Da “Il papà
del polo dopo-Expo promette l’elisir di lunga vita” di Gianni Barbacetto su
“il Fatto Quotidiano” dell’8 di maggio 2016: Per capire che cosa sarà Human
Technopole, la città della ricerca da costruire sull’area Expo, bisogna
conoscere il papà di questo progetto: Pier Giuseppe Pelicci. (…). È lo
scienziato che da anni promette l’elisir di lunga vita. È lui che ha convinto a
entrare nella partita il finanziere Francesco Micheli, con cui ha fondato
Genextra, holding specializzata in ricerca biofarmaceutica. Micheli ha poi
coinvolto Marco Carrai, l’uomo d’affari più vicino a Renzi, che ha fatto da
ponte con il presidente del Consiglio, il quale ha infine fatto suo e lanciato
il progetto. Ricerche sul genoma, con la promessa di allungare la vita: è la
fascinazione di Human Technopole, ma è anche da sempre il programma di Pelicci,
lo scienziato che vuole portare la vita dell’uomo a 120 anni. Progetto
affascinante. Ma perché è stato scelto proprio questo, senza una valutazione
preventiva di altri temi, senza un confronto con altri programmi possibili? Per
esempio la medicina rigenerativa e la terapia genica, in cui l’Italia è prima
al mondo, grazie agli studi dell’università di Modena e Reggio Emilia e del San
Raffaele di Milano. In questo campo, gli italiani Michele De Luca e Graziella
Pellegrini hanno prodotto il primo farmaco al mondo a base di cellule
staminali. Invece non c’è stata alcuna discussione, alcuna comparazione: a
scegliere, senza aver ricevuto alcun incarico trasparente e senza aver messo in
comune percorsi e motivazioni della scelta, è stato un gruppo informale di
persone, tra cui il professor Pelicci; poi Renzi ha annunciato in pubblico
l’ideona per salvare il dopo-Expo, con annessa promessa del tesoretto
miliardario. Solo a cose fatte, e dopo le proteste di una parte del mondo
scientifico, è stato coinvolto un gruppo di scienziati internazionali a cui è
stato affidato il compito di elaborare una valutazione del programma: ma senza
alternative, senza la possibilità di confrontare programmi diversi.
"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
lunedì 30 maggio 2016
sabato 28 maggio 2016
Oltrelenews. 90 “E a tarda sera, madonne fiorentine…”.
È primavera... svegliatevi bambine
alle cascine, messere Aprile fa il rubacuor.
E a tarda sera, madonne fiorentine,
quante forcine si troveranno sui prati in fior. (…).
Da “Mattinata fiorentina” di Rabagliati- D'Anzi - Galdieri
alle cascine, messere Aprile fa il rubacuor.
E a tarda sera, madonne fiorentine,
quante forcine si troveranno sui prati in fior. (…).
Da “Mattinata fiorentina” di Rabagliati- D'Anzi - Galdieri
Da “Tav, i confini del progresso e gli affari sporchi delle mafie” di
Salvatore Settis, sul quotidiano la Repubblica di giovedì 8 di marzo dell’anno
2012: (…). Per sviluppo, (…), dovremmo intendere il beneficio che deriverà al
Paese e ai cittadini da una "grande opera" dopo che sia stata
eseguita e sia entrata in funzione. Sempre più spesso, invece, si tende a
considerare "sviluppo" l'opera stessa, la mera mobilitazione di
banche e imprese, capitali (pubblici) e manodopera. Sterile progetto, se la
"grande opera" si rivelasse inutile o producesse guasti ambientali e
sociali. (…). In un racconto di Mario Soldati, “Il berretto di cuoio” (1967),
il protagonista, Aduo, è «lo scemo del villaggio», che però «non era affatto
uno scemo», era anzi «aperto, simpaticissimo, intelligente». Ma non lavorava,
non aveva un mestiere; un caso, dicevano i medici, «di sviluppo arrestato».
Finché, affascinato dal cantiere dell'autostrada Torino-Piacenza, scatta la
scintilla: assunto come guardiano, «lavorò per dieci», senza limiti di tempo,
dall'alba a notte fonda»; sempre «scrutando con rapide occhiate» i lavori
dell'autostrada, felice e attonito, con «lo sguardo che avrebbe potuto avere un
assoluto responsabile, unico appaltatore, unico progettista, unico azionista
dell'autostrada». Quando l'autostrada è finita, il tracollo: Aduo non può
vivere senza, non mangia e non beve, viene ricoverato. Una specie di
"complesso di Aduo" sembra aver preso alla gola troppi italiani, che
non sanno immaginare altro sviluppo che la cementificazione del suolo.
Distraendoci da altri investimenti più lungimiranti e produttivi, questo
modello di crescita alla cieca è, come quello di Aduo, uno "sviluppo
arrestato" che inceppa il Paese. Una risposta autoritaria non è
accettabile. È necessaria una discussione aperta e radicale, tanto più in tempi
di contenimento della spesa pubblica. È giusto spendere per la Tav, quando sono
allo sfascio ferrovie minori e treni notturni, anche internazionali? Non
sarebbe meglio potenziare le strutture esistenti, a cominciare dalla cintura
ferroviaria di Torino? È meglio costruire nuove grandi opere o arrestare il
degrado dei servizi sociali e della scuola? Viene prima la difesa del
paesaggio, dell'agricoltura e dell'ambiente o la (presunta) convenienza
economica della Tav? Unica bussola per rispondere a queste domande, la
Costituzione consacra la tutela del paesaggio e dell'ambiente: «La primarietà
del valore estetico-culturale», anzi, non può essere «subordinata ad altri valori,
ivi compresi quelli economici», e pertanto dev'essere «capace di influire
profondamente sull'ordine economico-sociale» (Corte Costituzionale, 151/1986).
I portatori (sani?) del "complesso di Aduo" dicono il contrario: che
le ragioni economiche sovrastano i principi del bene comune. (…).
giovedì 26 maggio 2016
Cronachebarbare. 38 “Pannella ed il selfie col morto”.
