Da “Jobs
Act, una generazione di giovani tradita da chi avrebbe dovuto difenderla” di
Marco Politi, su “il Fatto Quotidiano” del 30 di dicembre dell’anno 2014: Il
bilancio di fine anno è impietoso: tre milioni di precari permanenti si
ritrovano truffati dal Jobs Act. Tre milioni di ventenni, trentenni (e ormai
spesso anche quarantenni) non hanno ottenuto uno straccio di garanzia reale che
il loro precariato permanente sia considerato una pagina chiusa. Perché il
governo non ha voltato pagina. La realtà la conoscono tutti gli addetti ai
lavori: il “contratto a tutele crescenti” ha un valore se si tratta di un
contratto unico di impiego. Se invece continuano a esistere i contrattini
co.co.co., co.co.pro., finte collaborazioni, finti associati in partecipazione,
finte partite Iva, finti lavoratori a chiamata, se continua a esistere il
triennio di contratti a tempo determinato, che lascia il dipendente
completamente all’arbitrio delle aziende, il nuovo contratto propagandato dal
premier sarà solo un “ulteriore contratto precario”. Lo dice Annamaria Furlan
della Cisl, non Landini. Nel frattempo si è scoperto (è uno studio della Uil)
che per le aziende è vantaggioso assumere con gli incentivi statali del
contratto a tutele crescenti e poi dopo un paio d’anni licenziare, intascando
la differenza tra il risarcimento al lavoratore e i soldi incassati dallo
Stato. Dopo le aziende possono ricominciare daccapo con i contrattini. Sono
passati dieci mesi per partorire questa porcheria, impedendo tra l’altro al
Parlamento di esprimersi sulla normativa specifica. E in questo periodo di autoincensamento
ossessivo Renzi non ha preso la decisione di cancellare i contratti di
sfruttamento. Il decisionista è fuggito di fronte all’unica decisione, che
avrebbe dato una prospettiva vera a tre milioni di persone. Siamo di fronte al
tradimento di una generazione, anzi di più generazioni. La parte giovane
dell’Italia, condannata allo sfruttamento più devastante perché non soltanto a
pari lavoro (rispetto a un assunto a tempo indeterminato) non corrisponde pari
compenso, ma l’instabilità strutturale impedisce qualsiasi progetto futuro. Per
un premier, che del lavoro conosce unicamente l’esperienza di padroncino
nell’azienda di papà, è difficile comprendere la vita del Paese reale. Ma i
cosiddetti “saggi” del suo staff gli spieghino che non ci sarà ripresa, non ci
sarà consumo, non ci saranno mini-investimenti familiari, non verranno spesi
nemmeno i mitici 80 euro, se tre milioni di giovani e non più giovani hanno
l’acqua al collo del contratto a scadenza permanente. Lo sa il premier quante
donne e quanti uomini lavorano ben oltre l’orario con i contratti fasulli? Lo
sa quanti lavorano anche negli intervalli temporali, in cui non dovrebbero
essere impiegati? Conosce la sorte di quei giovani che lavorano in uno studio
di avvocati a zero compenso? Dietro questi tre milioni ce ne sono altri sei di
genitori, nonni e parenti, che in vari modi sostengono i giovani precari, ed è
quindi folle sperare che spendano per altri consumi invece di tenere i soldi da
parte per gli imprevisti. L’economia reale è questa, non le sceneggiate alla
Leopolda travestita da garage. Perciò il tradimento di questa generazione è
drammatico non solo per i giovani e le giovani lasciate allo sbando, ma incide
in maniera pesantemente negativa anche sulle prospettive dell’Italia nel suo insieme.
In ogni caso il premier per documentarsi faccia un giretto da Eataly. Io sono
convinto che Farinetti sia una persona in gamba, che conosce il suo mestiere.
Sono convinto che gli bastano sei mesi per capire se un ragazzo ha voglia di
lavorare e altri sei mesi per formarlo compiutamente. Allora i conti sono
presto fatti: chi lavora da un anno è stato assunto a tempo indeterminato?
