Cosa ce ne viene dalla terribile esperienza
di “Charlie Hebdo”? È la terribile vicenda di “Charlie Hebdo” che mi spinge a
proporre questa “sfogliatura” di un post che risale al 24 di maggio dell’anno
2011 e che aveva allora, mantenuto anche in questa occasione, per titolo, “Potrei credere soltanto in un Dio che
ride”. Non è un voler banalizzare le “seriose” cose proprie delle religioni
– per la qual cosa faccio mio quanto il grande Woody ebbe a sostenere “grazie
a Dio sono ateo” - ma mi convinco sempre di più che la “seriosità”
religiosa, di tutte le religioni senza distinzione alcuna, la loro intolleranza,
reputandosi ogni religione l’unica depositaria della verità, siano state nel
tempo degli umani motivo di terribili tragedie e lo saranno per sempre se la
ragione non ci soccorrerà. Ritrovo il post alle pagine 2.091 e 2.092
dell’e-book fortunosamente salvato dalle profondità oscure delle rete e come
tale lo ripropongo:
"Dio è morto, Marx è morto e anche io non mi sento tanto
bene". Lo sosteneva il
grande Woody nel Suo strepitoso film “Io e Annie”. E voi, come la mettete? Non
so voi, ma io il problema di un dio me lo sono sempre posto. Direte: le solite
oziosità. Ma no, dio è una delle domande della vita. Se non vi siete posta la
domanda classica “dio esiste?” è perché forse siete presi troppo dal vostro lavoro,
dalle vostre preoccupazioni, dalla vostra carriera che sembrava tutta in
discesa e che ad un certo punto si è come incagliata, fermata. E poi la
famiglia. E l’amore. Della politica meglio non parlarne. A fronte di tutto ciò,
cosa può essere l’esistenza o la non esistenza di un dio? Se la cosa non vi ha
mai sollecitato la “domanda delle domande” è fuori di ogni ragionevole dubbio
che voi non abbiate potuto neppure porvi la questione, non secondaria, di quale
dio possa essere rispondente alle vostre ansie, alle vostre aspettative, ai
vostri bisogni spirituali. Dite la verità: avete mai chiesto al prete, ai
vostri familiari, all’amica/o del cuore com’è il dio da essi proposto? È per
caso il “dio degli eserciti” della biblica tradizione? Nel qual caso bisognerebbe
ignorare il problema, anzi rifiutarlo alla radice. Si parla sempre, sia chiaro,
di quell’entità che nessuno ha mai visto, che non si è mai materializzata sotto
forma vivente, e la cui presunta esistenza è legata alla buona volontà di chi
sia disposto, in cuor suo, a credere in qualcosa di non sensibile, di assolutamente
indimostrabile. Scendendo sul piano dell’aneddotica più elementare si narra che
il celebre Pierre-Simon de Laplace, celeberrimo matematico, all’imperatore
Napoleone che gli chiedeva come mai nei suoi trattati non avesse fatto apparire
mai o fatto cenno ad un dio qualsivoglia, si narra, dicevo, che quel
fertilissimo cervello umano abbia risposto semplicemente: - Maestà, non avevo bisogno di quell’ipotesi
-. Ora, se voi non vi siete posta mai anche l’altra domanda “dio com’è”,
accettando l’esistenza o la non esistenza di un dio e le sue “qualità a
prescindere”, o secondo le tramandate buone tradizioni familiari, ed io invece
me la sono posta a più riprese non addivenendo mai ad un risultato credibile ed
accettabile, una ragione ci sarà pure. Come situarci allora rispetto a quelle
domande della vita? Ha cercato di darne risposta il celeberrimo biologo dell’Università
di Oxford Richard Dawkins nel Suo “L’illusione di Dio”- 2007, Mondadori
Editore, pagg. 400, € 19.00 -, stilando alla pagina 57 del Suo straordinario
lavoro una scala entro la quale, ponendo ai rebbi estremi della Sua “forchetta”
il “100% di probabilità che Dio esista.
Convinto teista. Come ha detto Carl Gustav Jung, - Non credo: so” – ed all’altro estremo la “probabilità pari a zero. Ateo convinto. – Credo che Dio non esista con
la stessa sicurezza con cui Jung sa che esiste” -, possano i più volenterosi
e problematici rinvenire il proprio livello e il proprio stato di “buona
salute” spirituale e mentale. Sembra che abbia risolto il problema anche il
professore Daniele Bolelli, docente di Storia delle religioni, nel Suo “iGod” di
prossima pubblicazione in Italia. Un’anticipazione del Suo lavoro è stata
pubblicata sul settimanale “D” del quotidiano “la Repubblica” col titolo “Potrei credere soltanto in un Dio che
ride: perché le religioni dovrebbero essere divertenti”, che di seguito
trascrivo in parte. “Un Dio che ride”: che non sia questa la soluzione al
problema?
