Da “Una
misura che non ha ragioni economiche”, intervista di Adriano Bonafede, sul
settimanale “Affari&Finanza” del 26 di gennaio 2015, al professor Donato
Masciandaro direttore del dipartimento di “Economia della regolamentazione
finanziaria” della Università Bocconi di Milano: «La misura che il governo ha
preso nei confronti delle grandi popolari non ha alcuna ragione economica
generale ma può trovare una giustificazione soltanto in esigenze politiche di
breve periodo». (…). «Le popolari esistono in tutti i paesi industrializzati.
La vera anomalia è il paese in cui un governo usa un decreto legge per
cambiarne la governance». Professor Masciandaro, questa misura presa dal
governo Renzi non è dunque necessaria? «Non esiste alcuna evidenza empirica al
mondo che supporti l’idea su cui fonda il decreto Renzi, secondo cui una banca,
per essere efficiente, deve essere una società per azioni».
E dunque perché è
stata presa? «Suppongo in base a esigenze politiche di breve periodo. In ogni
caso non nasce da esigenze economiche. È un classico esempio di economia
dirigistica. Si sceglie a caso un numero (8 di attivo, NdR), si traccia una
linea e si dice che occorre trasformarsi in una Spa. Una scelta del genere
appartiene più a un’economia pianificata che a una di mercato». Il governo
giustifica il decreto legge dicendo che serve a favorire gli accorpamenti e per
questa via a rafforzare il sistema bancario. Lei che ne pensa? «Non si è mai
visto che un intervento dirigistico migliori l’allocazione delle risorse.
Almeno io, che non sono un comunista ortodosso, non lo credo ». Il
provvedimento riveste per l’esecutivo un carattere d’urgenza tanto è vero che
ha assunto la forma di un decreto legge. Lei ravvisa questa esigenza di
rapidità? «Se non esiste alcuna razionalità economica non vedo come possa
esserci l’urgenza di portare avanti una misura del genere». Allora quali
sarebbero, secondo lei, le reali motivazioni di questo decreto legge, visto che
lei stesso parla di ragioni politiche di breve periodo? «Le ragioni politiche
devono essere chieste e fatte spiegare agli esponenti del governo che hanno
voluto questo provvedimento. Quello che posso dire, e ripetere, è che né la
dimensione né l’assetto proprietario di un istituto di credito costituiscono di
per sé una garanzia di efficienza. Ne deduco che la ragione di un intervento di
questo tipo debba essere prettamente politica ». Le performance economiche
delle popolari sono identiche a quelle delle altre banche? «Prendiamo i dati
presentati nelle relazioni annuali dell’Associazione banche popolari. Le
performance di questi istituti non sono peggiori rispetto a quelle delle altre
aziende creditizie sia in tempi normali, ovvero prima della crisi del 2008, sia
in tempi straordinari come il periodo successivo. Non è rilevabile, in modo
sistematico, alcun gap negativo delle banche popolari rispetto alle non
popolari». Si è detto in passato che le popolari avrebbero maggiori difficoltà
a raccogliere capitale. «Le banche popolari non hanno mai avuto problemi di
raccolta del capitale: quando è stato necessario fare degli aumenti di capitale
ci sono riuscite. Né sono mai venute meno rispetto al servizio al territorio
rispetto a una qualunque altra banca». L’attuale modello di governance delle
popolari è dunque corretto? «Non dico che il modello delle popolari sia
migliore di quello delle società per azioni, certo, ma non è corretto neppure
sostenere il contrario. Non c’è dunque alcun motivo di spingere le grandi
banche popolari ad accorparsi. E nel provvedimento del governo non si parla
neppure soltanto di istituti quotati ma di tutte le banche oltre un certo
attivo. Un limite tracciato arbitrariamente e senza alcuna giustificazione
economica».
