La “sfogliatura” proposta è
del 22 di maggio dell’anno 2010, un giorno che era di sabato. Al tempo si era
appena imboccato il tunnel della “crisi” che i più attenti e smaliziati osservatori
andavano definendo essere la perfetta “stagnazione secolare”. Donde gli
immancabili epiteti a loro indirizzo da parte dei solerti turiferari del potere
economico-politico. Da quel 22 di maggio ci si ritrova oggigiorno in quell’inestricabile
groviglio che avvolge nelle sue “spire” soprattutto le giovani generazioni. Scrivevo:
Ha senso avere nostalgia per un’epoca
storica lontana assai? Per un’epoca storica della quale non si ha l’esatta
percezione dello stato delle cose, materiali ed immateriali, esistenti in essa?
Credo che possa accadere d'avere nostalgia per un’epoca passata. Accade a chi
s’innamori perdutamente del medioevo, a chi si innamori del rinascimento, e
così via dicendo. A me è insorta una nostalgia forte per l’età della storia che
aveva al centro dei suoi interessi materiali il baratto. Ho parlato di un’età,
che sarà – non sono uno storico - cosa ben diversa da un’epoca della storia.
Un’epoca storica penso sia cosa ben distinta e definibile, un’età della storia è
quasi incerta, non ha limiti in basso ed in alto. Sì, dicevo, mi sono
innamorato dell’età del baratto. Io do, o davo, una cosa a te, tu dai, o davi,
una cosa a me. Cosa c’è di più certo, razionale e sostanziale al contempo? E
penso che questa nostalgia per l’età del baratto mi sia insorta per una forma
di ripulsa ossessiva per tutto ciò che oggigiorno avviene nel mondo della
finanza da profittatori, che ha svuotato, dall’interno, come il peggiore dei
parassiti, l’economia reale, quella dei fatti e delle cose concrete create e
prodotte. Il cosiddetto “capitalismo
finanziario” che si è letteralmente mangiato il cosiddetto “capitalismo manifatturiero”. Non ne
posso più di sentir parlare dei “derivati”,
dei “future”, di cose sfuggevoli
così, impalpabili, evanescenti, che non arrecano sollievo alcuno alle masse più
o meno indigenti che popolano il pianeta Terra. Giovevoli solo ad una ristretta
cricca di profittatori. Cosa ci capisce l’uomo della strada, o di internet
perbacco, dell’attuale crisi finanziaria che si è globalizzata a tal punto e della
quale sembra non potersi avere una idea chicchessia di una uscita? E di questa
invenzione di moneta che, in caso di crisi profonda dei mercati, non si stampa
più ma che al contempo, il solo parlarne, crea o non crea maggiore o minore
fiducia nei mercati dell’intero mondo? Abbiamo bisogno di cose concrete. Non se
ne può più di intrallazzi vari. Sarà la limitatezza mia, ma un ritorno
all’economia delle cose, degli oggetti, al mondo della produzione e degli
operai in carne ed ossa, al loro riconoscersi in una classe sociale ben
definita, sarebbe il modo più semplice per ridare un ruolo a tutti noi,
condannati a consumare senza sosta e senza un perché. Non ho la competenza per
affermare che all’età del baratto si sia, in seguito, sostituita l’età degli
scambi impari, ovvero tra e con oggetti o beni diversi. Io do una cosa reale a
te, una zucca, una ciabatta, un pezzo di pane, e così via dicendo, e tu in
cambio mi dai l’equivalente in sale, per esempio, o in conchiglie raccolte
sulla spiaggia del mare, o in pezzi di metallo vilmente lavorato. È così che è
avvenuto? Dal baratto, allo scambio con cose che pur se materiali afferiscono a
quella idea che ha portato presto alle monete, al vil danaro? E quante conchiglie
saranno state necessarie per una zucca? E quanti pezzi di metallo per un
cetriolo succulento? A quell’età, forse, non si era pervenuti ancora alla
formulazione di quell’idea rivoluzionaria ed insensata, insensata per i furbi
di tutte le epoche storiche, che “la
proprietà è furto”. Ci avrebbe pensato un tale a nome Pierre-Joseph
Proudhon. Ma tanto tempo dopo. E molto prima assai dei “derivati” e dei “future”.
