"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

sabato 20 dicembre 2025

MadeinItaly. 72 Malcom Pagani: «C'è bisogno di tornare ad arrossire e a vergognarsi. Di piangere per poi ridere e prendersi in giro. Piacersi non è un obbligo, la fatica è una cosa seria».


In Italia non si legge perché la nostra è una cultura orale. Tutto è tramandato a orecchio. Leggere obbligherebbe alla precisione.

In Italia non si legge perché la nostra è una cultura di mediazione. La mediazione non ama la pagina scritta. La mediazione si fa meglio a voce.

In Italia non si legge per non esporsi a rischi. La frase “qui lo dico, qui lo nego” è il più potente slogan contro il libro. Ti induce a diffidare della irrevocabile pagina scritta.

In Italia non si legge perché l’autore è un altro. Occuparsi del lavoro degli altri, per molti di noi è insopportabile.

In Italia non si legge perché non c’è mai stata un’epoca in cui leggere era di moda o dava prestigio. In Italia non si legge perché nessun personaggio della vita vista in televisione legge.

In Italia non si legge perché non c’è alcun rapporto fra lettura e celebrità.

In Italia non si legge perché sai che niente di buono ti può venire dalla lettura di un libro. Per “buono” si intende soldi, carriera, benessere.

In Italia non si legge perché ciascuno di noi vuol tenersi le sue opinioni. In tal modo sei libero di cambiarle e di spostarti dalla parte giusta se necessario.

In Italia non si legge perché non si incontra mai qualcuno che è “arrivato” leggendo libri.

In Italia non si legge perché leggere ti porta in altri mondi. Abbiamo già abbastanza pensieri nel mondo in cui viviamo.

In Italia non si legge perché la vera storia non è mai quella che ti raccontano. Non puoi mai sapere che cosa c’è sotto.

In Italia non si legge perché c’è la televisione da guardare parlando.

In Italia non si legge perché quelli che scrivono non sanno niente della vita. Se potessi raccontargliela io...

In Italia non si legge perché le storie importanti avvengono altrove, soprattutto in America. Ma l’America racconta tutto nei suoi film.

In Italia non si legge perché altrimenti bisognerebbe leggere tutto e non sarebbe mai finita. Ti porterebbe via il tempo libero.

In Italia non si legge perché quando i libri arrivano in libreria ne hanno già parlato tutti e non c’è più nessuno che voglia sentir raccontare la storia.

In Italia non si legge perché la vita è bella. Infatti si legge un po’ solo nelle carceri e negli ospedali. 

In Italia non si legge perché abbiamo capito che non leggono quelli che intervengono, che propongono, che precisano, che rettificano, che dichiarano, che affermano, che negano, che ribadiscono. Eppure ritornano sui giornali e in televisione ogni mattina.

In Italia non si legge perché non si è mai letto e dunque non si può sapere ciò che si perde.

In Italia non si legge perché non ci sono biblioteche. Quelle nazionali spesso chiudono. Quelle scolastiche fanno pena. Quelle aziendali stringono il cuore.

In Italia non ci sono biblioteche perché non si legge.

(Tratto da “Perché in Italia non si leggono libri?” di Furio Colombo, pubblicato sul quotidiano “la Repubblica” del 15 di settembre dell’anno 1998).

