Da “Riscoprire
le radici per vincere il fatalismo” di Giovanni Valentini, pubblicato sul
quotidiano la Repubblica del 27 di febbraio dell’anno 2015: Siamo,
da secoli, un popolo di guelfi e ghibellini. Ma rischiamo ormai di diventare un
popolo di "gufi" e "rosiconi", per usare una terminologia
abituale al nostro presidente del Consiglio. Un Paese che ha scarsa
considerazione di se stesso: anzi, per stare alle ultime statistiche, quello
più pessimista del mondo, con la più bassa autostima in assoluto. Noi italiani
non ci piaciamo e non ci vogliamo bene. E il peggio è che ci piaciamo anche
meno di quanto piaciamo agli stranieri. I dati e le tabelle forniti dalla
ricerca del "Reputation Institute" per il 2014 riflettono un'Italia
sfiduciata e smarrita, priva di un'identità forte, insicura. Quel grafico che
relega il nostro Paese all'ultimo posto nella graduatoria mondiale della
"self confidence", per cui registriamo il gap più negativo fra la
reputazione esterna e quella interna, raffigura — come un elettroencefalogramma
piatto — la crisi esistenziale che affligge oggi gli italiani. Quasi una
sindrome collettiva di rassegnazione e disorientamento, al limite della
disperazione sociale. L'Italia rappresentata da quell'inquietante meno 15,2
(indice negativo della differenza fra come ci reputano gli altri e come noi
reputiamo noi stessi), è un Paese che si sente senza orizzonte e senza futuro.
Certo, il disfattismo nazionale è una tara ereditaria che deriva dal nostro
dna, dal nostro codice genetico. Ma la fiducia — al pari del coraggio di
manzoniana memoria — se un popolo non ce l'ha, non se la può dare
improvvisamente: è proprio un deficit, una carenza organica di (…) «coesione,
forza e volontà collettiva» (…). Il fatto è che nel sistema circolatorio di
questa Italia contemporanea, più le distanze aumentano invece di ridursi, più
si propaga — come in un contagio virale — un senso diffuso d'ingiustizia
sociale. E quindi, di frustrazione diffusa. Ne deriva il ribellismo latente che
coinvolge in particolare le generazioni più giovani, a cui la società adulta
non ha saputo offrire risorse e prospettive. Occorre, a questo punto, una
scossa. Uno choc salutare, un trauma positivo. O magari, un soprassalto
virtuoso d'impegno e di responsabilità. Toccherebbe innanzitutto alla politica
produrre quella «svolta buona» (…). Ma, per parafrasare il titolo di una
trasmissione televisiva di successo, la politica siamo noi. E allora anche la
società civile, o più spesso incivile, deve fare la sua parte: emendarsi dai
propri vizi e difetti; rinunciare ai privilegi e ai corporativismi; affrancarsi
magari da evasione, corruzione, abusivismo, truffe, inganni e raggiri. Non è
solo una questione d'immagine o di reputazione, dunque. È una questione più
profonda d'identità, di fierezza, di orgoglio nazionale. Per stimare di più noi
stessi e il nostro Paese, dobbiamo ritrovare il senso d'appartenenza,
riscoprire le nostre radici.
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