Scrive Günther Anders: - Abbiamo
rinunciato a considerare noi stessi come i soggetti della storia, e al nostro
posto abbiamo collocato un solo altro soggetto: la tecnica -. Gli anni (…)del
Sessantotto (…), non erano anni solo "ideologizzati" o
"velleitariamente rivoluzionari" come si è soliti sentir dire oggi
con disprezzo dai rappresentanti della cultura egemone ispirata al "sano
realismo". Quelli erano anni in cui ancora era possibile credere nella
"storia" come a un tempo fornito di senso, suscettibile di
"progresso" che, come ricordava all'epoca Pasolini, differisce dallo
"sviluppo" perché, mentre quest'ultimo è un semplice aumento
quantitativo di disponibilità, il progresso è un miglioramento qualitativo del
nostro modo di vivere.
Oggi alla "storia", che prevede l'uomo come suo soggetto, sono subentrati da un lato la "tecnica" che prevede l'uomo come suo semplice funzionario, e dall'altro il "mercato" alle cui leggi la condizione umana deve adeguarsi. A differenza della storia, tecnica e mercato non hanno altro senso se non il loro rispettivo auto-potenziamento, a prescindere dalla maggiore o minore felicità dell'umano, le cui sorti fuoriescono dallo scenario da loro dispiegato. Questo è il grande capovolgimento avvenuto negli anni successivi alle utopie del Sessantotto, dove col termine "utopia" si deve intendere quella forza che muove anime, azioni e comportamenti verso uno scopo, a prescindere dalla sua realizzabilità. Questa forza è essenziale per dar senso alla propria vita. E di questa forza sono stati privati i giovani di oggi che sostanzialmente per questa ragione si anestetizzano, se non tutti nella droga, spesso nell'inedia e nel disinteresse generalizzato, giustificato dal fatto che nessuno, ma proprio nessuno, si interessa di loro. (…). Ed è il mondo della vita che i giovani vogliono e pretendono, al di là della rigorosa razionalità della tecnica e del mercato, a cui non sembra interessi gran che la sorte dei giovani, per non parlare dell'umanità in generale. Tratto da “Giovani d'oggi senza storia e senza utopia” di Umberto Galimberti, pubblicato sul settimanale “D” del 26 di febbraio dell’anno 20
Oggi alla "storia", che prevede l'uomo come suo soggetto, sono subentrati da un lato la "tecnica" che prevede l'uomo come suo semplice funzionario, e dall'altro il "mercato" alle cui leggi la condizione umana deve adeguarsi. A differenza della storia, tecnica e mercato non hanno altro senso se non il loro rispettivo auto-potenziamento, a prescindere dalla maggiore o minore felicità dell'umano, le cui sorti fuoriescono dallo scenario da loro dispiegato. Questo è il grande capovolgimento avvenuto negli anni successivi alle utopie del Sessantotto, dove col termine "utopia" si deve intendere quella forza che muove anime, azioni e comportamenti verso uno scopo, a prescindere dalla sua realizzabilità. Questa forza è essenziale per dar senso alla propria vita. E di questa forza sono stati privati i giovani di oggi che sostanzialmente per questa ragione si anestetizzano, se non tutti nella droga, spesso nell'inedia e nel disinteresse generalizzato, giustificato dal fatto che nessuno, ma proprio nessuno, si interessa di loro. (…). Ed è il mondo della vita che i giovani vogliono e pretendono, al di là della rigorosa razionalità della tecnica e del mercato, a cui non sembra interessi gran che la sorte dei giovani, per non parlare dell'umanità in generale. Tratto da “Giovani d'oggi senza storia e senza utopia” di Umberto Galimberti, pubblicato sul settimanale “D” del 26 di febbraio dell’anno 20
Da “Un’utopia più efficace di qualunque realtà”, intervista di Laura Traldi al filosofo Rutger Bregman pubblicata sul settimanale “D” del 21 di gennaio 2017: (…). Perché il momento di parlare di nuove utopie è adesso? «Perché siamo in un momento di crisi. Che in greco significa “cambiamento epocale”. E quando questo avviene, come la storia ci insegna, il mondo abbraccia la prima filosofia che propone una via di uscita. Il neoliberismo, per esempio, è iniziato con le discussioni, quasi da setta, della Mont Pelerin Society nel 1947. Ma è diventato sistema con la crisi petrolifera degli anni ’70, quando ormai era un pensiero in incubazione da un trentennio. Il problema vero è che quando è iniziata la crisi, nel 2008, non c’era nulla. Da quel vuoto di idee e conseguente scompiglio totale è emerso uno come Donald Trump, la cui elezione dimostra che le ricette costruite dentro un sistema morente - quelle su cui si arroccano i socialdemocratici di tutto il mondo - non funzionano. (…)».
