigionia i figli; ma poi C.
stesso, sposo di Rea, temendo che i figli lo privassero del potere, li divorava
appena nati, finché Rea riuscì a porre in salvo il sesto, Zeus, dando a
divorare a C. una pietra avvolta in fasce. Zeus, cresciuto, costrinse il padre
a rigettare i cinque figli ingoiati (Estia, Demetra, Era, Ades, Posidone), e
con loro lottò contro C. e gli altri Titani (Titanomachia) che alla fine furono
relegati nel Tartaro. (…).”.
Da “L'immortale
B” di Marco Damilano, pubblicato sul settimanale “L’Espresso” del 12 di
novembre 2017: (…). Matteo (Renzi) debuttò nel 1994, a 19 anni. Non in una sezione di
partito, ma su Canale 5, alla “Ruota della fortuna”. Vinse quarantotto milioni
di lire in gettoni d’oro e in più un bene inestimabile che stava per diventare
l’unico valore in campo: la visibilità, la notorietà. Negli stessi mesi
gareggiava sulle reti Mediaset l’altro Matteo (Salvini). A “Doppio Slalom”
quando era solo un adolescente, a “Il pranzo è servito” nel 1993, mentre la
Lega di Umberto Bossi sventolava il cappio nell’aula di Montecitorio contro i
politici corrotti. Matteo e Matteo, Renzi e Salvini, erano ragazzi di venti
anni con precoce passione politica che andavano nelle tv del Biscione a giocare
davanti alle telecamere mentre il proprietario di Mediaset Berlusconi scendeva
in campo con Forza Italia. A rivederli oggi, più che futuri leader Renzi e
Salvini, nella tv berlusconiana, appaiono come due giovani entusiasti di
esserci, conformisti. Nativi nella nuova era, con i dischi che sono cd, i film
che sono videocassette e poi dvd, i libri si sfogliano ma non si leggono e poi
ci sarà internet su cui trovare tutto. La cultura è un singolo brano, una
singola scena da rivedere mille volte, un frame, una citazione da acchiappare e
rilanciare, nel grande mare della Rete. Luigi Di Maio non è mai entrato da
concorrente in una rete Mediaset, nel 1993-94 andava alle elementari. Ma di
quella cultura, la cultura berlusconiana dell’ultimo quarto di secolo, è il prodotto
esemplare. Con le sue incerte nozioni di storia e geografia, il Venezuela di
Pinochet, con la sua immagine pettinata, sembra un agente di Publitalia. E non
ti sorprenderesti di ritrovarlo in un meeting di Forza Italia. Una cultura
post, non anti. Attrezzata dunque a raccogliere l’elettorato berlusconiano
lasciato orfano dal suo demiurgo. Per Renzi, in questi anni, ha significato
rompere la concertazione con i sindacati, incrociare la polemica con i giudici
e con i cosiddetti poteri forti, dichiarare la fine dei cosiddetti corpi
intermedi, proporre un modello istituzionale verticalizzato sul capo del
governo, predicare e praticare il modello del partito personale, teorizzato
anni fa da Mauro Calise, anche se non (ancora) patrimoniale e senza minoranze
interne, come è sempre stato Forza Italia. Per Salvini lo spazio libero
lasciato da Berlusconi è stato quello della destra diffusa al Nord, dove la
Lega è il vero partito di governo e di rappresentanza degli interessi economici
delle regioni forti, e del Sud, dove è venuto a mancare un forte riferimento
politico dopo la dissoluzione di quello che fu il Movimento sociale e poi
Alleanza nazionale. Per il Movimento 5 Stelle, le praterie rimaste libere dalla
(provvisoria) scomparsa di Berlusconi sono state quelle dell’anti-politica:
l’Italia che fu moderata e che ora invece è rabbiosa contro i politici di
professione, il Palazzo romano, ma anche i professori, i giornalisti, una
carica anti-istituzionale che trova il suo strumento di sfogo sulla rete. Il
guaio, per i pretendenti all’eredità, è che arrivati alla fine della
legislatura scoprono che il Caimano è ancora vivo. Ammaccato, certo. Con i
consensi che non sono più quelli di una volta: il 16,4 per cento in Sicilia e
315mila voti contro il 26,4 e 593mila voti raccolti dall’allora Pdl guidato da
Alfano alle elezioni per il Senato del 2013 e lo strabiliante 46,8 e un milione
e 166mila voti del 2008, quando la creatura berlusconiana era al massimo della
potenza. In quel caso, nel Pdl erano confluiti anche An e Gianfranco Fini: un
altro aspirante alla successione finito spiaggiato e poi triturato dalla
macchina di Arcore, (…).
