Da “L’orologio
della Ue segna solo l’ora tedesca” di Paolo De Ioanna, sul settimanale
“Affari&Finanza” del 13 di ottobre dell’anno 2014: Avete mai visto un orologio nel
quale funziona alla perfezione un solo quadrante, quello dei minuti, mentre gli
altri (ore, giorni, settimane) vanno per conto loro? Evidentemente no! Le
istituzioni europee sono un meccanismo nel quale aste e bilancieri regolano (o
vorrebbero regolare) alla perfezione le politiche di bilancio, il livello di
deficit, debito e spesa pubblica per ciascun paese membro; gli altri quadranti
(investimenti via bilancio europeo; controllo del debito da parte della banca
centrale; vigilanza su tutte le banche, ecc.) non sono regolati. O meglio sono
regolati in funzione dei minuti, pardon del debito. L’orologio funziona male,
segna sempre l’1%, sia che segni l’inflazione, la crescita reale, ecc. Mentre i
parlamenti nazionali fingono di dialogare e quello europeo si interroga sulla
sua funzione, l’orologio segna sempre lo stesso tempo. È un orologio molto
coerente, costruito per segnare il tempo storico e le esigenze politiche ed
economiche del paese egemone (la Germania) e della corona dei suoi satelliti
economici.
Ma il tempo storico di un paese o di un gruppo di paesi
difficilmente può misurare il tempo e le esigenze di tutti gli altri; a meno
che il gruppo dei paesi di testa sia riconosciuto dagli altri come quello che
detta il tempo e le istituzioni e sa farsi carico delle esigenze di tutti gli
altri. Ma se si pensa che la metafora dell’orologio non funzioni e che invece
occorra utilizzare quella della bilancia (cioè del pendolo del mercato, per
parafrasare il titolo del bel libro di Otto Mayr), allora bisogna ragionare in
termini di aree geopolitiche che si stanno fronteggiando e saranno sempre più
destinate a fronteggiarsi e, auspicabilmente, a cooperare. In questa
prospettiva se l’Italia vuole agire nel mare aperto della globalizzazione siamo
sicuri che questo modello di orologio imposto dalla Germania sia quello che per
noi funziona meglio? Una domanda che non dovrebbe porsi solo l’Italia, ma anche
Francia, Portogallo e la stessa Spagna sussidiaria del modello tedesco. Ci
rompiamo la testa sullo 0,1-0,2% del disavanzo mentre dovremmo immaginare un
programma a 5-6 anni di riforme serie per innovare e rilanciare investimenti
pubblici, industria tecnologicamente avanzata e macchina amministrativa, senza
riguardi per vincoli sciocchi eteroimposti (e accettati da una classe politica
screditata che ha affidato ai cosiddetti tecnici i lavori difficili). Nel
frattempo il tempo passa e l’area centro europea che guarda con un occhio ad
ovest e uno a est sta cercando di capire come fare per gestire al meglio la
tempesta ucraina, che ha contribuito non poco essa stessa ad alimentare, la
stessa tecnica che aveva utilizzato per disarticolare alcuni stati della
ex-Jugoslavia che ora sono saldamente nella sfera tedesca (Croazia in testa).
Se l’innovazione delle istituzioni europee sta tutta in un processo modellato
sulla idea tedesca dell’orologio che deve funzionare senza trasferimenti di
risorse tra Stati, senza bilancio pubblico europeo, senza un vero controllo
bancario, senza investimenti europei, senza banca centrale che domina i tassi
di interesse, ma solo col controllo del quadrante dello spread, guidato dai
mercati finanziari (e dall’organizzazione del lavoro tedesca), temo che siamo
arrivati al capolinea di questo modello. Anche se potrà continuare a battere
per molti anni mentre il tempo del mondo va verso altre crisi. Il federalizing
process di cui parlano sovente i professionisti di questa Europa a trazione
tedesca sembra irrimediabilmente in panne. Se non si ricrea un nuovo focus
europeo le cui linee di convergenza considerino tutti i quadranti di un
orologio che deve segnare il tempo dello sviluppo equilibrato per tutte le aree
di questo straordinario e complesso continente, non è difficile immaginare che
le spinte centrifughe e nazionaliste cresceranno sotto l’alibi dell’Islam e
della guerra di civiltà. Per fare da argine a questa marea è necessario che le
componenti razionali e laiche che hanno fatto grande la cultura di questo
continente si ritrovino dentro un progetto europeista democratico di stampo
laburista (…). Un tale focus non può essere solo una costruzione teorica ma
richiede una base sociale di riferimento (partiti e sindacati) e leader
coerenti con tale prospettiva.