Al momento, invece, sembra apprezzato solo
chi propone ricette nazionaliste e protezioniste. Perché? «Perché i populisti
sono più “smart”. Hanno capito che la gente ha sete di sogni e che la politica,
per affascinare, deve lasciar perdere i discorsi su tasse, potere d’acquisto,
Pil. Chi fa presa sulla gente oggi lo fa costruendo utopie: che non sono le mie
ma quelle che tantissimi approvano, che seducono promettendo molto di più
dell’ultimo iPhone - cioè del consumo a oltranza, su cui sembra basarsi la
sopravvivenza dello status quo - e facendo leva su sentimenti primitivi ma veri
come quello di appartenenza religiosa, nazionale, culturale. Vede, io sul
populismo ho cambiato idea. Ero convinto che fosse necessario combatterlo
spiegando alla gente perché ha torto. Ora invece penso sia il nostro sguardo
paternalista a fare guardare noi progressisti con sospetto, e che l’unica
risposta sia la creazione di un populismo positivo e aperto. Ancora più
seducente, perché basato su ricerche e dati, non opinioni e xenofobia».
La prima critica mossa a chi avanza proposte
come le sue è sempre stata «Sarebbe bello, se la gente fosse onesta». Lei cosa
risponde? «Che la maggior parte della gente è onesta. E lo vediamo con la corsa
alla solidarietà a seguito delle catastrofi. Dopo Katrina, sui giornali non si
è parlato che di sciacallaggio, ma in realtà tutti si sono mossi per dare
aiuto. Perché quando alla gente si dà l’opportunità di fare, nella maggior parte
dei casi si rimbocca le maniche. Lo ha provato anche un esperimento in Belgio,
guidato dallo storico David Van Reybrouck, autore di Against Elections: The
Case for Democracy. Quando il paese faticava a trovare un governo, mille
cittadini sono stati selezionati secondo un procedimento simile a quello delle
giurie popolari, ed è stato loro chiesto di discutere di tematiche
istituzionali. Quello che è successo è anti-mediatico: hanno discusso, a volte
litigato, ma alla fine hanno formulato soluzioni frutto di compromessi. A
dimostrazione che la responsabilizzazione funziona».
Anche se ci sono di mezzo i soldi? «Assolutamente.
La prova è la lunga tradizione di budgettizzazione partecipativa in Sud
America, ora implementata, secondo uno studio del Journal of Public
Deliberation, in 1.500 città nel mondo. Tutto è iniziato a Porto Alegre nel
1989, quando la municipalità ha assegnato il 25% delle entrate ai cittadini,
perché decidessero come spenderle. Risultato: la corruzione si è notevolmente
ridotta perché il controllo era diretto e partecipato; e le lamentele si sono
esaurite perché amministrando si impara che non tutto è possibile».
Negli esperimenti di reddito di cittadinanza
(…), società e individui migliorano in termini di produttività. Sarebbe la fine
del Neets, ragazzi che non studiano né cercano lavoro? «Quasi tutti vogliono
dare un senso alla propria vita. Ma uscire dalla spirale della povertà è
difficile: è provato che un contesto indigente porta a un calo in QI di 13-14
punti. Quando ci si chiede come mai i più poveri facciano scelte
controproducenti, la risposta è: perché sono poveri. Chiunque commetterebbe
errori, nella stessa situazione. Se riuscissimo a sradicare la povertà, avremmo
un’esplosione di creatività e di voglia di fare. Oggi invece diciamo: no,
devono uscirne loro, diamogli gli strumenti. E li costringiamo a studiare, a
seguire programmi governativi. Ma non funziona. Il perché me l’ha spiegato con
una metafora Eldar Shafir (professore di Psicologia a Princeton e co-autore di
Scarsity, perché avere poco significa tanto, ed. Il Saggiatore, 2014): fornire
strumenti a chi è indigente è come insegnargli a stare a galla in una piscina
riscaldata, e poi gettarlo nell’oceano: annegherà. Meglio toglierlo dal mare in
tempesta e poi dargli la possibilità di imparare a nuotare. Il salario di
cittadinanza è questo: togliere le persone dall’oceano, sradicare la povertà.