Avevo scritto in “Storiedallitalia” - n°
75 - del 20 di maggio ultimo scorso: “Storie
dall’Italia”. Anzi “Storie dell’Italia”, che sta meglio assai. Poiché penso che
esistano ben pochi paesi nell’intiero globo terracqueo nei quali gli ipocriti,
i saltimbanco ed i teatranti vari abbiano ad essere in un numero sì
sproporzionato. Oggi che il Giacinto Pannella detto “Marco” non c’è più, una
turba di turiferari vociferanti s’ingegna a lodarne la vita e le opere. Noi non
se ne conosceva nulla del Marco quale “uomo”, ma se ne conosceva assai del
Marco quale “politico”. E pur non volendo apparire od essere – nella generale
emozione del momento - il solito “bastian contrario”, o il solito “grillo
parlante”, al Marco quale “uomo politico”, che è la cosa che qui penso ci stia
particolarmente a cuore, non pensiamo di poter innalzare profumati incensi e
cesellare encomi solenni. Non possiamo e non lo vogliamo, per non venire a far
parte di quella turba d’incensatori d’accatto. Incensatori d’obbligo e di
mestiere, pronti a smentirsi non appena il venticello flebile dell’emozione,
sollecitata e solleticata dai media tonitruanti, si sarà affievolito – il
venticello intendo dire - nel turbinio del generale, inutile parlottare. Così
scrivevo in quel recentissimo mio post. Poiché accade, e penso che accada a
chiunque si segga su di una sedia e provi a vergare su di un foglio in bianco con
lo stilo o con la penna o a digitare, come faccio sul mio pc, i pochi pensieri coerenti
che fulminei attraversano la mente, penso che a tutti accada, dicevo, di
formulare e porsi all’improvviso una domanda: ma quel che vado pensando e che
voglio far divenire nero su bianco, insomma in poche parole che provo a
scrivere, ha un suo senso che possa essere condivisibile con altri? O sono
solamente le mie fumisterie, le mie fissazioni o farneticazioni? Accade sempre,
quando si voglia mettere nero su bianco, che quei pensieri che fulminei
attraversano la mente si comportino come dei “grilliparlanti” che
abbisognano, quei pensieri lì intendo dire, di essere afferrati per la coda e,
con certosina pazienza, essere spalmati sull’immacolato foglio di carta od
impressi sull’elettronico foglio di stampa del personal computer. Il processo è
sempre lo stesso, in un caso e nell’altro. Ed avviene così, in quell’opera di
certosina pazienza che la formulazione astratta dei propri pensieri inducano proprio
a chiedersi: farnetico o son desto? Il “Marco” lì è mancato all’affetto della
carissima Sua sfera degli umani il giorno precedente a quel posto lì. E quel
che mi venne di getto da pensare alla funerea notizia è tutto ciò che ho
scritto in quel post lì. E sempre con l’immancabile domanda, come un tarlo che
rode: ma che vado scrivendo? Poiché la “fatica” dello scrivere è cosa ben
diversa dallo sproloquiare: quella fatica lì impone allo scrivente, immancabilmente,
l’obbligo d’acciuffare per la coda i fulminei, fuggevoli pensieri e provare a
farne cose materiali e concrete quali sono parole scritte e frasi coerenti e compiute,
per l’appunto. E così avviene che, due giorni dopo appena, un arguto – come
sempre – editoriale di Marco Travaglio appaghi e renda quella fatica lì meno
pesante da portarsi appresso. Il post del Travaglio, apparso su “il Fatto
Quotidiano” del 22 di maggio, ha per titolo “Selfie col morto”.
Godiamocene l’arguzia:
mercoledì 25 maggio 2016
Paginatre. 38 “Chiesa e Industria”.
Da “Chiesa e
Industria (Saggio di interpretazione storico-socio-economica)” (1962) di
Umberto Eco, tratto da “Diario minimo”,
prima edizione Oscar narrativa Mondadori (ottobre 1988), pagg. 81-84: La
penisola italiana è oggi teatro di quella che i nativi chiamerebbero una
"lotta per le investiture". Le scena sociale e politica è dominata da
due potenze egualmente forti che si disputano il controllo dei territori della
penisola e dei suoi abitanti: l'Industria e la Chiesa. La Chiesa, a quanto
risulta dalle testimonianze raccolte in loco, è una potenza laica e mondana,
tesa al dominio terreno, all'acquisto di aree fabbricabili, alle leve del
governo politico, mentre l'Industria è una potenza spirituale tesa al dominio
delle anime, alla diffusione di una coscienza mistica e di una disposizione
ascetica. Durante il nostro soggiorno nella penisola italiana abbiamo seguito
alcune tipiche manifestazioni della Chiesa, le cosiddette
"processioni" o "precessioni" (evidentemente connesse a
celebrazioni equinoziali) che rappresentano vere e proprie ostentazioni di
fasto e potenza militare; vi appaiono infatti drappelli di guardie, cordoni di
polizia, generali dell'esercito, colonnelli di aviazione; altro esempio, ai
cosiddetti "riti pasquali" si assiste a vere e proprie parate
militari in cui interi reparti corazzati si recano a soddisfare al simbolico
omaggio che la Chiesa pretende dall'esercito. Contro all'organizzazione
militare di questa potenza terrena, ben diverso è invece lo spettacolo offerto
dall'Industria. I suoi fedeli vivono in sorte di tetri conventi in cui aggeggi
meccanici contribuiscono a rendere più scarno e disumanato l'habitat. Anche
quando questi cenobi sono costruiti secondo criteri di ordine e simmetria, vi
predomina un rigore di tipo cistercense, mentre le famiglie dei cenobiti vivono
ritirate in cellette di enormi monasteri che spesso coprono aree di
impressionante vastità. Lo spirito di penitenza pervade tutti gli affiliati,
specialmente i capi, i quali vivono in una povertà quasi totale (io stesso ho
potuto controllare lo status delle loro sostanze dichiarato pubblicamente a
scopo penitenziale), e si riuniscono di solito in lunghi e ascetici ritiri (i
cosiddetti "consigli") durante i quali questi uomini in grigio, dai
volti scavati e dagli occhi infossati dai lunghi digiuni, restano ore e ore a
discutere disincarnati problemi concernenti il fine mistico del sodalizio, la
"produzione" di oggetti, vista come una sorta di continuazione
perenne della creazione divina.
martedì 24 maggio 2016
Sfogliature. 59 “Televendita: Equitalia e meno tasse al ceto medio”.
La “sfogliatura” di seguito proposta
aveva, al tempo, per titolo “Meno tasse
per tutti”. Essa risale ad un lunedì 21 di novembre dell’anno 2011. Sono passati
i mesi e gli anni ma il malvezzo degli imbonitori della politica non passa mai.
E del malvezzo di questi giorni correnti, al tempo del signore da Rignano
sull’Arno, ce ne rende conto e misura Alessandro Robecchi in “Equitalia in televendita” pubblicato
su “il Fatto Quotidiano” del 20 di maggio ultimo scorso. Ha scritto Robecchi: (…).
