"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

giovedì 16 novembre 2017

Terzapagina. 5 “Il welfare in crisi d’identità”.



Da “Il welfare in crisi d’identità” di Andrea Boitani, pubblicato sul settimanale “A&F” del 9 di ottobre 2017: Le voci relative alla crisi del Welfare State risalgono almeno alla fine degli anni ’70. In quegli anni si cominciò a notare che il welfare state stava diventando un peso enorme per la finanza pubblica dei paesi occidentali e che la presenza del welfare state fiaccava lo spirito imprenditoriale e incentivava i comportamenti opportunisti dei cittadini. In una parola, il welfare state indeboliva le potenzialità di crescita delle nazioni. Dopo quarant’anni si continua a parlare di crisi e di necessità di riforma e ridimensionamento del welfare state. Per molti il fulgido esempio è ancora quello di Margaret Thatcher. Ma siamo in presenza di crisi strutturale o di dolori legati alla crescita? E se di crisi si deve parlare essa sta nella concezione stessa del welfare state o nel modo in cui esso si è nel tempo realizzato? Il welfare state dovrebbe essere ridimensionato e riservato compassionevolmente ai “poveri” come suggerito dal Libro Bianco dell’ex ministro Sacconi? Oppure dovrebbe mantenere il suo carattere universalistico, ma accentuando gli intenti redistributivi, come sembrano raccomandare alcuni studiosi con propensioni di sinistra? (…). Il welfare è nato e si è progressivamente affermato per spostare alcuni i rischi (dalla disoccupazione alla salute, dagli infortuni sul lavoro alla vecchiaia) dalle spalle dei cittadini e delle imprese a quelle più larghe dello stato, cioè della collettività nazionale in modo indipendente dal reddito di ciascuno. Lo stato ha scaricato i rischi dai soggetti economici e lo ha ripartito tra il massimo numero di persone possibile, riducendo quindi il costo di assicurarlo. Ha consentito così al mercato di divenire più efficiente e di sprigionare più energie. L’esperienza storica degli anni ’50 e ’60 sembra dimostrarlo: il periodo di più straordinaria crescita economica dei paesi dell’Europa occidentale e degli Stati Uniti ha coinciso con la progressiva estensione del ruolo dello stato come “manager dei rischi”: i mercati erano abbastanza flessibili ma la rete di protezione dai rischi via via più estesa e più solida. L’opposto della ricetta neo-liberista degli ultimi trent’anni, consistente in mercati più flessibili insieme a meno protezione dai rischi. Naturalmente, qualsiasi sistema di assicurazione ha insita una proprietà redistributiva. Che non si configura però come togliere a chi ha di più per dare a chi ha di meno. Così si convogliano le risorse raccolte da tutti per dare a coloro che il caso o la storia personale e collettiva hanno reso bisognosi. Un tipo di redistribuzione su cui tutti sono d’accordo perché sanno di avere qualche probabilità di trovarsi tra quelli che avranno bisogno (tutti possiamo ammalarci e tutti possiamo perdere il nostro lavoro o divenire inabili al lavoro e tutti, a un certo punto, diventeremo vecchi). Il welfare state può essere anche più redistributivo di così, se per esempio i contributi per ciascun programma sono proporzionali al reddito e le prestazioni sono proporzionali al bisogno (sanità) o hanno un tetto indipendente dai contributi versati (pensioni, sussidi di disoccupazione). Però spingere troppo oltre questo specifico carattere redistributivo del welfare state può metterlo in crisi. Le tentazioni di opting out dal servizio sanitario nazionale da parte dei redditi più elevati, per esempio, crescono tanto più ampio è il divario tra contributi e valore delle prestazioni. Ma l’opting out dei più ricchi sarebbe esiziale per la sopravvivenza stessa del sistema ripartizione dei rischi e di mutualità su cui il welfare state poggia. Così come sarebbe dannosa, all’opposto, la privatizzazione del sistema sanitario (cui vorrebbe tornare il presidente Trump), che – con le informazioni oggi disponibili in campo genetico – permetterebbe di segmentare i rischi in modo molto fine, rendendo insopportabilmente costose le polizze assicurative di chi risultasse geneticamente predisposto a gravi malattie. I più bisognosi di assicurazione potrebbero permettersi una polizza solo se molto facoltosi. I difetti e le incrostazioni del welfare state si vedono in molti paesi. Di riforma c’è bisogno. Ma non per ridimensionare il welfare, quanto per riportarlo ai suoi fini originari, laddove se ne è allontanato, e possibilmente per allargare la platea dei soggetti coinvolti (ancora una volta, si ripartiscono meglio i rischi), passando progressivamente da un welfare nazionale a un welfare europeo.

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