La stagione del Berlusconi egemone è finita e non tornerà. E non ha sbagliato chi aveva segnalato la fine politica dell’ex Cavaliere. L’errore è stato semmai di chi ha potuto contare su un allineamento favorevole di astri e pianeti senza precedenti e difficilmente ripetibile. Nel 2014 Renzi si è trovato di fronte a una destra priva del suo fondatore, il Movimento 5 Stelle che, pur avendo raccolto otto milioni di voti e il 25 per cento nel 2013, era uno stato d’animo, un vaffa collettivo radunato attorno a Beppe Grillo più che un soggetto politico. Il quarantenne premier e leader del Pd del 40 per cento ha avuto l’occasione storica di costruire un elettorato di riferimento, una classe dirigente, un partito in grado di conquistare il centro della società italiana e di durare un decennio. Oggi quelle condizioni sembrano essersi chiuse. Berlusconi è di nuovo sulla scena, la destra è tornata elettoralmente forte anche se divisa (ma quanto lo sarà dopo un’eventuale vittoria elettorale?). Il Movimento 5 Stelle, nonostante le pessime prove di governo, è un partito di opposizione di massa. Mentre il Pd di Renzi perde i pezzi alla sua sinistra. Oggi Renzi, Salvini (e Di Maio) si ritrovano a fare i conti con CronoSilvio: pronto a divorare i suoi presunti figli, berlusconisti più che berlusconiani, ad aprire un nuovo tempo, l’ultimo, della sua leadership. Il Matteo del Pd può aspirare a fare nel breve periodo lo junior partner di Berlusconi, (…), ma lo stesso vale per Salvini in una coalizione di centrodestra. E Di Maio in un nuovo, inedito bipolarismo sarebbe un baby oppositore. Né si può ricorrere al classico appello dell’ultima ora, il voto utile per fermare la destra. L’anti-berlusconismo non esiste più. A liquidare l’anti-berlusconismo politico è stato proprio Renzi, rompendo il tabù del patto con l’avversario. L’anti-berlusconismo giudiziario è finito con la condanna del 2013, al di là delle inchieste e dei processi ancora in corso. Sarebbe rimasto l’anti-berlusconismo di tipo culturale: la sfida nei confronti del centrodestra italiano e del suo singolare e originale impasto di populismo e conservatorismo, una tavola di valori alternativa, una proposta in positivo e non solo “anti”. Ma nel centrosinistra questa strada è stata percorsa solo venti anni fa, con l’Ulivo di Prodi, Veltroni (e Ciampi). Mentre i leader dell’ultima stagione non hanno costruito un progetto alternativo al berlusconismo, si sono solo chiesti come ereditarlo senza pagare il prezzo. E non hanno valutato che il modello originale è ancora lì, per ora. A incarnare, come sempre, il sistema e l’anti-sistema, la moderazione e l’estremismo, a tenere insieme tutto. In vista di una strana campagna elettorale, dove i competitori saranno in gara non per sconfiggerlo ma per imitarlo.
La stagione del Berlusconi egemone è finita e non tornerà. E non ha sbagliato chi aveva segnalato la fine politica dell’ex Cavaliere. L’errore è stato semmai di chi ha potuto contare su un allineamento favorevole di astri e pianeti senza precedenti e difficilmente ripetibile. Nel 2014 Renzi si è trovato di fronte a una destra priva del suo fondatore, il Movimento 5 Stelle che, pur avendo raccolto otto milioni di voti e il 25 per cento nel 2013, era uno stato d’animo, un vaffa collettivo radunato attorno a Beppe Grillo più che un soggetto politico. Il quarantenne premier e leader del Pd del 40 per cento ha avuto l’occasione storica di costruire un elettorato di riferimento, una classe dirigente, un partito in grado di conquistare il centro della società italiana e di durare un decennio. Oggi quelle condizioni sembrano essersi chiuse. Berlusconi è di nuovo sulla scena, la destra è tornata elettoralmente forte anche se divisa (ma quanto lo sarà dopo un’eventuale vittoria elettorale?). Il Movimento 5 Stelle, nonostante le pessime prove di governo, è un partito di opposizione di massa. Mentre il Pd di Renzi perde i pezzi alla sua sinistra. Oggi Renzi, Salvini (e Di Maio) si ritrovano a fare i conti con CronoSilvio: pronto a divorare i suoi presunti figli, berlusconisti più che berlusconiani, ad aprire un nuovo tempo, l’ultimo, della sua leadership. Il Matteo del Pd può aspirare a fare nel breve periodo lo junior partner di Berlusconi, (…), ma lo stesso vale per Salvini in una coalizione di centrodestra. E Di Maio in un nuovo, inedito bipolarismo sarebbe un baby oppositore. Né si può ricorrere al classico appello dell’ultima ora, il voto utile per fermare la destra. L’anti-berlusconismo non esiste più. A liquidare l’anti-berlusconismo politico è stato proprio Renzi, rompendo il tabù del patto con l’avversario. L’anti-berlusconismo giudiziario è finito con la condanna del 2013, al di là delle inchieste e dei processi ancora in corso. Sarebbe rimasto l’anti-berlusconismo di tipo culturale: la sfida nei confronti del centrodestra italiano e del suo singolare e originale impasto di populismo e conservatorismo, una tavola di valori alternativa, una proposta in positivo e non solo “anti”. Ma nel centrosinistra questa strada è stata percorsa solo venti anni fa, con l’Ulivo di Prodi, Veltroni (e Ciampi). Mentre i leader dell’ultima stagione non hanno costruito un progetto alternativo al berlusconismo, si sono solo chiesti come ereditarlo senza pagare il prezzo. E non hanno valutato che il modello originale è ancora lì, per ora. A incarnare, come sempre, il sistema e l’anti-sistema, la moderazione e l’estremismo, a tenere insieme tutto. In vista di una strana campagna elettorale, dove i competitori saranno in gara non per sconfiggerlo ma per imitarlo.
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