La donna barbuta! La legge che vieta i terremoti! Un decreto per bloccare la
pioggia nei week-end! Il bollo auto (…). O il funerale di Equitalia, che, dice
Matteo, circonfuso nello streaming e griffato Apple, “al 2018 non ci arriva
mica”. Più che un programma, una sentenza. Giubilo nelle strade e nelle piazze
del Paese e dietrologia talmente facile da essere banale “davantologia”: se nel
2018 si vota, abolire Equitalia è un nuovo modo per dire “ottanta euro” e pure
di più. Se accompagnate la promessa con quell’altra, parallela e speculare, di
“abbassare le tasse al ceto medio” siamo vicini all’en plein. Manca quella cosa
delle settanta vergini, che suona ancora un po’ troppo islamica, ma ci
arriveremo. Anche se la bomba Equitalia arriva insieme a decine di altre bombette,
mischiata ad altre roboanti promesse, fa sempre il suo effetto, perché è
difficile oggi trovare un italiano che simpatizzi per Equitalia. Il riscossore
sta sulle palle a tutti, ovvio, e chi chiede soldi non è mai simpatico: basta
vedere quel logo sulla lettera che vi arriva a casa per agevolare la crisi di
itterizia. Poi ci pensa la solita commedia all’italiana, tipo i leghisti che
minacciano rivolte e assalti alle sedi come fecero i loro amici col blindato
fatto in casa al campanile di San Marco (ancora ridiamo). E ci sarebbero, un
po’ più seriamente, i Cinque Stelle, che Equitalia la vogliono abolire da
sempre e che a tal proposito presentarono una proposta di legge. La respinse il
Pd alla Camera nel luglio del 2014, con grandi accuse di populismo e irresponsabilità.
Brutti, zozzi e cattivi che attentavano a un’istituzione così preziosa per il
paese. Passati nemmeno due anni, ecco Matteo dei miracoli decretarne la morte
imminente, col linguaggio che si riserva di solito agli allenatori di calcio
scarsi: Equitalia, al massimo tra due anni, non mangerà il panettone. Come
Silvio, abbiamo il Renzi operaio, il Renzi imprenditore, il Renzi
costituzionalista, il Renzi insegnante e, da ieri, pure il Renzi grillino. Sono
soddisfazioni. Di suo, Berlusconi si limitava alle battute scherzose, e quando
andò a inaugurare l’anno accademico dei futuri finanzieri disse: “Meglio io da
voi che voi da me”. Almeno faceva ridere. Matteo no. Matteo guarda in camera
come un attore della réclame e la butta lì: Equitalia must die. Dietro,
accanto, ci sarebbe tutto un ragionamento sul riordino delle agenzie, quella
delle entrate che si riprende i suoi compiti, razionalizzazioni, riforme,
ridisegni complessivi e complicati, numeri, calcoli. Ma che noia! Vuoi mettere
col dare l’annuncio? Come dire, parliamoci chiaro: se volete meno tasse, un
regalo al ragazzo che compie diciott’anni, l’eliminazione di Equitalia e altre
cosucce (esilarante la riforma dell’Università “entro il 2016”, ma “non calata
dall’alto”), dovete tenervi stretto questo conduttore di talk show. Diceva Enzo
Biagi di Silvio: “Se avesse le tette farebbe anche l’annunciatrice”. Ecco.
Matteo non ha le tette nemmeno lui. Però fa solo l’annunciatrice.
lunedì 23 maggio 2016
Scriptamanent. 12 “Governare il disordine”.
Da “Governare
il disordine, la sfida dei nuovi leader” di Thomas L. Friedman, sul quotidiano
la Repubblica di sabato 23 di maggio dell’anno 2015: (…). …per adesso il mio candidato
preferito al titolo di autore del miglior incipit di un articolo di
informazione quest’anno è Tom Goodwin, dirigente di Havas Media, il cui
intervento del 3 marzo su Techcrunch. com iniziava così: “Uber, la più grande
compagnia di taxi al mondo, non possiede vetture. Facebook, proprietario del
social network più popolare del mondo, non crea contenuti. Alibaba, il
rivenditore più efficace al mondo, non ha beni inventariati. E Airbnb, il più
grosso fornitore al mondo di soluzioni ricettive, non possiede alcun bene
immobiliare reale. Stiamo assistendo a qualcosa di molto interessante”. Questo
è poco ma sicuro. Ci troviamo all’inizio di una trasformazione molto
significativa di ciò che vale la pena possedere. Le aziende di cui parlavamo
hanno in comune una cosa: tutte hanno creato piattaforme fiduciarie nelle quali
l’offerta incontra la domanda per oggetti e servizi che nessuno aveva pensato
in precedenza di mettere a disposizione — una camera da letto in più nella
propria casa, un posto a bordo della propria auto, un contatto commerciale tra
un piccolo negoziante del Nord Dakota e un piccolo artigiano in Cina; oppure
sono tutte piattaforme comportamentali che hanno generato come sottoprodotto
informazioni di altissimo valore per i rivenditori al dettaglio o i
pubblicitari, o ancora sono tutte piattaforme comportamentali nelle quali la
gente comune può farsi un nome — per come guida, per come ospita qualcuno o per
qualsiasi altra competenza si possa immaginare — per poi offrirsi al mercato su
scala globale.
domenica 22 maggio 2016
Oltrelenews. 89 “Referendum: l’armageddon della democrazia?”.
Da “Cosa il
premier non dice quando cita Berlinguer” di Silvia Truzzi, su “il Fatto
Quotidiano” del 22 di maggio 2016: (…). “La sinistra è stata sempre per
superare il bicameralismo. Enrico Berlinguer parlava direttamente di
monocameralismo” (il virgolettato è stato pronunciato da quel
buontempone di Renzi Matteo nella giornata di ieri sabato 21 di maggio, detta del
“referendum-day”. n.d.r.). Infatti la riforma mantiene il
bicameralismo. Il Senato continuerà ad esistere, semplicemente i membri della
Camera alta (trasformata in “camerino”, copyright di Michele Ainis) non saranno
più eletti dai cittadini, bensì “dai Consigli regionali” ma “in conformità alle
scelte espresse dagli elettori” (la fantasia al potere). Saranno di meno (da
315 a 100), manterranno l’immunità, eleggeranno due giudici costituzionali,
parteciperanno all’elezione del presidente della Repubblica, parteciperanno
alla funzione legislativa per le leggi su referendum popolare e ordinamento
degli enti territoriali. I procedimenti legislativi saranno sette (bicamerale
paritario, monocamerale con intervento eventuale del Senato, non paritario
rafforzato, non paritario con esame obbligatorio per leggi di bilancio, disegni
di legge a “data certa”, conversione dei decreti, leggi di revisione
costituzionale). Il bicameralismo resta, da paritario diventa confuso. (…).
