Da "L’illusione
della rivolta apre le porte ai dittatori", intervista di Marco Pacini
a Colin Crouch - il sociologo che ha inventato la parola “postdemocrazia” –
pubblicata sul settimanale l’Espresso del 24 di dicembre dell’anno 2016: (…). «Questi
movimenti populisti e nazionalisti – (…) - sono una rivolta contro la
postdemocrazia (…). Ma secondo me conducono verso qualcosa di peggio della
postdemocrazia. Forse il caso italiano, e mi riferisco al Movimento 5stelle, è
ancora parzialmente diverso. Ma quando osserviamo i nuovi movimenti populisti
in Paesi come la Gran Bretagna e gli Stati Uniti, quello che emerge è un
conflitto profondo tra ragione ed emozione, un rifiuto del ragionamento. Forse
la politica democratica nella postdemocrazia era ancora politica, senza un
prevalere delle passioni, delle emozioni; era piuttosto dominata da dati,
ragioni economiche, tecnologia. Ma conservava qualcosa di democratico».
In “Postdemocrazia” lei scriveva che “la massa dei cittadini svolge un ruolo passivo, acquiescente, persino apatico, limitandosi a reagire ai segnali che riceve, e a parte lo spettacolo della lotta elettorale, la politica viene decisa in privato dall’integrazione tra i governi eletti e le élite che rappresentano quasi esclusivamente interessi economici”. Oggi è la rabbia, più che l’apatia, a dominare la scena, con esiti imprevedibili. «Ciò a cui assistiamo prende la forma di una rivolta delle emozioni. Come avvenne in Europa negli anni 20 e 30 con Mussolini e Hitler. Ripeto: oggi è peggio. Assistiamo a una rivolta contro certi meccanismi postdemocratici che è ancora più postdemocratica. Perché non è il popolo che trionfa, ma certi leader che manipolano le emozioni e le paure del popolo. Non si tratta affatto di una rivolta contro le élite. Trump è un esempio perfetto di questa post-postdemocrazia. La politica delle emozioni che i Trump incarnano segna una svolta ancora più accentuata verso un “dopo” rispetto alla democrazia. E a questo processo partecipa anche l’informazione. Basti pensare a certi media online negli Usa e ad alcuni tabloid britannici che soffiavano sulla rivolta della Brexit attaccando pesantemente il ruolo dei giudici e del parlamento».
Dovremmo parlare allora di psicopolitica più
che di politica, come suggerisce qualche filosofo? «Psicopolitica è un termine
pertinente per descrivere i fenomeni in atto. Io sono un sociologo, ma credo
che oggi sociologia e psicologia debbano incontrarsi, procedere insieme
nell’analisi dei processi politici. Perché il background delle azioni politiche
spesso si chiama paura. Nient’altro che paura».
Chiamiamo populismo il vento che soffia
sull’Occidente. Uno stesso clima che ci fa assimilare l’elezione di Donald
Trump alla Brexit, e ora anche all’esito del voto nel referendum in Italia
sulla riforma della Costituzione, benché in questo caso il voto
anti-establishment sarebbe stato il Sì, secondo la campagna condotta dall’ex
premier anche con toni populisti. Sviste degli analisti e degli osservatori?
Semplificazioni? «In effetti è apparentemente molto paradossale e
contraddittorio quello che è accaduto in Italia. Ma al fondo di tutto c’è la
parola rivolta. Il caso italiano è più complicato. Quella che veniva presentata
come la “sostanza” del referendum pochi l’hanno vista. Ed è normale che in
Italia se uno vuole troppo... poi susciti questo tipo di reazione. Ma
nell’esito del voto, in generale, c’è dell’altro: dall’antieuropeismo
all’immigrazione. È una rivolta del No generica. Accade nel mondo in generale,
dalla Scandinavia all’Ungheria, alla Polonia; e ora anche in Gran Bretagna e
negli Stati Uniti. Sembra che ci siano molte persone oggi che si sentono
escluse dalla modernità. Non è stato un caso che gli elettori a favore della
Brexit fossero in gran parte anziani. Al di là del merito specifico sul quale
si chiede agli elettori di pronunciarsi, ciò che sembra prevalere, la vera
divisione, è tra rifiuto e accettazione del mondo moderno. E il punto più forte
di questa divisione riguarda l’immigrazione. Trump ha usato molto la paura
dell’islam benché avesse pochissimo a che fare con i principali temi delle
presidenziali. E nel voto sulla Brexit è accaduta la stessa cosa: non è
razionale, è emozionale. E dobbiamo chiederci che cosa significa, dove porta.