Oppure c’è un turnover artificiale di precari? Si faccia un giro Matteo in
questa e altre realtà e imparerà un sacco di cose. Ma non prenda più in giro i
giovani italiani.
Da “Oltre 6mila euro a chi assume e licenzia dopo un solo anno. Jobs Act a rischio boomerang” di Valentina Conte, sul quotidiano la Repubblica del 9 di dicembre dell’anno 2014: (…). Si dirà, è un’ipotesi di scuola. Se prendo un lavoratore e lo tengo tre anni, perché licenziarlo? Per lo stesso motivo per cui ora i contratti a termine durano pochi mesi. Porte girevoli. La crisi è tutta qui. Lo sconto Irap (deducibilità del costo del lavoro) è permanente. Quello sui contributi previdenziali per i neoassunti (con un tetto a 8.060 euro annuo) vale fino al 2017. Entrambi non hanno vincoli. Né alla stabilizzazione del lavoratore, né a creare posti aggiuntivi. Tantomeno prevedono riserve, ad esempio ad aziende meritevoli che investono in ricerca o che non hanno licenziato nel recente passato (la sinistra dem diceva di voler inserire paletti alla Camera, non è stato fatto). Dunque perché rinunciare ai soldi pubblici dati a tutti, se poi licenziando anche in modo illegittimo si deve sborsare appena una mensilità e mezza per anno lavorato? Viva il contratto a tutele crescenti, dunque. Il saldo a favore delle imprese, calcolato per diversi livelli di reddito dal Servizio politiche territoriali della Uil, lascia sgomenti. Dopo un solo anno, si possono intascare oltre 6 mila euro. Dopo tre anni, quasi 19 mila. Il massimo al Sud, perché lo sconto Irap è più generoso, grazie alla norma Monti. A proposito di Sud, i fondi per coprire il bonus contributivo sui neoassunti (3 miliardi e mezzo nel triennio) sono stati scippati dal Piano azione e coesione creato dall’ex ministro Barca. Fondi europei, dunque. E fondi destinati proprio al Sud, ora spalmati su tutta Italia (con presumibile maggiore beneficio al Nord, laddove si assumerà di più). Il paradosso nel paradosso. Impossibile che gli imprenditori italiani non facciano questi calcoli. Nel giro di tre settimane, quando il primo decreto delegato del Jobs Act sarà ormai messo a punto, il quadro emergerà ancora più nitido. Il decreto dirà, finalmente, come funziona il contratto a tutele crescenti. E cioè che a crescere sarà solo l’indennizzo, visto che di riavere il posto dopo il licenziamento benché illegittimo neanche a parlarne (spetta solo se c’è discriminazione e in selezionatissimi casi disciplinari). Ma come crescerà, l’indennizzo? Una mensilità e mezzo per anno lavorato è davvero poco. La legge Fornero ora in vigore prevede fino a 12 mensilità, a prescindere dall’anzianità, e il reintegro: entrambi decisi dal giudice al termine della causa di lavoro. Per le aziende sotto i 15 dipendenti il reintegro non c’è ed è sempre il giudice a decidere un risarcimento tra le 6 e le 12 mensilità. In tutti e due i casi, una situazione certo migliore, specie per i precari con poca anzianità, di quanto si profila con il Jobs Act. Qualcosa davvero non funziona.