…Azzariti sostiene: “Un’unica Camera eletta con sistema proporzionale. Chi se
la sente di proporre una riforma rivoluzionaria come questa? Eppure in passato
era questa la frontiera avanzata della sinistra”. (…).
sabato 21 maggio 2016
Scriptamanent. 11 “Istruzioni per una nuova società”.
Da “Istruzioni per una nuova società” di Zygmunt Bauman, sul
quotidiano la Repubblica del 21 di maggio dell’anno 2012: (…). Se le rivoluzioni non sono
prodotti della disuguaglianza sociale, i campi minati sì. I campi minati sono
aree disseminate di esplosivi sparsi a casaccio: si può star certi che una
volta o l´altra qualcuno di essi esploderà, ma quale, e quando, non si può
stabilire con qualche grado di certezza. Poiché le rivoluzioni sociali sono
eventi con uno scopo e con un obiettivo, è possibile fare qualcosa per
localizzarle e sventarle in tempo, mentre ciò non vale per le esplosioni dei
campi minati. Qualora il campo minato sia stato predisposto da soldati di un
esercito, si possono spedire altri soldati, appartenenti a un altro esercito,
per estrarre le mine e disarmarle: un lavoro rischioso quant´altri mai, come ci
rammenta incessantemente l´antica saggezza del soldato: «L´artificiere sbaglia
una volta sola». Ma questo rimedio, per quanto insidioso, non è disponibile nel
caso dei campi minati predisposti dalla disuguaglianza sociale: a seminare le
mine e poi a estrarle deve essere lo stesso esercito, che non può smettere di
aggiungere nuovi ordigni ai vecchi né evitare di metterci il piede sopra più e
più volte. Seminare mine e cadere vittime delle loro esplosioni fanno tutt´uno.
Tutte le varietà di disuguaglianza sociale scaturiscono dalla divisione fra
ricchi e poveri, come osservava già mezzo millennio fa Miguel Cervantes de
Saavedra. Tuttavia, in epoche diverse, possedere o non possedere oggetti
diversi sono rispettivamente la condizione più appassionatamente desiderata e
quella più appassionatamente sofferta. Due secoli fa in Europa, ancora pochi
decenni fa in alcuni luoghi distanti dall´Europa, e ancor oggi su alcuni campi
di battaglia di guerre tribali o parchi-giochi delle dittature, l´obiettivo
primario che poneva in conflitto ricchi e poveri era il pane o il riso. Grazie
a Dio, alla scienza, alla tecnologia e a certi espedienti politici ragionevoli,
non è più così. Ma ciò non significa che la vecchia divisione sia morta e
sepolta: al contrario… Oggigiorno, gli oggetti del desiderio la cui assenza è
più acutamente sentita sono molti e vari, e il loro numero aumenta giorno per
giorno come anche la tentazione di ottenerli. E così crescono l´ira,
l´umiliazione, il rancore e il risentimento suscitati dal non averli; e con
essi il desiderio di distruggere ciò che non si può avere. Saccheggiare i
negozi e darli alle fiamme sono gesti che possono derivare dal medesimo impulso
e gratificare il medesimo desiderio. (…).
venerdì 20 maggio 2016
Storiedallitalia. 75 “Marco Pannella che…”.
“Storie dall’Italia”. Anzi “Storie dell’Italia”, che
sta meglio assai. Poiché penso che esistano ben pochi paesi nell’intiero globo terracqueo
nei quali gli ipocriti, i saltimbanco ed i teatranti vari abbiano ad essere in
un numero sì sproporzionato. Oggi che il Giacinto Pannella detto “Marco” non c’è
più, una turba di turiferari vociferanti s’ingegna a lodarne la vita e le
opere. Noi non se ne conosceva nulla del Marco quale “uomo”, ma se ne conosceva
assai del Marco quale “politico”. E pur non volendo apparire od essere – nella generale
emozione del momento - il solito “bastian contrario”, o il solito “grillo
parlante”, al Marco quale “uomo politico”, che è la cosa che qui penso ci stia
particolarmente a cuore, non pensiamo di poter innalzare profumati incensi e
cesellare encomi solenni. Non possiamo e non lo vogliamo, per non venire a far
parte di quella turba d’incensatori d’accatto. Incensatori d’obbligo e di
mestiere, pronti a smentirsi non appena il venticello flebile dell’emozione, sollecitata
e solleticata dai media tonitruanti, si sarà affievolito – il venticello
intendo dire - nel turbinio del generale, inutile parlottare. Soccorre nella
circostanza, per ricordare doverosamente e devotamente quel tale “uomo politico”
che Marco è stato, andare a rileggere quel “pezzo” magistrale che è “Casa Pannella” di Marco Travaglio, “pezzo”
pubblicato su “il Fatto Quotidiano” del 14 di agosto dell’anno 2015.
giovedì 19 maggio 2016
Scriptamanent. 10 “Non ci resta che l'America”.
Da “Non ci resta che l'America” di Federico Rampini, sul settimanale “D”
del 19 di maggio dell’anno 2012: (…). Bo Xilai era uno dei massimi dirigenti
del partito (comunista cinese n.d.r.), al comando della megalopoli più
vasta del mondo, Chongqing, più di 30 milioni di abitanti. Ora si scopre - sono
le accuse che lo stesso governo gli rivolge dopo averlo destituito e
incriminato - che era una sorta di "signore della guerra", usava la
polizia locale come una milizia privata per terrorizzare i suoi avversari
politici, ricattare e depredare gli imprenditori. Se poi si aggiunge la saga
ottocentesca della moglie-tigre che fa avvelenare da un domestico con il
cianuro il suo complice-amante inglese, c'è di che nutrire un'intera biblioteca
di futuri romanzi polizieschi. Ma c'è anche da chiedersi: è questo il sistema
di governo all'altezza della seconda economia mondiale? È con una oligarchia di
queste fattezze, che la Cina dovrebbe "scalzare" la leadership
globale degli Stati Uniti? Lasciamo stare che per realismo o per opportunismo
Obama non voglia o non possa affrontare a muso duro la questione dei diritti
umani in Cina; resta il fatto che queste vicende sono sintomi di debolezza,
tanto più in quanto avvengono nell'anno della transizione da Hu Jintao a Xi
Jinping che avrebbe dovuto dare una dimostrazione di "ordinato"
passaggio delle consegne. Dettaglio non banale: tra le pieghe dello scandalo Bo
Xilai si è scoperto che sia il figlio di quest'ultimo, sia la figlia del futuro
presidente e segretario generale del partito Xi Jinping, studiano nella stessa
università. Che si chiama Harvard. Anche questo la dice lunga sulla strada che
la Cina deve ancora percorrere, se i Vip del regime di Pechino devono mandare
tutti i loro rampolli a studiare in America. (…).
mercoledì 18 maggio 2016
Paginatre. 37 “La grande bugia della fame nel mondo”.
