Da “Il lato
oscuro delle primarie aperte a tutti” di Nadia Urbinati, sul quotidiano la
Repubblica del 14 di gennaio 2015: (…). La candidata Raffaella Paita ha vinto
le primarie liguri anche con il voto di simpatizzanti del centrodestra. Nei
giorni scorsi, elementi di Forza Italia e del Ncd hanno annunciato
pubblicamente il loro appoggio alla candidata che correva contro Sergio
Cofferati. Questo è uno degli effetti deleteri delle primarie aperte: il fatto
che il Pd possa diventare il partito di tutti. Non solo partito nazionale, come
anche desidera il suo segretario, non solo partito che piglia tutto, ma
purtroppo anche un partito che può essere preso da chi vuole. Oltretutto, le
primarie aperte sono aggravate anche dal fatto che non c'è una legge dello
Stato che regoli le primarie e le istituisca per tutti i partiti. Ciò rende la
situazione ancora più paradossale e al limite della legittimità: ci sono alcuni
elettori (nel caso ligure quelli di centro destra) che hanno un potere doppio
rispetto ad altri elettori (quelli del Pd) in quanto possono determinare il
risultato in due schieramenti.
Ma anche se le primarie fossero regolate da una
legge nazionale, il caso di Genova dimostra che quelle aperte possono annullare
il diritto di associazione politica. A provarlo sono gli Stati Uniti, il paese che
il Pd ha preso a modello per le primarie. Le primarie americane hanno una lunga
storia. Vennero istituite nel 1899 con lo scopo benemerito di detronizzare le
clientele e la macchina dei partiti ricorrendo al voto di tutto il popolo per
ridare credibilità alla politica. Le primarie sono state un vero e proprio
processo di sperimentazione, modificate varie volte. Con le riforme del 1968 e
del 1972, il Partito Democratico le adottò anche per selezionare i delegati al
congresso del partito. Nei propositi dei riformatori, le primarie dovevano
essere aperte perché avevano il compito di disincentivare la partigianeria,
accusata di essere dannosa per il bene comune. Ancora oggi nei vari stati sono
in vigore varie forme di primarie, secondo modelli più partigiani (primarie
chiuse) o meno partigiani (primarie aperte). Le primarie aperte hanno fatto
gridare allo scandalo varie volte, per esempio quando si seppe che in quelle
democratiche del Massachusetts, nel 1992, Mitt Romney (rivale di Obama nelle
ultime elezioni) votò per uno dei candidati e si giustificò così: «Quando non
ci sono reali contendenti nel mio partito voto nelle primarie dei democratici
per il candidato che per i repubblicani è l'oppositore più debole». Le primarie
aperte, dunque, non sempre valgono a disincentivare la partigianeria politica,
ma anzi possono diventare un modo subdolo per far vincere i partigiani più
accaniti. Nel 2000 l'ecumenismo delle primarie aperte della California è stato
cassato dalla Corte Suprema degli Stati Uniti con la motivazione secondo cui
esse trasformano i partiti al punto che i cittadini non li riconoscono più.
Sfumare idee, fini e obiettivi per presentarsi a tutti gli elettori
indistintamente significa togliere quei punti di riferimento rispetto ai quali
i cittadini possono scegliere un partito invece di un altro. Secondo i giudici
americani, inoltre, con le consultazioni aperte i votanti perdono anche il
senso della libertà di associazione. Ma oltre a ciò, le primarie aperte possono
diventare, come la sentenza californiana suggerisce, una porta spalancata alla
manipolazione del voto e alla disintegrazione del partito.
Da “Primarie
Pd, sono ammessi pure i condomini della scala accanto” di Alessandro
Robecchi, su “il Fatto Quotidiano” del 21 di gennaio 2015: Buone notizie per il Pd: alle
primarie liguri non hanno votato il Boia di Riga, né Italo Balbo, né il
consigliere militare dell’Imperatore Hiro Hito, quindi l’inquinamento del voto
di destra appare limitato e va tutto benissimo. L’equipaggio di cosmonauti
alieni che ha votato ad Albenga è stato smascherato: erano quattro tizi
dell’Ncd ansiosi di partecipare alla vita interna di un partito diverso dal
loro. Pattuglie di scajoliani ai seggi hanno garantito trasparenza e buon
andamento delle operazioni di voto. Poi Cofferati se n’è andato, chissà perché.