Da “L'assurdo decreto contro le Popolari” di Marco Vitale, su “il Fatto Quotidiano” del 28 di gennaio 2015: (…). Le banche popolari, con la loro caratteristica "una testa, un voto", sono da oltre un secolo una delle colonne portanti dell'economia europea. Sono circa 3.700, danno lavoro a 250 mila persone e contano su circa 215 milioni di clienti, circa il 20% del mercato bancario retail. In Francia, il settore, caratterizzato da tre colossi come Crédit Agricole, BpC e Credit Mutuel ha in mano il 45% del mercato. In altri paesi la struttura è più facile. Da noi è stata molto indebolita, ma è ancora significativa. Dunque non si tratta di una anomalia italiana. E se esaminiamo le classifiche 2013 delle banche più equilibrate, solide, redditizie, produttive, troviamo bene collocate le principali banche popolari italiane, quasi tutte quelle colpite dall'affrettato decreto Renzi-Padoan. Le popolari di territorio sono state, in questi anni durissimi, tra quelle più vicine alle imprese, quando le maggiori banche erano allo sbando operativo. Le ragioni addotte per giustificare questo affrettato decreto, infine, sono alcune inconsistenti, altre preoccupanti. La più inconsistente la troviamo in bocca al presidente del Consiglio: "Abbiamo troppi banchieri e facciamo poco credito". Come se è da questo decreto che dovremmo attenderci più credito. Quelle preoccupanti le troviamo in bocca al ministro Padoan, secondo il quale l'credito per le imprese minori). Altra cosa da dire è che mancan intervento favorirà "un processo di consolidamento di mercato dopo la crisi". Si continua così ad alimentare la visione che in materia bancaria bisogna solo favorire le grosse dimensioni e le aggregazioni. DUNQUE la crisi del 2008, che è stata soprattutto crisi delle banche di grandi dimensioni, non ha insegnato niente? Dunque dobbiamo ripercorrere, acriticamente, le stesse strade? Ma c'è qualcuno che si vuole decidere a leggere il rapporto Ferguson (le grandi aggregazioni e dimensioni non portano di solito a economie di scala ma solo alzano il "livello di moral hazard" e portano a una restrizione del do spiegazioni credibili per un provvedimento così brusco, affrettato, e impropriamente chiamato riforma, su alcune banche popolari, non si può evitare la domanda: perché? Perché questa tempistica? Queste modalità? Questo strumento? È chiaro che un provvedimento di questo tipo, in questo modo ha dietro delle ragioni e delle pressioni impellenti. Vorremmo conoscerle. Si dice che in Parlamento il mondo delle popolari si opporrà e le lobby si metteranno in pista. Più che legittimo, doveroso. Anche perché la vera lobby si è già messa in pista. È la grande lobby delle cupole finanziarie che governano il mondo e per le quali qualunque istituzione che voglia conservare un barlume di democrazia economica è fumo negli occhi. Per permettere loro di trasformare ogni cosa in capital gain l’unico metro di misura che conoscono. (…). Questo non vuol dire che non siano necessari interventi, anche severi, su quelle Popolari che fanno un uso disinvolto del voto capitario. È il caso in particolare della BPM dove un piccolo gruppo di soci-dipendenti mantiene forme di controllo improprio sull'Assemblea, sul Consiglio e sul management. Ma non si legifera su queste patologie, si affrontano con interventi specifici e la Banca d'Italia ha sempre avuto i poteri per realizzarli e se non lo ha mai fatto è stato per pusillanimità. Ma ci sono anche interventi strutturali e istituzionali da fare nel quadro di una vera riforma, soprattutto per le Popolari maggiori. Ad esempio c'è un conflitto di fondo tra il voto capitario e la quotazione in Borsa. È necessario anche introdurre regole che assicurino una adeguata rappresentanza nei consigli d'amministrazione degli investitori istituzionali ed un adeguato numero di consiglieri indipendenti e ampliare il sistema delle deleghe. Se proprio si vuoi concedere qualcosa anche alla demagogia si possono porre dei limiti ai mandati dei vertici. Tutto questo e molto altro si deve fare per rammodernare l'istituto delle banche popolari e renderlo ancor più trasparente e utile di quanto già non sia al sistema. Ma per far questo ci vuole una vera riforma e cioè una cosa ben diversa da questo frettoloso, illiberale, enigmatico decreto. Un decreto ad personam anche se non sappiamo, per ora, con certezza a favore di chi.
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