Da “La
grande bugia della fame nel mondo”, tratto da un resoconto del giornalista Riccardo Staglianò a seguito dell’incontro con lo scrittore argentino Martin Caparros,
a margine della presentazione del volume “La
fame” – Einaudi editore, pagg. 722, € 26 -, resoconto pubblicato sul
settimanale “il Venerdì di Repubblica” del 22 di aprile 2016: Che
colossale abbuffata di ipocrisia si consuma intorno alla fame. Prima l’hanno
ribattezzata «insicurezza alimentare», come se depotenziarla linguisticamente
la rendesse meno micidiale. Poi hanno truccato le statistiche, per vantare
inesistenti progressi in questa lotta che è di Sisifo solo per il sostanziale
disinteresse di chi la combatte. Intanto i misteri abbondano: produciamo cibo
per dodici miliardi di persone e tuttavia quasi un miliardo su sette di quelle
che abitano sulla terra non ha di che riempire il piatto. La scomoda verità è
che chi fa la fame oggi non lo deve tanto alla povertà propria quanto alla
ricchezza altrui. Succede perché i due terzi di aiuti all’India vanno a finire
nelle tasche dei funzionari corrotti. O perché la stessa percentuale dei soldi
stanziati dagli Stati Uniti in realtà resta a ingrassare l’economia americana.
O perché la Monsanto ha messo in piedi uno schema ricattatorio per lucrare sui
semi. O perché i derivati sul grano valgono cinquanta volte di più della produzione
del grano e questa e altre speculazioni hanno fatto triplicare il prezzo dei
cereali, rendendoli proibitivi per chi ne aveva un bisogno vitale. Tutto
questo, assai genericamente, lo sappiamo. Salvo poi dimenticarlo il giorno
dopo. È un meccanismo di difesa normale quello di scrollarsi di dosso fardelli
insopportabili per continuare a vivere. Sino a quando non arriva qualcuno che
ci rispiega tutto a un livello di risoluzione inedito, offrendo il contesto
storico che ci ha portati sin qui, e la storia prende un senso nuovo, più
nitido e urgente. È successo per la camorra con Roberto Saviano. (…).
martedì 17 maggio 2016
Paginatre. 36 “Umberto Eco. Psicopedagogia per un figlio”.
Da “Lettera
a mio figlio” (1964) di Umberto Eco, tratta da “Diario minimo”, prima edizione Oscar narrativa Mondadori (ottobre
1988), pagg. 115-121: Caro Stefano, si avvicina il Natale e presto
i negozi del centro saranno affollati di padri eccitatissimi che giocheranno la
commedia della generosità annuale – essi, che hanno atteso con gioia ipocrita
quel momento in cui potranno comperarsi, contrabbandandoli per i figli, i loro
trenini preferiti, i teatri dei burattini, i tiri a segno per frecce e i ping
pong casalinghi. Io starò a vedere, (…). Poi verrà il mio turno, passerà la
fase dell'educazione materna, tramonterà l'era dell'orsacchiotto e sarà il
momento in cui incomincerò a plasmare io, con la dolce sacrosanta violenza
della patria potestas, la tua coscienza civile. E allora, Stefano... Allora ti
regalerò fucili. (…). Ho avuto una infanzia fortemente, esclusivamente bellica:
sparavo tra gli arbusti in cerbottane fatte all'ultimo momento, mi acquattavo
dietro le rade macchine posteggiate facendo fuoco col mio fucile a ripetizione,
guidavo assalti all'arma bianca, mi perdevo in battaglie sanguinosissime. In
casa, soldatini. Eserciti interi, impegnati in strategie snervanti, operazioni
che duravano settimane, cicli lunghissimi in cui mobilitavo anche le vestigia
dell'orso di pelouche e le bambole della sorella. Organizzavo bande di
avventurieri, mi facevo chiamare da pochi scherani fedelissimi "il terrore
di Piazza Genova" (ora piazza Matteotti); sciolsi una formazione di "Leoni
Neri" per fondermi con un'altra banda più forte, al cui interno organizzai
poi un pronunciamiento degli esiti disastrosi; sfollato nel Monferrato fui
assoldato di forza dalla Banda dello Stradino e subii una cerimonia di
iniziazione che consistette in cento calci nel sedere e la prigionia per tre
ore in un pollaio; combattemmo contro la banda di Rio Nizza, che erano neri
sporchi e terribili, la prima volta ebbi paura e scappai, la seconda mi presi
un sasso sul labbro e ancora adesso ho come un nodulo dentro che si sente con
la lingua. (Poi arrivò la guerra vera, i partigiani ci prestavano lo Sten per
due secondi e vedemmo alcuni amici morti con un buco nella fronte; ma ormai si
stava diventando adulti e si andava lungo le rive del Belbo per sorprendere i
diciottenni che facevano all'amore, salvo i momenti delle primi crisi
mistiche).
lunedì 16 maggio 2016
Scriptamanent. 9 “Per un capitalismo sostenibile”.
Da “Per un capitalismo sostenibile” di Giorgio Ruffolo e Stefano Sylos
Labini, sul quotidiano la Repubblica del 16 di maggio dell’anno 2013: (…).
