"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

martedì 7 febbraio 2017

Sfogliature. 72 “Crisi, ricchezza ed oligarchie”.



La “sfogliatura” proposta risale al 29 di novembre – di “martedì”, come l’oggi - dell’anno 2011. Si parlava al tempo di “crisi” e di “debiti”, pubblici o privati. Forse perché il tradimento della “sinistra” era lì tutto da venire. Come lo è stato. Tradimento che è scivolato sino a questi giorni nostri laddove quella “sinistra” ha voluto e cercato altri obiettivi verso i quali indirizzare le sue aberranti analisi e la sua prassi di governo devastante. Ha scritto Curzio Maltese – su “il Venerdì di Repubblica” del 3 di febbraio – in “Guardare Trump in Tv è un tuffo gelido nel passato”: “Ci sono voluti mille anni per riavere in Europa la rete di strade e acquedotti e il livello di civiltà giuridica dell’impero romano. Il buio della regressione è sempre in agguato. Forse un giorno si guarderà alla stagione dei diritti democratici, sgorgata dalle idee illuministe, come una breve e illusoria parentesi in una storia umana dominata dall’oscurantismo fanatico e autoritario. Si poteva e doveva insomma considerare anche l’ipotesi che andasse male. (…). Questo stupore ci rende patetici agli occhi dei più giovani. Una propaganda ben organizzata dal potere e condivisa da destra a sinistra li ha convinti che la nostra difesa dei principi è in realtà una battaglia per mantenere privilegi acquisiti. Ed è difficile spiegare che il diritto a un lavoro dignitoso e garantito, conquistato a prezzo di una lotta secolare, non era un privilegio, ma la base per un futuro migliore per tutti. Ora, (…), ci raccontano che il reddito accantonato in  una vita di lavoro non ci sarà restituito nella pensione perché si fa torto ai giovani. (…)”. Mirabilmente, sull’antico adagio “divide et impera”. Andavo annotando a quel tempo: Ha scritto, nel Suo più volte citato “Sono dolori se la ricchezza è un fantasma” – pubblicato sul quotidiano l’Unità -, il professor Giorgio Ruffolo: (…). …è avvenuto con la crisi dalla quale non siamo ancora usciti. Essa è stata preceduta da una inflazione misurata dalla esplosione della liquidità. Nel 2007, al colmo dell’espansione, la liquidità monetaria nelle più varie forme aveva raggiunto un livello dodici volte superiore al prodotto reale mondiale. Nel 2008 scoppiò la crisi nel settore del credito immobiliare negli Stati Uniti, dilagando poi in tutta l’economia e in tutto il mondo. (…). Qui interessa fare emergere il fenomeno della ricchezza fittizia cui il capitalismo finanziario ha dato luogo. Quel fenomeno ha origini storiche remote rilevate a suo tempo da Karl Polanyi e cioè nella mercificazione della moneta realizzata dal capitalismo insieme alla mercificazione dei fattori produttivi naturali (terra e lavoro). La moneta è una istituzione che consente di misurare e di scambiare le merci. Quando, usata come merce essa stessa, diventa oggetto di accumulazione, genera processi di arricchimento (…) ai quali non corrisponde alcuna produzione di merci reale: una ricchezza fittizia, costituita da titoli che svolgono nell’economia reale la funzione svolta nel gioco della roulette dai gettoni. I gettoni della roulette però non hanno alcun valore. sono indicatori di ricchezza, non ricchezza. Se fossero accumulati come ricchezza, distruggerebbero il gioco. La differenza tra beni reali e titoli finanziari si coglie nella differenza tra la regolazione esercitata nello scambio di beni e la sregolatezza consentita dallo scambio di titoli. (…). È così che si formano le bolle speculative. 
C’è un dato, o un lato positivo che dir si voglia, nella vicenda della “crisi”: sono scomparse dai titoli e dai resoconti che ne fanno i media, tutti indistintamente, le liturgie orgiastiche del “bunga-bunga”, che gli inutili, prezzolati corifei smentivano e che cercavano di far passare, nell’indigestione mediatica generale, come “cene eleganti”. Evviva. È che la confusione sotto il cielo è massima. “Spread”, borse che scendono, borse che salgono, è tutto un turbinio di confusione che lascia il cittadino medio nell’oscurità più assoluta. Ci sarebbe bisogno di più luce. Ma come averla? Oggigiorno è tutto uno strapparsi le vesti per il buon euro. Salvare l’euro! Come dire, “salvate il soldato Ryan”. Ricordate il drammatico film di Steven Spielberg? Ad un certo punto della carneficina un protagonista se ne esce con la battuta che segue: “Una parte di me dice che il ragazzo ha ragione... Che ha fatto per meritarsi questo? L'altra dice: e se invece restiamo? Potremmo dire che salvare il soldato Ryan è stata l'unica cosa buona che abbiamo tirato fuori da questo orrendo casino di merda!”. Metteteci l’euro al posto del soldato Ryan ed il gioco è fatto: è un “orrendo casino di merda!”