Che è una mancanza di denaro, non di carattere».
È una visione liberista in cui lo Stato ha
un ruolo infinitesimale. «In effetti in questi termini il mio pensiero è di
destra. Sono convinto che gli individui sappiano cosa fare più dello Stato.
Vorrei uno Stato grande in termini economici (che raccoglie soldi con le tasse
e li ridistribuisce) ma piccolo per quanto riguarda il controllo sull’individuo
e la sua libertà. Al momento invece abbiamo l’opposto: Stati che privatizzano i
servizi essenziali e diminuiscono le tasse (in Italia pare un assurdo, ma
nell’Occidente le imposte erano molto più alte negli anni ’60 rispetto a oggi)
ma sono oppressivi su cosa dobbiamo fare nella vita: lavorare e acquistare, per
bearci di quello che abbiamo. Come se avere fosse l’aspirazione delle persone e
non, come invece è, quella del mercato. Siamo riusciti a creare un paesaggio
fatto del peggio del pensiero neoliberista e socialista».
Le riforme più urgenti per ogni Stato, (…),
dovrebbero essere la settimana lavorativa di 15 ore e incentivi per chi si
occupa di educazione, ricerca, lavori socialmente utili. «Metterebbero in
discussione l’assioma che sostiene il sistema: produrre e consumare. John
Maynard Keynes diceva che entro il 2030 le macchine ci avrebbero permesso di
lavorare non più di 15 ore. Potremmo già farlo se non avessimo inventato
l’iperconsumo. Invece di lavorare meno per produrre quanto serve, lavoriamo di
più per creare cose inutili, inquinando e impegnando cervelli in attività
vuote. Lo dice Jeffrey Hammerbacker, lo scienziato che ha creato il team di
analisti di dati di Facebook (e co-inventore del termine Data Scientist, ndr):
“Le più grandi menti della mia generazione passano la giornata a pensare a come
far cliccare i banner pubblicitari”. Prima delle riforme di Reagan, il numero
di laureati di Harvard che si dedicava a ricerca o insegnamento era il doppio
di oggi. Dobbiamo rivalorizzare le professioni utili (dall’insegnante al
netturbino). E non si dica che se lavorassimo meno saremmo larve: in Uk e Usa
si lavorano più ore in assoluto, e la gente ne passa quattro al giorno davanti
alla tv: nove anni a testa».
Serve un leader per arrivare a tutto questo?
O una rivoluzione? «I leader non mi interessano. I paesi non sono aziende in
cui basta un Ceo carismatico a far funzionare tutto. E non penso a una
rivoluzione: il XX secolo è stato pieno di sogni sfociati in dittature
ideologiche. Una visione utopica dovrebbe essere realizzata lentamente. Un
esempio arriva dall’Olanda. Ho scritto della necessità di implementare un
salario di cittadinanza già nel 2013. Era un’idea non nuova, ma dimenticata. E
ora, appena tre anni dopo, grazie alle pressioni dal basso, il reddito di
cittadinanza è stato adottato (dal primo gennaio) a Utrecht. E venti
municipalità la seguiranno quest’anno, contro la politica del governo nazionale
fatta di tagli, burocratizzazione del welfare e paternalismo sull’accesso ai
sussidi».
E l’individuo, che cosa dovrebbe fare? «Da
solo nulla. Ma bisogna ricordare che insieme si può. C’è tanto ottimismo
individuale e poco collettivo. Siamo stati educati così. Cambiare questa
prospettiva sarebbe un inizio. E dovremmo smettere di fare i moralisti, di
mettere all’indice chi è bloccato dal sistema, dall’ignoranza o dalla povertà.
Un mondo migliore non inizia con “te” ma con “noi”. Guardare gli altri con
compassione - nel significato latino del termine - è il primo passo».
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