Comeravamo”. “Quando piangevamo, per poi ridere”, testo di Malcom Pagani pubblicato sul settimanale “d” del quotidiano “la Repubblica” del 13 di dicembre 2025: Non ho mai scritto niente su un muro, ma ho spesso perso tempo a leggere i pensieri degli altri. Slogan politici, rivendicazioni, speranze, insulti. Nei bagni del liceo che ho frequentato, il Giulio Cesare di Roma, suburbia nella quale ci rintanavamo felici a fumare e a far passare i minuti tra una lezione di storia e una di matematica, ce n'erano alcuni ingenui e inoffensivi e altri sgradevoli, figli di quell'età in cui non si conosce niente, si pretende di dire la propria su tutto e si cova l'illusione di lasciare un segno, non solo grafico, per certificare il proprio passaggio nel mondo. A quell'età ogni cosa ci sembrava definitiva e ci innamoravamo una volta al giorno. Sulla maniera meno compromettente per invitare al cinema la ragazza che ci piaceva lambiccavamo per ore per poi ritrovarci al dunque, a preparare l'appuntamento con l'affannata inadeguatezza dell'età acerba. Se 18 anni erano pochi per promettersi il futuro, cosa rappresentava la nostra adolescenza - desiderosa di un bacio e precipitata in un mondo di liturgie ottocentesche da mettere in scena con lo sconosciutissimo microcosmo femminile - se non il tentare goffi voli d'azione e di parola quasi sempre destinati al fallimento? Accoglievo la caduta delle illusioni con l'eroismo del caso. Il rifiuto aveva una sua tenerezza. Non creava rabbia né rancore. Non ci ha voluto, corriamo a leggere i poeti che magari capiamo anche il perché. La prima volta venni lasciato al telefono, lei preferiva andare a comprare un paio di scarpe. Mi diedi la colpa e assaporai l'ebrezza della malinconia: a volte vale più della felicità, ma ancora non lo sapevo. Ora leggo sui giornali di un'epigrafe mostruosa lasciata nei cessi maschili del mio vecchio liceo e pur non sottovalutandone l'orrore e faticando a considerarla paradigma di un significato che non confini con la sola demenza, mi chiedo cosa sia successo in questi anni. Dov'è finita la dolcezza? Dove l'ironia? Dove il linguaggio che tende fili invisibili più resistenti di un messaggio che somiglia alla parete di un autogrill o ai maschi disegnati sul metrò cantati da Gianna Nannini? Parlano di lavoro culturale, di educazione sessuale, di tante cose più o meno giuste che però nessun corso o lezione può davvero restituirti. Bisogna guardarsi dentro. Decidere cosa fa davvero schifo e cosa no. Liberarsi delle armature, ricominciare a parlare. L'altro giorno, era mattina presto, mi ha telefonato Olivia. Ha quindici anni, siamo quasi parenti e aveva la voce emozionata. I suoi compagni per protesta non entravano al Giulio Cesare: «Non entrare neanche tu», le ho detto, «è importante». E non so se l'ho fatto per senso di giustizia o per egoismo narcisista, per sentirmi ancora lì, dove ero stato bene e dove certe cose - sarà una consolazione della memoria? - mi ripeto, non succedevano. Quando passo davanti alle mura color crema del liceo, davanti all'aiuola di Corso Trieste, rivedo le entrate, le uscite, le corse, le angosce, i patti impudichi per scappare al bar stretti con i bidelli che oggi si chiamano collaboratori scolastici, perché ci siamo distratti e abbiamo irrimediabilmente confuso la forma con la sostanza. Al Giulio Cesare ho trascorso anni che ricordo con un divertimento mai intossicato dalla nostalgia. Era stata la scuola di mia sorella che una mattina di maggio dell'80 vidi tornare a casa piangendo perché a due passi dal cancello d'entrata, un nucleo dei Nar aveva sparato a un poliziotto, Francesco Evangelista detto Serpico, morto, a 37 anni, in un quartiere che nel decennio precedente aveva avuto i suoi caduti, di destra e di sinistra in nome di un delirio ideologico fortunatamente tramontato. Non c'è bisogno di un'altra guerra, dell'ennesima guerra, del conflitto che, sordo al vuoto di relazioni, grida nel silenzio e non lascia la parola a nessuno. C'è bisogno di tornare ad arrossire e a vergognarsi. Di piangere per poi ridere e prendersi in giro. Piacersi non è un obbligo, la fatica è una cosa seria.


 

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