Nella prima fase che segna l’affermazione del capitalismo industriale, il
profitto viene estratto dallo sfruttamento del lavoro. Il conflitto sociale
nasce dalla contrapposizione tra gli interessi capitalistici e quelli della
democrazia politica: da una parte i rendimenti del capitale, dall’altra i
redditi da lavoro sostenuti dal sindacato e promossi dallo sviluppo della
democrazia. La composizione tra queste due esigenze è affidata a politiche dei
redditi che si esprimono attraverso una distribuzione proporzionale all’aumento
della produttività. La libertà nello scambio delle merci è “compensata” da
controlli di varia natura sul movimento dei capitali. L’insieme di queste
politiche sociali, commerciali e finanziarie permette di promuovere una fase
caratterizzata da crescita economica e maggiore eguaglianza: l’età dell’oro
(1945-1973). Dopo il primo shock petrolifero, la situazione muta radicalmente: si
scatena una controffensiva capitalistica segnata dalla liberazione del
movimento dei capitali. Agli inizi degli anni ’80 si verifica dunque una
transizione dal capitalismo industriale al capitalismo finanziario mentre il
profitto è realizzato sempre più attraverso la mobilità del capitale che
assicura rendimenti più elevati. (…). Nel luglio 2012 uno studio di James Henry
McKinsey, stimava il patrimonio nascosto dai super-ricchi nei paradisi fiscali
in oltre 32mila miliardi di dollari, una cifra equivalente alla somma delle
economie degli Stati Uniti e del Giappone. In questa fase, il capitalismo
realizza l’obiettivo mancato dal movimento operaio: una vera e propria
“internazionale capitalistica” che provoca enormi diseguaglianze tra capitale e
lavoro e minaccia di deprimere la domanda. Questa minaccia viene fronteggiata
con un indebitamento sistematico che dà luogo a una “grande sbornia” del
credito: una vera e propria inflazione finanziaria. L’indebitamento delle
famiglie e delle imprese che ne risulta viene sistematicamente rinnovato così
da rendere il nuovo capitalismo finanziario un sistema nel quale i debiti non
si rimborsano mai. Una scommessa chiaramente insostenibile eppure incentivata
dai governi e avallata dalle agenzie di rating contro ogni logica. Ma le onde
del debito che si accavallano l’una sull’altra, prima o poi si infrangono sulla
riva. È il momento della crisi. L’immensa liquidità creata dalle banche e dagli
altri intermediari finanziari si essicca di colpo. La liquidità sparisce. Le
banche cessano dal farsi credito tra di loro. Ma i debiti restano e devono
essere pagati. Per salvare il capitalismo dal collasso vengono mobilitate
risorse pubbliche di una portata mai vista nella storia contemporanea. (…).
L’intervento dello Stato ha privilegiato il salvataggio delle banche mentre è
stato molto debole sul lato della crescita. E così che i governi sono “puniti”
per i loro disavanzi dalle agenzie di rating e riducono le spese sociali
addossando i costi della crisi ai ceti più deboli. (…). Oggi sarebbe quanto mai
necessario un nuovo compromesso storico tra il capitalismo e la democrazia, del
tipo di quello che contraddistinse, alla fine della Seconda guerra mondiale,
l’età dell’oro. Abbandonare il capitalismo finanziario sregolato per tornare a un
capitalismo governato. (…). Ridurre i divari nella distribuzione della
ricchezza non solo perché diseguaglianze troppo marcate sono moralmente
inaccettabili ma perché costituiscono un freno allo sviluppo dell’economia. Uno
sviluppo economico sostenibile si deve fondare su investimenti, crescita della
produttività e dei salari reali. Per questo la politica dei redditi deve
ritornare al centro della politica economica.
domenica 15 maggio 2016
Lavitadeglialtri. 10 “La vita di Dangqiu Lamao”.
È giovine. Lui mi dice – riporto
a memoria -: “Hai avuto tanto dalla vita, un lavoro, una famiglia, hai fatto
quel che più ti è piaciuto… perché stai a lamentarti tanto, a mugugnare il più delle
volte.” È tutto vero per ciò che ha detto. Se guardassi solamente al mio
orticello non avrei motivo alcuno per lamentarmi, per mugugnare. Ma basta
guardare solamente al proprio orticello per dire che tutto va bene? Ché il
detto antico ha un valore eterno e supremo: “’u gurdu non crida mai a’ lu
diunu” – che tradotto in lingua corrente sta a significare che il sazio
non crede a chi digiuna per ragioni di forza maggiore -. È giovine e mi dice:
“Prenditi la vita un po’ più alla leggera”. È il senso di quel “più alla
leggera” che mi lascia perplesso. Cos’è: un invito a rinchiudersi nel proprio
orticello? Per che fare? E il mondo di fuori? Oltre lo steccato? Mi piacerebbe
tanto che leggesse la storia di Dangqiu Lamao, storia raccontata da Giampaolo
Visetti in un’altra delle Sue straordinarie corrispondenze dal paese che fu
dell’impero celeste, corrispondenza che ha per titolo “Il sostegno della famiglia”, pubblicata sul supplemento “D” del
quotidiano “la Repubblica” che di seguito trascrivo in parte. Mi dirà quel giovine
a me carissimo: un’altra storia dalla Cina! Uffa!! Mi accuserà di ricorrere,
magari in mala fede, alla solita vetusta iconografia vetero-marxista-comunista.
Ma dove guardare allora? Nell’orticello del nostro mondo reso pieno di rovi –
metaforicamente parlando soprattutto per i giovani come lui -, con un’aria non
più salubre? Non mi piace rinchiudermi nel mio florido orticello. Mi interessa
sapere anche di Dangqiu Lamao che studia e lavora, che accudisce fratelli e
bambini del villaggio nel quale è ospite dopo aver perso la famiglia a seguito
di un terremoto. Ed anche questo post è per pensare a Dangqiu Lamao ed a tutti
quelli come lei; perché il giovine carissimo sappia che non basta che il
proprio orticello sia ben tenuto e fiorito. È
necessario sempre, anche se sazi, guardare anche oltre lo steccato,
mugugnare e lamentarsi pensando a tutte le Dangqiu Lamao che popolano questo mondo
reso storto assai dagli umani. È ciò che mi sono sforzato d’insegnare ai
carissimi giovani che la sorte mi ha nella vita affidato.
sabato 14 maggio 2016
Oltrelenews. 88 “Non è l’anatomia a renderci genitori”.