Di questo mio stato ansioso, incline alla nostalgia per il ritorno ad epoche
storiche più che oscure, stato ansioso strettamente personale e che spero universalmente
non condiviso da nessun altro essere pensante che sia, ne ha scritto, senza
averne nozione alcuna, nella massima Sua solitudine, Massimo Fini su “il Fatto
Quotidiano”. Titolo della Sua riflessione: “La
crisi e il denaro fantasma”. La trascrivo di seguito in parte:
(…). È da 15 anni che i Paesi industrializzati, di fronte alle crisi che si susseguono a ritmi sempre più incalzanti, si comportano in questo modo: immettendo nel sistema altro denaro inesistente. Nel 1996 il Messico era sull’orlo della bancarotta: doveva 50 miliardi di dollari ai Paesi industrializzati. Cosa fecero questi? Gli prestarono altri 50 miliardi perché potesse restituire i primi 50. Un’operazione apparentemente assurda, che serviva però a tenere il Messico al gancio del mondo industrializzato che poteva così continuare a vendere ai messicani i propri prodotti. Più o meno alla stessa maniera, con qualche variante, ci si comportò per la crisi delle piccole tigri asiatiche nel 1997. Così si è fatto per il collasso dei subprime americani nell’estate 2007, default che si è poi propagato in Europa e di cui l’attuale crisi è un’ulteriore conseguenza (che cosa sono gli sbalorditivi tre trilioni di dollari comparsi improvvisamente nelle mani del governo di Washington? O ce li avevano prima e allora non si capisce perché non li abbiano usati o è denaro puramente virtuale). Si tende da parte dei governi e degli economisti al loro servizio a dare la colpa di queste crisi alla speculazione e agli eccessi del capitalismo finanziario. È uno scarico di responsabilità, nient’affatto innocente, per eludere il nocciolo duro e vero della questione: è l’intero nostro modello di sviluppo ad essere tossico. Il capitalismo finanziario non è che la diretta e inevitabile conseguenza, oltre che, in qualche modo, la necessaria precondizione, di quello industriale. Ne seguono le stesse logiche: il profitto, la sua massimizzazione col minimo sforzo e, soprattutto, l’inesausta scommessa sul futuro. Un futuro ipotecato fino ad epoche così sideralmente lontane da essere inesistente. Come il denaro che lo rappresenta (con un millesimo del denaro circolante attualmente, nelle sue varie forme, si comprano tutti i beni e i servizi del mondo. Il resto cos’è?). Prendersela col capitalismo finanziario, sottacendo di quello industriale, è come meravigliarsi che avendo inventato la pallottola si sia arrivati al missile. Noi ci stiamo comportando come un individuo che avendo un debito, per coprirlo, ne fa uno più grosso e poi un altro più grande ancora e così via. A livello individuale il giochetto dura poco. Per un modello che si pone come planetario le cose vanno più per le lunghe. Ma un sistema che si basa sulle crescite esponenziali, che esistono in matematica, non in natura, quando non avrà più possibilità di espandersi imploderà fatalmente su se stesso. E ci siamo vicini. (…). Il paradosso di questo modello di sviluppo è che avendo puntato tutto sul cavallo dell’economia, marginalizzando ogni altro valore ed esigenza umana, sta fallendo proprio sul piano dell’economia. (…).
(…). È da 15 anni che i Paesi industrializzati, di fronte alle crisi che si susseguono a ritmi sempre più incalzanti, si comportano in questo modo: immettendo nel sistema altro denaro inesistente. Nel 1996 il Messico era sull’orlo della bancarotta: doveva 50 miliardi di dollari ai Paesi industrializzati. Cosa fecero questi? Gli prestarono altri 50 miliardi perché potesse restituire i primi 50. Un’operazione apparentemente assurda, che serviva però a tenere il Messico al gancio del mondo industrializzato che poteva così continuare a vendere ai messicani i propri prodotti. Più o meno alla stessa maniera, con qualche variante, ci si comportò per la crisi delle piccole tigri asiatiche nel 1997. Così si è fatto per il collasso dei subprime americani nell’estate 2007, default che si è poi propagato in Europa e di cui l’attuale crisi è un’ulteriore conseguenza (che cosa sono gli sbalorditivi tre trilioni di dollari comparsi improvvisamente nelle mani del governo di Washington? O ce li avevano prima e allora non si capisce perché non li abbiano usati o è denaro puramente virtuale). Si tende da parte dei governi e degli economisti al loro servizio a dare la colpa di queste crisi alla speculazione e agli eccessi del capitalismo finanziario. È uno scarico di responsabilità, nient’affatto innocente, per eludere il nocciolo duro e vero della questione: è l’intero nostro modello di sviluppo ad essere tossico. Il capitalismo finanziario non è che la diretta e inevitabile conseguenza, oltre che, in qualche modo, la necessaria precondizione, di quello industriale. Ne seguono le stesse logiche: il profitto, la sua massimizzazione col minimo sforzo e, soprattutto, l’inesausta scommessa sul futuro. Un futuro ipotecato fino ad epoche così sideralmente lontane da essere inesistente. Come il denaro che lo rappresenta (con un millesimo del denaro circolante attualmente, nelle sue varie forme, si comprano tutti i beni e i servizi del mondo. Il resto cos’è?). Prendersela col capitalismo finanziario, sottacendo di quello industriale, è come meravigliarsi che avendo inventato la pallottola si sia arrivati al missile. Noi ci stiamo comportando come un individuo che avendo un debito, per coprirlo, ne fa uno più grosso e poi un altro più grande ancora e così via. A livello individuale il giochetto dura poco. Per un modello che si pone come planetario le cose vanno più per le lunghe. Ma un sistema che si basa sulle crescite esponenziali, che esistono in matematica, non in natura, quando non avrà più possibilità di espandersi imploderà fatalmente su se stesso. E ci siamo vicini. (…). Il paradosso di questo modello di sviluppo è che avendo puntato tutto sul cavallo dell’economia, marginalizzando ogni altro valore ed esigenza umana, sta fallendo proprio sul piano dell’economia. (…).
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