Da “Germania,
l'acqua calda del finto boom” di Alberto Bagnai, su “il Fatto Quotidiano”
del 22 di ottobre dell’anno 2014: (…). Prassi vorrebbe (…). Ma un economista è
un esperto che saprà domani perché quello che ha previsto ieri non si è
verificato oggi. Quindi in questo caso temo di non potervi essere di aiuto. Che
con la sua intransigenza la Germania stesse segando il ramo sul quale era
seduta (cioè l'Eurozona) l'ho detto il 23 agosto 2011 sul manifesto, e le
statistiche aggiornate secondo il sistema SEC2010 ci dicono che questa facile
previsione si è già verificata: la Germania è già stata in recessione tecnica
fra fine 2012 e inizio 2013, anche se nessuno ne ha parlato. Quella che si
potrebbe materializzare fra breve sarebbe così la terza recessione dal 2008, il
triple dip. Nulla di catastrofico: forse un -0.2% sul trimestre precedente, nel
contesto di una crescita annuale comunque sopra all'1% (per noi un miraggio).
Ma il dato è significativo perché rivela che la Germania non può fare a meno
dell'Europa. La grama vita dell'economista offre solo l'inelegante soddisfazione
di dire "io l'avevo detto" e mi scuso per averne approfittato. Non
vorrei però che questo articolo passasse per la petulante rivincita del
secchione che per una volta ci ha azzeccato. Vorrei invece riflettere con voi
sul fatto il problema al quale siamo di fronte è piuttosto banale in termini
economici (l'euro non funziona), ma è enorme in termini politici. La crisi
tedesca ci impone di ripensare il modo in cui negli ultimi trent'anni abbiamo
articolato il nostro rapporto con l'Europa. L'idea che gli italiani non si
meritassero la democrazia, e quindi avessero bisogno di un "vincolo
esterno", di "regole europee", per governarsi, si sta rivelando
fallace non solo per il suo intrinseco fascismo (che già basterebbe a
rifiutarla), ma soprattutto perché il modello che le nostre élite ci additano,
cioè la Germania, è fallimentare. Il decollo del surplus commerciale tedesco a
partire dall'ingresso nell'euro rivela che l'industria tedesca può prosperare
solo in un mercato drogato dalla finanza tedesca. Il modello tedesco è
semplice: se ti indebiti per comprare i miei beni, sono bravo io; se poi i
soldi che ti ho prestato con le mie banche decotte non riesci a restituirli,
sei cattivo tu. Il classico testa vinco io, croce perdi tu. (…). Nonostante le
dichiarazioni avverse delle élite finanziarie tedesche, chi comandava sapeva
che la presenza dei paesi del Sud avrebbe dato alla Germania il vantaggio di
commerciare con una moneta che per lei era una lira travestita, dandole un
vantaggio di prezzo. Ai moralisti "de noantri", che tanto volevano
"alzare la nostra asticella" (che poi non era la loro, ma quella di
contribuenti e imprese) per sferzarci a essere competitivi, sfuggiva che così
facendo l'abbassavano a un'economia già più produttiva della nostra, che quindi
non avrebbe avuto bisogno di essere aiutata. Ma in economia non ci sono
miracoli, e i comportamenti sleali si pagano sempre. Drogando la propria
competitività con una moneta per lei debole, e la propria crescita con la
domanda altrui (le esportazioni), scegliendo insomma di campare sui consumi
altrui anziché sugli investimenti propri, la Germania ha compromesso il proprio
futuro. Oggi tutti i giornali propalano il segreto di Pulcinella: la dotazione
infrastrutturale tedesca è in uno stato preoccupante, le politiche di
repressione salariale hanno fatto aumentare la disuguaglianza, le banche
tedesche avranno seri problemi col prossimo stress test, la produttività
rallenta. Tutto vero, ma perché lo scoprono solo adesso? …la Germania ha fatto
i propri interessi, magari in modo miope (e ne pagherà i costi), ma questo non
può esserle rimproverato. L'Europa infatti non nasce nel segno della
solidarietà fiscale: se così fosse stato, si sarebbe creato uno stato federale.
Nasce invece nel segno delle regole. Era quindi chiaro fin dall'inizio che non
ci sarebbe stata la volontà politica di affrontare un percorso comune, e hanno
sbagliato le nostre élite, privandoci in un simile contesto dell'arma difensiva
del cambio. (…). Il fallimento del modello tedesco indurrà finalmente i nostri
politici ad abbandonare la retorica dell'europeismo di maniera? Quando avremo
politici disposti a riconoscere che l'interesse nazionale non è un residuato
bellico, ma un dato col quale confrontarsi in questa unione di paesi disparati,
non mediata da alcuno strumento politico di condivisione del rischio economico?
Riconosceranno mai che ripristinare lo Stato nella sua piena sovranità
economica è indispensabile per tutelare i diritti economici e civili dei
cittadini? (…).
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