. Questa crisi, intendo dire! Nessuno a dire una semplicissima verità: avevamo creato una “liquidità monetaria” – per dirla col professor Ruffolo – mostruosa, solo per consentici di continuare a campare sui debiti e nell’illusorio benessere che i debiti creano e beatamente consentono. Ma, la festa è finita. I debiti “sovrani” o i debiti privati vanno resi per intero. “It’s the economy, stupid”,  di clintoniana memoria. Di seguito trascrivo, in parte, un’interessante riflessione della professoressa Nadia Urbinati – pubblicata sul quotidiano “la Repubblica” – che ha per titolo “La crisi, i ricchi e le oligarchie”. Da leggere: (…). …la democrazia non elimina l´oligarchia ma la incorpora. Questo lavoro di inclusione dura e ha successo fino a quando l´economia cresce e produce ricchezza alla quale tutti, chi più e chi meno, possono sperare di accedere e, nei fatti, vi accedono anche. Ma quando questa condizione decade, allora la moltitudine comincia a proporre politiche che intaccano le ricchezze e le proprietà dei pochi, politiche fiscali redistributive. È a questo punto che la differenza tra oligarchia e democrazia si mostra con tutta la sua radicalità. (…). Il linguaggio per dualismi – i pochi e i molti – ha un sapore quasi antico, arcaico. Chi sono i pochi? E come denotarli? Non essendo più i pochi che producono dirigendo masse di lavoratori, non possono essere qualificati come capitalisti tradizionali. Sono super-ricchi – nuovi e meno nuovi. Individuabili solo per quantità: 1%. E infatti, quando Aristotele doveva definire il governo democratico lo faceva identificandolo con i poveri, che sono i tanti. Non perché una società democratica sia fatta di poveri, ma per una ragione molto più sottile e che si vede oggi molto bene: perché non appena la questione della ricchezza materiale si fa critica in quanto la sua distribuzione prende vie inegualitarie, allora i molti si rappresentano (e spesso sono) come poveri o impoveriti. A questo punto, il dualismo è una realtà che può essere rappresentata solo con la quantità, e ciò è in sintonia con la democrazia, la quale è un governo fondato sulla quantità (dei voti). Allora 1% contro 99% diventa la raffigurazione aritmetica dell´identità della democrazia quando il patto tra i molti e i pochi si rompe perché la ricchezza si muove in una direzione soltanto. (…). Insomma non esiste società senza oligarchia. Gli Stati si possono quindi distinguere tra quelli schiettamente oligarchici e quelli che hanno siglato un compromesso con la democrazia. Nell'Atene classica quel compromesso riuscì per alcuni decenni, benché l´alternativa oligarchica restasse sempre una concreta possibilità visto che le grandi famiglie non accettarono mai il governo dei molti. I governi rappresentativi sono riusciti a correggere questa condizione di endogena precarietà della democrazia traducendo in meccanismi costituzionali il rapporto con i pochi, dalla cui collocazione è sempre dipesa la stabilità dei sistemi politici. Consentire a questi di competere attraverso le elezioni è stato un modo per incorporarli – con il contributo dei molti che li eleggono, giudicano, controllano e limitano nel potere. Il successo delle democrazie rappresentative costituzionali ha corrisposto a due secoli e mezzo di espansione della società di mercato nelle due forme che conosciamo: il capitalismo industriale e, ora, quello finanziario. È stato un successo reso possibile da una condivisione generale degli oneri che ha consentito che il divario tra arricchimento dei pochi e dei molti non fosse fuori controllo. Oggi questo compromesso è rotto. E per molti ordinari cittadini è cominciato un duro periodo di impoverimento – che non è la stessa cosa della povertà. La durezza di questa crisi consiste nel fatto che per la prima volta cittadini che avevano conosciuto per due o tre generazioni un´espansione dei diritti e delle possibilità, si trovano oggi di fronte alla perdita di status, a non potere aver progetti per il futuro. Con la propaganda mediatica, come ci racconta Paul Krugman, che li vuole convincere ad accettare l´impoverimento senza dare loro in cambio alcuna certezza per il domani. In passato quando si trattava di tirare la cinghia si invocava l´interesse nazionale, e i super-ricchi erano in molti casi, come gli Stati Uniti, i primi a partecipare. Ma oggi non vogliono condividere gli oneri. Questa è la gravità dell'attuale tensione tra oligarchia e democrazia: se le due forze si mostrano così bene oggi, se in altre parole l´eguaglianza, anzi la sua violazione, è oggi il tema centrale è perché il patto che mitigava la diseguaglianza e incorporava l´oligarchia dentro la democrazia mostra la corda. Nessuno può allo stato attuale delle cose dire come lo scontro si evolverà. (…).

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