Il ruolo, la paura dell’Islam, fanno sempre parte del dibattito, magari
sottotraccia. Ma ogni giorno arriva sempre più in superficie. Dopo il
referendum sulla Brexit ho visto nel mio Paese un mutamento profondo, una nuova
legittimazione del razzismo fino al moltiplicarsi di attacchi e aggressioni
contro le persone di fede islamica».
È la fine del modello, o dell’illusione,
multiculturalista? «Siamo tutti divisi. Nel mondo islamico ci sono molte
persone che vogliono vivere pacificamente insieme, che credono che possiamo
condividere la cultura, cosa che la razza umana ha fatto da sempre. Per
esempio, è fondamentale nella cucina italiana il ruolo del pomodoro, ma il
pomodoro non è italiano, viene dall’America. Noi possiamo fare ancora questo
con la cultura islamica. Ma ci sono molti altri che vogliono il conflitto. C’è
una guerra in atto, ma più che tra Occidente e mondo islamico è una guerra tra
chi crede che sia possibile la convivenza e chi no. Le nuove onde populiste non
la accettano. Come non accettano il ruolo delle istituzioni delle democrazie.
Questi aspetti, insieme, sono l’anticamera delle dittature. In molti Paesi
assistiamo all’avanzata di movimenti populisti e alla retorica degli anni 20 e
30. Anche in Russia sta accadendo da tempo... Che accadesse degli Stati Uniti
non potevamo aspettarcelo. Ora più che mai abbiamo bisogno dell’Unione europea.
Oggi che la “testa” americana sta con la Russia... E stanno insieme perché c’è
una visione comune profondamente di destra. Questo è un grande cambiamento nel
mondo».
Nei suoi lavori successivi a
“Postdemocrazia” (“Il Potere dei giganti” e “Quanto capitalismo può sopportare
la società”), lei si occupa a fondo delle disuguaglianze crescenti. Come e
quanto hanno inciso all’interno delle società occidentali nello sfaldamento
delle democrazie. E perché portano a destra? «Già, è un fenomeno interessante.
Finalmente è arrivata una rivolta contro la disuguaglianza... ma prende una
forma politica di destra estrema, condita di razzismo. Così oggi abbiamo il
confronto tra due opzioni di destra in molti Paesi: la destra neoliberale
contro la destra populista e xenofoba. Queste due destre sono nemiche. E con
un’idea di democrazia sociale molto debole, in questa fase sono i neoliberali
che devono scegliere. Normalmente preferiscono i compromessi con la destra
nazionalista.. Ma forse adesso trovano che i loro nemici profondi sono le
estreme destre. Perciò solo un compromesso tra la democrazia sociale e i
neoliberali potrebbe essere l’argine. Solo coalizioni così potrebbero salvare
le democrazie da derive autoritarie».
Se la democrazia finisce, cosa c’è dopo? «Ci
sono molte discussioni sulla democrazia diretta, come evoluzione della
democrazia che conosciamo. Ma i referendum dimostrano che quando il popolo ha
un’occasione per parlare c’è un potere di interpretare la “voglia” del popolo
senza discussione parlamentare, senza filtri. La democrazia è solo un voto e il
ruolo delle istituzioni viene quasi cancellato. E questa, ripeto, è la strada
verso la dittatura. Perciò la risposta è: dopo la democrazia c’è solo la
dittatura».
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