Da “Felicità
è sentirsi comodi nel mondo” di Claudia De Lillo – in arte “Elasti” –
pubblicato sul settimanale “D” del 13 di febbraio dell’anno 2016: Quando
ero piccola, stavo molto più scomoda di adesso. Ero troppo magra, troppo
pallida, troppo normale, troppo fragile in mezzo ad altri, sempre più adeguati
di me. Ero a disagio nei miei panni, ma soprattutto ero convinta che il mondo
non fosse un posto per me. Era troppo grande, troppo infido, troppo spigoloso,
troppo pauroso, troppo aggrovigliato perché potessi accomodarmici e rilassarmi.
Come spesso, per fortuna, accade, le cose sono migliorate. Piano piano, ho
imparato ad accettare me stessa, con i miei bianchi, i miei neri e i miei
moltissimi grigi, e a nuotare nel mare che, da minaccioso e terrificante, è
diventato casa. Stare comodi è una conquista, una vittoria e, nel mio caso, il
frutto di un lavoro di squadra tra me e mia madre. Lei si era inventata una
formula magica per cacciare i mostri, dentro e fuori. Mi guardava negli occhi e
mi diceva: «Abbi fiducia». Ci sono anni in cui i genitori sono onnipotenti. In
quegli anni, l'imperativo incantato di mia madre disintegrava, nello spazio di
due parole, fantasmi, inettitudini, inadeguatezze e brutti pensieri. Credo che
se allora qualcuno le avesse domandato: «Cosa desideri per tua figlia?», lei
avrebbe risposto: «Solidità e coraggio». Perché, tra tutte le cose belle che un
essere umano completo e rotondo deve possedere, erano quelle che più mi
mancavano. Se, vari anni dopo, mi avessero chiesto, in quel tempo in cui
portavo in giro una pancia smisurata, uno sguardo liquido e un sorriso ebete:
«Cosa desideri per l'inquilino che domani diventerà tuo figlio?», avrei
risposto, sprovveduta e leggera, senza alcuna esitazione: «La felicità,
naturalmente». E avrei evaso, con un sostantivo sognante, semplice e
terribilmente incompleto, un interrogativo smisurato che contiene ambizioni,
bisogni, mancanze, proiezioni, modelli, visioni. Felicità era quello che volevo
per loro, quando abitavano la mia pancia, quando erano piccoli, inconsapevoli e
bisognosi di tutto, quando scoprivano il sapore della pizza o del cioccolato e
si illuminavano di incredulo stupore, quando cadevano per terra, cento, mille
volte, e si rialzavano immediatamente perché crescere è un'avventurosa
necessità che richiede una tenacia ottusa e infaticabile. Poi, da quella prima
pizza e da quei primi passi, sono cresciuti. E forse, con loro, sono cresciuta
anch'io. E la felicità, come ambizione, non è stata più abbastanza. Cosa
voglio, oggi, per il domani di un dodicenne ruvido e sornione, di un novenne
eccentrico e sognatore, di un seienne torvo e seduttore? Vorrei che fossero
uomini per bene, capaci di cucinare e cucire i bottoni, di chiedere scusa e
accogliere, di abbassare la guardia e dire grazie, di essere se stessi sempre,
di prendersi le proprie responsabilità, di guardare negli occhi, senza
abbassarli né alzarli, di domandare permesso, di fare passi avanti e indietro,
di ridere disarmati. Vorrei che fossero uomini capaci di rispetto e tenerezza,
d'ironia e, soprattutto, di autoironia, d'integrità e coerenza, di generosità e
tolleranza. E poi vorrei che trovassero una strada da seguire, una casa da
costruire, un progetto più grande di loro su cui incaponirsi. Vorrei che
potessero scegliere dove e con chi stare e che lì ci stessero comodi. Vorrei
che non conoscessero l'inquietudine distruttiva di chi non sa chi è. Vorrei che
avessero spalle larghe per offrire riparo a chi non le ha. Vorrei che
scoprissero un talento, una passione, un amore e ci si dedicassero come a una
missione vitale. Vorrei che un giorno, guardando indietro, sorridessero. E
anche guardando avanti. E mentre penso a cosa desidero per loro, prendo
coscienza che loro non sono solo quei tre buffi individui in evoluzione che ci
somigliano ma non troppo. Prendo coscienza che i figli altro non sono che il
domani. Perché i figli sono soprattutto questo: il futuro di tutti noi. E, per
il futuro, dobbiamo avere sogni grandissimi.
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