Da “Come
cambiare il limbo del lavoro” di Tito Boeri, sul quotidiano la Repubblica
del 27 di novembre dell’anno 2014: (…). Il nostro mercato del lavoro è il
peggiore d'Europa, da qualsiasi parte lo si guardi: durata della
disoccupazione, copertura dei sussidi di disoccupazione, produttività,
formazione sul posto di lavoro, povertà tra chi lavora e l'elenco potrebbe
continuare. Lo status quo è, in altre parole, aberrante, semplicemente
indifendibile. (…). Vediamo (…) quali sono i punti chiave su cui si gioca la
possibilità di riformare davvero il nostro mercato del lavoro, un'opportunità
che non possiamo assolutamente permetterci di perdere nuovamente. I decreti che
seguiranno la legge delega dovranno ridurre l'enorme incertezza che oggi
circonda i costi dei licenziamenti individuali in Italia. Significa
semplificare le norme e ridurre la discrezionalità dei giudici. La minoranza
del Pd ha ottenuto di creare un'asimmetria su come vengono trattati i
licenziamenti economici e quelli disciplinari senza giusta causa. Per i primi
non varrà mai il reintegro, per i secondi, in alcuni casi, sì. (…). …questa
asimmetria, per quanto confinata a casi molto specifici, rischia di aumentare
il contenzioso, dunque l'incertezza. Il datore di lavoro vorrà sempre far
valere ragioni economiche per il licenziamento mentre il lavoratore cercherà di
dimostrare che le vere ragioni sono disciplinari. Nessuno ha interesse ad
aumentare questa incertezza, tranne chi esercita la professione forense. Perché
l'opposizione interna al Pd e lo stesso sindacato chiedono di trattare meglio
chi presumibilmente può documentare di non essere gradito all'azienda perché si
è poco impegnato sul posto di lavoro rispetto a chi invece "ha dato il massimo",
ma ha avuto la sfortuna di lavorare in un'impresa che, per colpe non sue, è
entrata in crisi? Non sarebbe una battaglia molto più di sinistra chiedere al
governo di introdurre nella legge delega il principio per cui il datore di
lavoro paga un'indennità anche quando il licenziamento economico è legittimo?
Oggi in Italia, a differenza che in molti altri paesi, non è così. Sarebbe un
modo di tutelare di più chi è sfortunato e di tutelarlo maggiormente di chi ha
presumibilmente qualche responsabilità nel deludente andamento dell'azienda
presso cui lavora. Un'altra battaglia che la sinistra non sembra voler fare
riguarda il salario minimo. Ce ne sarebbe bisogno per ridurre il numero dei
cosiddetti working poor balzati negli ultimi anni al 16 per cento della forza
lavoro. La legge delega è molto reticente a riguardo, prevedendo sì «un
compenso orario minimo», ma solo per i settori dove non c'è contrattazione
collettiva. Ora, sulla carta tutto è coperto dalla contrattazione collettiva a
meno che si sia nel settore informale. Quindi il salario minimo dovrebbe
entrare in vigore solo dove nessuna legge viene applicata. Eppure, c'è un 13
per cento di lavoratori regolari che percepisce salari inferiori ai minimi
contrattuali, con punte del 30 per cento in agricoltura e nelle costruzioni.
Questi lavoratori senza alcun potere contrattuale continueranno a vedere il
proprio salario orario avvicinarsi di molto allo zero. Perché la minoranza del
Pd non chiede al governo di introdurre un salario minimo per tutti i lavoratori?
C'è poi la questione della semplificazione delle tipologie contrattuali. Renzi
continua a sostenere che abolirà i contratti a progetto e i co.co.co. Ma come
intende procedere? Cosa succederà a questi lavoratori? Come si pensa di ridurre
il rischio che finiscano per alimentare le fila dei disoccupati? C'è un modo
per scoraggiare l'abuso di queste figure contrattuali senza magari eliminarle
del tutto? E ancora, cosa si vuol fare in concreto per ampliare la copertura
degli ammortizzatori sociali ai lavoratori che hanno carriere discontinue? Se
si vuole davvero estendere il diritto a essere assistito in caso di perdita di
lavoro anche a chi ha versato contributi per soli tre mesi e a chi lavora nel
parasubordinato, non bisogna forse mettere sul piatto più risorse di quelle
oggi previste dalla Legge di Stabilità? Perché nessuno pone queste domande al
governo? Perché non chiede parimenti come intende assicurarsi che il diritto al
congedo di maternità venga davvero esteso a tutte le lavoratrici, autoctone e
immigrate, che lavorano nel nostro paese? Sono, immaginiamo, questi i quesiti
che interessano milioni di italiani. Ma non è certo di questo che si parla. (…).
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