“(…). …il grande oratore
americano dell'800 Robert Ingersoll ha detto una volta: - Quando ero ragazzo,
la domenica era considerata troppo santa per essere felici -. (…). A dire il
vero, la maggior parte delle scritture religiose in tutto il mondo è tutt'altro
che unanime nella condanna esplicita della risata. Ad esempio la Bibbia, con la
sua abituale chiarezza, ci dice che gioia e riso sono buoni, a parte il fatto
che sono cattivi. Siete confusi? Verificate da voi. Nell'Ecclesiaste 8:15 si
legge: - Allora raccomandai la gaiezza, perché per un uomo non c'è nulla di
meglio sotto il sole che mangiare e bere ed essere allegro -. Pronti a stappare
lo champagne e a dare inizio alla festa? Non ancora, perché nel tentativo di
provare che la coerenza logica è sopravvalutata, l'Ecclesiaste 7:3-4 afferma: -
Il dolore è meglio del riso; perché il cuore è reso migliore dalla tristezza
della compostezza. Il cuore del saggio è nella casa del lamento; mentre il
cuore degli stolti è nella casa della gaiezza -. (…). Quando le tue autorità
religiose parlano costantemente di sofferenza, contrizione, vergogna, paura,
peccato e fiamme dell'inferno, è piuttosto dura ridere. Bevendo questi
depressivi teologici giorno dopo giorno, tantissima gente religiosa è arrivata
alla conclusione che il divertimento non può trovare posto nella vita
religiosa. Per loro divertente è il contrario di serio. Non c'è tempo per
giocare, dicono a se stessi: stiamo parlando di Dio, e del paradiso e
dell'inferno, e del significato della vita. Questa è roba seria. (…). La
giocosità è linfa vitale. È quello che fa la differenza. (...). Mentre tante
tradizioni lo disapprovano, alcune religioni - Zen, Taoismo, Tantrismo,
Sufismo, tanto per citarne qualcuna - valutano il riso come il loro
possedimento più prezioso. Gli antichi egizi credevano che, dopo la morte, gli
umani sarebbe stati valutati pesando i loro cuori in relazione a una piuma:
solo se fossero stati più leggeri sarebbero stati considerati degni di
immortalità. (…). Quelle esperienze che consideriamo più sacre rischiano sempre
di dar vita a dogmi. Più qualcosa è per noi importante, più è probabile che
vogliamo preservarlo, proteggerlo e - continuando nell'allitterazione di
terribili P - trasformarlo in un esclusivo playground di preti. Lungo la
strada, molte ideologie politiche e religiose iniziate come fonti vitali e
genuine di stimoli e liberazione hanno perso tutta la loro flessibilità e si
sono trasformate in dogmi cupi e sinistri. La freschezza del loro messaggio si
è prosciugata quando i loro seguaci hanno cominciato a preoccuparsi di
conservare le verità che avevano scoperto. (…). …una seriosità mortale e la
mancanza di humour piantano i semi del fanatismo, e il fanatismo nega lo
spirito che al principio ha prodotto le buone idee. Ecco perché se vogliamo
evitare di cadere in questa trappola non dobbiamo mai trascurare di nutrire il
nostro senso dello humour. Qualunque religione che non rida di se stessa è
spaventosa. È proprio quando una cosa è sacra e importante, che abbiamo bisogno
di riderne. Nietzsche aveva ragione una volta di più quando scriveva ‘non
conosco altra maniera di trattare i grandi valori che non sia il gioco’. Il
riso e la giocosità sono i soli antidoti al dogmatismo pomposo. Mantengono le
cose sciolte e rilassate. Ci impediscono di diventare tronfi e troppo
arroganti. Ogni volta che mi imbatto in gente troppo rigida mi risuona un
campanello d'allarme. Di cosa hanno paura? Hanno davvero così poca fiducia in
se stessi e nel potere dei loro ideali da credere che una buona battuta li
indebolirebbe? La mancanza di self-humour è un segno certo di patologica
insicurezza, proprio come gli atteggiamenti da macho, lo stare sulla difensiva
e l'aggressività. È il risultato di un ego tanto ampio quanto fragile. (…). Ma
la spiritualità vera non ha timore di ridere e di danzare. La spiritualità vera
si diverte nel miracolo dell'esperienza ordinaria. (…). Parlando di Zen, ecco
una tradizione che non si fa problemi a parlare di questioni serie nei modi più
esilaranti. Una delle mie storie Zen preferite lo mette perfettamente in
chiaro. L'eroe è un maestro giapponese del XV secolo, Ikkyu (conosciuto anche
come Nuvola Pazza), una versione buddista di Bugs Bunny, assetato di sake e di
sesso che amava tremendamente buttare all'aria istituzioni e tradizioni. I suoi
confratelli erano terrorizzati dalla sua intelligenza tagliente e dal suo
approccio allo Zen troppo intenso e autentico. Un giorno Ikkyu ebbe un
interessante incontro con un yamabushi - un eremita ascetico che praticava un
mix di Buddismo e Scintoismo - mentre entrambi erano passeggeri di un
traghetto. Sentendosi sicuro di sé, il yamabushi decise di giocare la vecchia
partita la mia religione è meglio della tua e si vantò della sua capacità di
compiere miracoli. Per darne prova cominciò un complicato rituale finché non
evocò l'immagine infuocata di uno dei suoi sulla prua della nave. - Sei capace
di superarmi con il tuo Zen? -, chiese compiaciuto. Rispondendo alla sfida,
Ikkyu prontamente si abbassò i pantaloni e pisciò sulla visione spegnendo il
fuoco. – Guarda -, disse innocentemente, - dal mio corpo è uscito un miracolo -.
(...). Ma ora basta con aneddoti e storie. Il punto è che incoraggiando gioia e
flessibilità mentale, il riso e lo humour sono le armi migliori per prevenire
il raccolto dei frutti del dogma religioso: conflitto, violenza e guerre sante.
(…). Lungi dall'essere una questione secondaria, il riso è ciò che può salvare
una religione dal trasformarsi in una fanatica macchina di violenza e
oppressione.”
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