Da “Il
welfare in crisi d’identità” di Andrea Boitani, pubblicato sul settimanale “A&F”
del 9 di ottobre 2017: Le voci relative alla crisi del Welfare
State risalgono almeno alla fine degli anni ’70. In quegli anni si cominciò a
notare che il welfare state stava diventando un peso enorme per la finanza
pubblica dei paesi occidentali e che la presenza del welfare state fiaccava lo
spirito imprenditoriale e incentivava i comportamenti opportunisti dei
cittadini. In una parola, il welfare state indeboliva le potenzialità di
crescita delle nazioni. Dopo quarant’anni si continua a parlare di crisi e di
necessità di riforma e ridimensionamento del welfare state. Per molti il
fulgido esempio è ancora quello di Margaret Thatcher. Ma siamo in presenza di
crisi strutturale o di dolori legati alla crescita? E se di crisi si deve
parlare essa sta nella concezione stessa del welfare state o nel modo in cui
esso si è nel tempo realizzato? Il welfare state dovrebbe essere ridimensionato
e riservato compassionevolmente ai “poveri” come suggerito dal Libro Bianco
dell’ex ministro Sacconi? Oppure dovrebbe mantenere il suo carattere universalistico,
ma accentuando gli intenti redistributivi, come sembrano raccomandare alcuni
studiosi con propensioni di sinistra? (…). Il welfare è nato e si è
progressivamente affermato per spostare alcuni i rischi (dalla disoccupazione
alla salute, dagli infortuni sul lavoro alla vecchiaia) dalle spalle dei
cittadini e delle imprese a quelle più larghe dello stato, cioè della
collettività nazionale in modo indipendente dal reddito di ciascuno. Lo stato
ha scaricato i rischi dai soggetti economici e lo ha ripartito tra il massimo
numero di persone possibile, riducendo quindi il costo di assicurarlo. Ha
consentito così al mercato di divenire più efficiente e di sprigionare più
energie. L’esperienza storica degli anni ’50 e ’60 sembra dimostrarlo: il
periodo di più straordinaria crescita economica dei paesi dell’Europa
occidentale e degli Stati Uniti ha coinciso con la progressiva estensione del
ruolo dello stato come “manager dei rischi”: i mercati erano abbastanza
flessibili ma la rete di protezione dai rischi via via più estesa e più solida.
L’opposto della ricetta neo-liberista degli ultimi trent’anni, consistente in
mercati più flessibili insieme a meno protezione dai rischi. Naturalmente, qualsiasi
sistema di assicurazione ha insita una proprietà redistributiva. Che non si
configura però come togliere a chi ha di più per dare a chi ha di meno. Così si
convogliano le risorse raccolte da tutti per dare a coloro che il caso o la
storia personale e collettiva hanno reso bisognosi. Un tipo di redistribuzione
su cui tutti sono d’accordo perché sanno di avere qualche probabilità di
trovarsi tra quelli che avranno bisogno (tutti possiamo ammalarci e tutti
possiamo perdere il nostro lavoro o divenire inabili al lavoro e tutti, a un
certo punto, diventeremo vecchi). Il welfare state può essere anche più
redistributivo di così, se per esempio i contributi per ciascun programma sono
proporzionali al reddito e le prestazioni sono proporzionali al bisogno (sanità)
o hanno un tetto indipendente dai contributi versati (pensioni, sussidi di
disoccupazione). Però spingere troppo oltre questo specifico carattere
redistributivo del welfare state può metterlo in crisi. Le tentazioni di opting
out dal servizio sanitario nazionale da parte dei redditi più elevati, per
esempio, crescono tanto più ampio è il divario tra contributi e valore delle
prestazioni. Ma l’opting out dei più ricchi sarebbe esiziale per la
sopravvivenza stessa del sistema ripartizione dei rischi e di mutualità su cui
il welfare state poggia. Così come sarebbe dannosa, all’opposto, la
privatizzazione del sistema sanitario (cui vorrebbe tornare il presidente
Trump), che – con le informazioni oggi disponibili in campo genetico –
permetterebbe di segmentare i rischi in modo molto fine, rendendo
insopportabilmente costose le polizze assicurative di chi risultasse
geneticamente predisposto a gravi malattie. I più bisognosi di assicurazione
potrebbero permettersi una polizza solo se molto facoltosi. I difetti e le
incrostazioni del welfare state si vedono in molti paesi. Di riforma c’è
bisogno. Ma non per ridimensionare il welfare, quanto per riportarlo ai suoi
fini originari, laddove se ne è allontanato, e possibilmente per allargare la
platea dei soggetti coinvolti (ancora una volta, si ripartiscono meglio i
rischi), passando progressivamente da un welfare nazionale a un welfare
europeo.
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