Da “Non è
l’anatomia a rendere capaci di fare i genitori” di Umberto Galimberti, sul
settimanale “D” del 30 di aprile dell’anno 2016: Ora che le decisioni sono state
prese e il clima su questo non è più infuocato, approfitto per tornare sul tema
delle adozioni, discutendo in termini “quasi scientifici”, dal momento che la
psicoanalisi (…) non è una scienza, e le neuroscienze sanno ancora troppo poco
dell’anima e anche, (…), del corpo. La separazione dell’anima dal corpo è stata
inaugurata da Platone per giungere a conoscenze universali e valide per tutti,
a cui non era possibile pervenire se ci si fosse regolati unicamente sulle
informazioni provenienti dai sensi corporei, essendo queste informazioni
diverse da individuo a individuo, e nel corso della vita dello stesso
individuo. Poi il Cristianesimo, con Agostino, accolse il dualismo di anima e
corpo che Platone aveva inaugurato per risolvere un problema di conoscenza, e
lo rigiocò in un altro scenario: quello della salvezza. Il passo successivo
ancora fu compiuto da Cartesio che, inaugurando la scienza moderna, ridusse il
corpo a organismo e poi cercò di porlo in relazione all’anima ricorrendo alla
ghiandola pineale. Quando sento dire che la psicologia è ormai persuasa che
esiste una relazione tra anima e corpo, dico che questa relazione è un puro
gioco di parole, finché qualcuno non sarà in grado di dimostrarmi perché, se
uno mi insulta (evento culturale) mi produce una vasodilatazione (evento fisiologico)
. Per quanto concerne le neuroscienze, esse sono ancor meno attrezzate della
psicologia per trovare l’unità di anima e corpo, perché il corpo che indagano è
ancora il corpo di Cartesio, ossia l’organismo, non il corpo del mondo della
vita, del tutto estraneo alle neuroscienze, e, (…), in parte anche alla
psicologia, eccezion fatta per la psicologia fenomenologica che da un secolo a
questa parte, con Husserl, Heidegger, Iaspers, Sartre, Merleau-Ponty,
Binswanger, Minkowskì, e da noi Callieri e Borgna, sta chiedendo alla
psicologia di cambiare paradigma. (…). Ma se dall’organismo ci portiamo
all’altezza del corpo, la felicità di un bimbo dipende dall’affetto che riceve,
dall’attenzione che chi lo ha adottato gli dedica, dal mondo che i genitori
adottivi gli creano intorno. Perché l’organismo, come tutte le cose, “è” nel
mondo, mentre il nostro corpo “dischiude” un mondo, accoglie gli stimoli che da
quel mondo provengono e in quel mondo si sente chiamato e impegnato. Ed è di un
mondo che i bambini hanno bisogno, non di due organismi diversamente sessuati. Per
quanto poi riguarda la psicoanalisi, Lacan, (…), riformula in altro modo quello
che Freud aveva già enunciato illustrando il complesso di Edipo, il cui
superamento decide la buona organizzazione psichica del soggetto. Ma Freud
aveva anche precisato che tale concetto era applicabile solo in Occidente, dove
vige la famiglia nucleare, e non nelle altre società che Freud definisce
«eso-edipiche», dove si cresce al di fuori del percorso edipico, senza per
questo diventare affatto dei disadattati o dei pazzi. Quando nelle dispute
sulle adozioni gay sento dire che “ogni bambino ha diritto a un padre e a una
madre”, penso: quanto siamo ancora etnocentrici, nell’assumere l’organizzazione
familiare che noi occidentali ci siamo dati come l’unica in grado di garantire
la salute psichica di chi viene al mondo! Salvo poi curare la depressione
di giovani, che giungono persino a
progettare il suicidio, pur avendo avuto una mamma e un papà.
venerdì 13 maggio 2016
Scriptamanent. 8 "Parallelismi possibili e scorci del vizio italiano".
Da “Il duca Valentino del terzo millennio” di Franco Cordero, articolo
pubblicato sul quotidiano la Repubblica di venerdì 13 di maggio dell’anno 2011 -
estratto dalla lezione al Salone del libro di Torino tenuta il giorno
successivo sabato 14 di maggio sul tema "Scorci del vizio italiano" -:
(…).
I programmi postulano una democrazia plebiscitaria decerebrata: il popolo
pseudo sovrano è corpo senza testa; non gli serve; regolato dai media, emette
suoni e compie gesti ad hoc. Proforma siede un parlamento, organo vociferante
del padrone: ai bei tempi era antagonista del re; sub divo Berluscone
riprodurrebbe Reichstag nazista o Camera dei Fasci e delle Corporazioni, quod
Deus avertat, ma lo vediamo già nelle Camere attuali, sebbene in una il sovrano
sia forte appena d´un minimo margine. Vuol riscriversi la Carta e comandare le
giurisdizioni come a stento vi sarebbe riuscito Re Sole. [...] S´illude chi lo
dà ormai cadente. I riflessi belluini scattano nelle avversità e gli restano
risorse soverchianti ma ha dei punti vulnerabili. Egomane forsennato, ignora
gli altri, né misura i limiti del fattibile. Tra i più ricchi al mondo, e
sappiamo in qual modo lo sia diventato, può permettersi una paranoia
triumphans: nelle psicosi acted out il disadatto al gioco sociale, anziché
adeguarsi, cambia le regole modificando gli scenari; è performance rara,
dall´epilogo catastrofico, almeno sinora. Adolf Hitler vi dura dodici anni. Qui
siamo al diciassettesimo in un contesto molto diverso, d´opera buffa e fondali
neri. Gl´italiani s´annoiano presto.
giovedì 12 maggio 2016
Lalinguabatte. 20 "L'Italia ama l'uomo forte perché è una democrazia immatura".
La “dialettica” che non c’è. Definisce in
questi termini la “dialettica” il Dizionario Treccani: “Dal gr. διαλεκτικὴ (τέχνη),
propr. «arte dialogica». In senso generico significa l’arte del dialogare, del
discutere, intesa come tecnica e abilità di presentare gli argomenti adatti a
dimostrare un assunto, a persuadere un interlocutore, a far trionfare il
proprio punto di vista su quello dell’antagonista”. Bene. La “dialettica”
è stata il pane ed il nutrimento di intere generazioni che si siano ispirate in
varia misura a quella parte politica che si soleva definire la “sinistra”.
