Da “Il
populismo d'Occidente che cancella i moderati” di Ezio Mauro, pubblicato
sul quotidiano la Repubblica del 26 di febbraio dell’anno 2016: (…). Scopriamo
improvvisamente, in questi ultimi anni, che il meccanismo democratico da solo
non ci protegge. Anzi, potremmo dire che la scoperta è più radicale: la
democrazia non basta a se stessa. Nasce il disincanto della rappresentanza, la
nuova solitudine repubblicana. Tutto diventa fragile e transitorio, nulla
merita un investimento a lungo termine, dunque la stessa politica tradizionale
finisce fuorigioco perché cerchiamo risposte individuali a problemi collettivi.
C'è un elemento in più. Prima della crisi il ceto medio emergente aveva tentato
di diventare soggetto politico mettendosi in proprio, autonomizzandosi sia
dalla grande borghesia che dal proletariato: in Italia questa avventura aveva
avuto come demiurgo Berlusconi con la promessa di uno Stato più leggero, di una
forte riduzione delle tasse, di un sovvertimento della classe dirigente. Il
fallimento del progetto berlusconiano - che non aveva evidentemente nulla di
moderato e ben poco di conservatore - e il gelo della crisi hanno frustrato due
volte questo tentativo di emancipazione di soggetti sociali che perdono la
speranza di produrre politica direttamente dai loro interessi legittimi, si
proletarizzano per le difficoltà finanziarie e ripiegano sconfitti in quella
che De Rita chiama la "grande bolla" del ceto medio. L'esito di
questi percorsi collettivi è il riflusso da ogni discorso pubblico o appunto la
ribellione, l'antipolitica. Nella convinzione che il cittadino possa
disinteressarsi dello Stato, senza accorgersi che nello stesso tempo lo Stato
si disinteressa di lui, perché quando la sua libertà non si combina con quella
degli altri e l'esercizio dei suoi diritti resta soltanto individuale, lui
diventa un'unità anonima da rilevare nei sondaggi, realizzando la vera
solitudine dei numeri primi. Si capisce che a questo crocevia tra la solitudine
e la ribellione stia accampato il populismo, interessato ad entrambe. Tutti
diversi tra loro, i leader radicali hanno un tratto in comune: propongono
soluzioni semplici a problemi complessi (il "puerilismo", lo chiamava
Huizinga) danno sempre la colpa ad un nemico esterno, attaccano un potere
gigantesco e indefinito, berciano sulle élites, si rinchiudono nell'ossessione
territoriale, immaginano complotti perché investono su un indebolimento dello
spirito critico a vantaggio di una visione mitologica dell'avventura presente.
I problemi veri - il lavoro che manca, la crescita che arranca, Daesh che
uccide - vengono evocati e cavalcati, ma in forma fantasmatica, all'insegna di
una sfiducia perenne nei confronti delle istituzioni e della stessa democrazia.
(…). È la ricetta semplice e forte del fondamentalismo che negando valore ad
ogni teoria divergente o preesistente costruisce quel senso di falsa sicurezza
tipico di chi vive murato all'interno delle fortezze, pensando - come spiega
Bauman - di tagliare fuori così "il caos che regna all'esterno". È il
destino della destra italiana che spento il fuoco pirotecnico del berlusconismo
consegna le sue ceneri a Salvini, rassegnandosi dopo il titanismo del Cavaliere
all'imitazione da Asterix padano del lepenismo. (…).
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