La “dialettica”
è stata il tratto essenziale e la connotazione privilegiata di quelle forze che
nel tempo si siano proposte a dare un assetto di democrazia compiuta
incoraggiando “partecipazione” e “responsabilità”. “Dialettica”,
“partecipazione”
e “responsabilità”
molto diffuse risultano essere termini inscindibili senza i quali la democrazia
risulta essere una “democrazia sciancata”, senza vitalità alcuna ed in mano ad
improvvisatori e dilettanti. Chi non ha a cuore la realizzazione delle predette
pre-condizioni non ha a cuore una democrazia matura. La “dialettica” è stata dapprima
sostanzialmente appannaggio di una ben riconoscibile parte politica; senza la “dialettica”
quella parte politica è come se non esistesse più. Il politico che opera per
non incrementare “dialettica”, “partecipazione” e “responsabilità”
ha come mira, poi non tanto velata, una democrazia “immatura”, che sia
facilmente condizionabile sul piano del consenso per mezzo delle arti proprie
dei seduttori di folle inconsapevoli sì ma non per questo meno colpevoli. Scriveva
Adriano Prosperi sulle conseguenze “del ventennio berlusconiano” – che
non si è di fatto interrotto - in “Il
diritto alla politica” sul quotidiano la Repubblica dell’8 di gennaio dell’anno
2013:
(…). …parliamo (…) dei partiti, quelli ai quali la Costituzione riconosce il
compito di garantire ai cittadini il diritto di «concorrere con metodo
democratico a determinare la politica nazionale» (art.49). Chi ha una certa età
non può dimenticare l’appassionata partecipazione che a partire dal’48 ha
portato grandi masse a fare uso effettivo di quel diritto sulla base del
programma del partito e caricando il proprio voto di un fortissimo investimento
di volontà di cambiamento. Oggi il confronto politico si svolge per lo più al
di fuori dei partiti e più o meno esplicitamente contro di essi. Anche laddove
resiste la forma partito o ne sussistono le vestigia, quello che conta e a cui
si affida l’efficacia del richiamo elettorale è il leader: il suo nome, la sua
storia personale, o almeno la sua faccia, i suoi tic individuali. (…). In
questo Paese la stragrande maggioranza della popolazione per secoli non ha
avuto diritti ma solo doveri, quelli biblici di Adamo ed Eva: lavorare per gli
uomini, partorire nel dolore per le donne. I diritti alla vita, alla libertà,
al perseguimento della felicità che la Dichiarazione d’Indipendenza degli Stati
Uniti aveva definito inalienabili non sfiorarono le masse contadine dei sudditi
del Regno d’Italia più di quanto avessero sfiorato le tribù dei nativi
americani. È stato solo col secondo dopoguerra che è nata un’esperienza dei
diritti per effetto di una liberazione che fu politica e divenne rapidamente
sociale - liberazione dalla stretta del bisogno e della mancanza di lavoro, possibilità
di partecipare al grande e felice banchetto dei consumi e di presentarsi al
seggio elettorale sentendosi finalmente soggetti e costruttori del proprio
destino. Oggi tutto questo appare lontanissimo: e la radice primaria è la
scomparsa del lavoro come diritto oltre che come realtà. (…). Di fatto quello
che fu il caposaldo della Costituzione repubblicana e dette una risonanza
straordinaria alla formulazione fanfaniana dell’articolo 1 è oggi una vuota
parola. (…). L’esito finale di tutto questo è una estromissione collettiva
dalla politica come campo aperto di cui si fa parte normalmente, senza dover
attendere la chiamata dall’alto. Contro l’alto e il basso bisognerà pur
restaurare un approccio orizzontale, laico e concreto alla lotta politica: a
meno di non voler tornare all’Italia dei secoli antichi, quando i contadini
veneti si sentivano stretti fra l’«Altissimo di sopra che manda la tempesta» e
«l’Altissimo disotto che prende quel che resta». Con la sconsolata conclusione:
«E noi tra ‘sti doi Altissimi restemo poverissimi». Il martedì 12 di
maggio dell’anno 2015 Ferruccio De Bortoli rilasciava un’intervista a Silvia
Truzzi su “il Fatto Quotidiano”, intervista che aveva per titolo "L'Italia è un Paese ad alta
digeribilità, che ama l'uomo forte perché è una democrazia immatura". La
trascrivo in parte:
martedì 10 maggio 2016
Scriptamanent. 7 “La politica degli antipolitici”.
Da “La politica degli antipolitici” di Nadia Urbinati, sul quotidiano
la Repubblica del 10 di maggio dell’anno 2012: La demagogia è una forma
degenerata della democrazia, la sua periferia interna. I classici la situavano
al punto terminale della democrazia costituzionale o “buona”. (…). Oggi la
demagogia usa il linguaggio dell'antipolitica per esprimere opposizione alla
classe politica attualmente esistente con il prevedibile obiettivo di scalzarla
con una nuova. Se poi questa classe politica si è macchiata di corruzione ciò
rende l'arringa del demagogo più facile ed efficace. (…). Ma che cosa è
esattamente l'antipolitica? Quando si parla di antipolitica nelle società
democratiche si usa una parola molto imprecisa. Chi la usa non suggerisce
infatti di ritirarsi nella solitudine di un convento, oppure di vivere solo di
e per la famiglia, o solo di e per il lavoro. Chi usa l'espressione
antipolitica vuole presumibilmente criticare il modo con il quale la politica è
praticata ma in realtà sfruttare lo scontento che esiste ed è forte verso le
forme tradizionali di esercizio della politica. Non è la politica l'obiettivo
polemico e nemmeno la forma partito. Non è la politica perché il parlare di
antipolitica è comunque un parlare politico, addirittura uno schierarsi
partigianamente, e questo è a dimostrazione del fatto che nelle società
democratiche non c'è scampo alla politica, nel senso che ogni questione che
esce dal chiuso della domesticità è e si fa politica. Diceva Thomas Mann in un
saggio esemplare sull'impolitico che nella società democratica anche chi si
scaglia contro la politica è costretto a farlo con linguaggio politico, a farsi
partigiano della sua causa. Ci si schiera e si entra nell'agone. L'antipolitica
non è possibile. Così è oggi: non c'è niente di più politico di questa
persistente critica della politica. A ben guardare l'obiettivo polemico non è
neppure la forma partito, l'associarsi cioè per perseguire o ostacolare
determinati obiettivi e progetti politici. Anche i più astiosi demagoghi
dell'antipolitica – (…) – si presentano alle elezioni! (…). Accettando di presentarsi
alle elezioni ha(nno) accettato le regole democratiche della
competizione e, soprattutto, messo in campo persone che, nonostante il
linguaggio demagogico (…), vogliono fare politica e discutono di problemi che
sono politici, dall'ambiente alla corruzione, agli interessi privati nella cosa
pubblica. (…). La demagogia non piace ma è innegabile che chi si identifica con
il Movimento del demagogo ha una visione politica, non antipolitica. E su
questa visione ci si deve interrogare e ad essa occorre controbattere.
Iscriviti a:
Post (Atom)