Le cinque paginette della Commissione dei garanti sono illuminanti: da un lato
(i garanti del Pd) si ammettono i brogli e dall’altro (il Pd) si spernacchia
l’imbrogliato. Non fa una piega. Il consiglio di amministrazione della Coca
Cola che corre a votare il presidente della Pepsi non si vedrà mai, e se un
giorno alla Samsung facessero le primarie per eleggere i loro vertici, si può
star certi che ai dirigenti di Apple sarebbe impedito il voto. In America
nessun repubblicano va a votare alle primarie dei democratici. La grande
lezione di democrazia e di società aperta che ci viene dal Pd, dunque, è quella
che i suoi dirigenti, segretari e candidati governatori possano essere scelti
anche dagli avversari politici, speranzosi di qualche accordo o larga intesa. Ma
lasciamo stare per un attimo la certificata truffa ai danni di questo o quel
candidato, e pensiamo per un attimo al trattamento riservato all’elettore del
Pd che va, convinto e determinato, a votare per indicare democraticamente il
suo candidato alle regionali. Come si sentirà? Forse come uno che va
all’assemblea di condominio e scopre che tutti i condomini dei palazzi vicini
potevano votare, e hanno deciso di fargli un garage multipiano in giardino.
Ecco. Qualunque onesto, convinto e responsabile elettore del Pd dovrebbe
sentirsi un po’ offeso. Ciò riguarda, forse e soprattutto, la stessa filosofia
delle primarie, che per anni e anni è stata uno degli argomenti forti del
centrosinistra contro il centrodestra. “Noi facciamo i congressi”, “Noi
facciamo le primarie”, erano mantra ossessivi sì, ma veritieri: da un lato una
destra di proprietà di Berlusconi, e dall’altro una sinistra della base, capace
di scegliersi i capi con libera espressione del voto interno. E da qui, una
specie di “primato”, se non morale almeno politico: una base consapevole
sembrava assai meglio sia delle decisioni prese in villa prima dopo (o durante)
le cene eleganti, sia delle consultazioni online grillesche a cui partecipava
lo zero virgola degli elettori complessivi del movimento. Ora (non solo la
Liguria, ma Roma dopo quel che è emerso dalle inchieste, Napoli nel 2011, il
dibattito serrato se farle o no in Campania) quel “primato” non c’è più, e il
centrosinistra perde un argomento forte, annichilisce una differenza notevole
con i suoi avversari. Il che – essere sempre meno diversi dalla destra – va
d’accordo, e parecchio, con la linea politica dell’attuale vertice del partito:
una larga intesa perenne, ricercata con costanza, non solo sulle questioni di
tattica e strategia politica, di patti segreti, di accordi, ma anche sul piano
ideale e sull’idea di democrazia. Il dibattito su quanti elettori del Pd
andrebbero un domani con Civati, con Cofferati, con Fassina e forse Landini, o
questo o quello, non è troppo appassionante. Ma vedere come quegli elettori
reagiranno a una specie di mutazione genetica del loro partito sì, sarà
istruttivo e interessante.
Da “Pri-ma-rie-pri-ma-rie!”
di Marco Travaglio, su “il Fatto Quotidiano” del 20 di dicembre dell’anno 2014:
(…).
La situazione, (…), è tragica ma non seria: roba da repubblichetta delle banane
o da suk levantino, anche se nessuno osa dirlo. Un intero Paese, con tutti i
suoi problemi, è appeso ai capricci di un anziano e bizzoso signore che l’anno
scorso si fece rieleggere ben sapendo di non poter concludere il mandato e per
giunta a condizione che i partiti facessero in pochi mesi ciò che non avevano
fatto in vent’anni: infatti non han fatto nulla e lui ora vorrebbe che lo
facessero in pochi giorni, per non doversene andare con una dichiarazione di
totale fallimento. La pochade condiziona l’elezione del successore, che lui
vorrebbe uguale a se stesso, e stravolge i criteri che il Parlamento dovrebbe
seguire per scegliere la figura migliore: un uomo di legge, super partes, che
recuperi la funzione costituzionale di supremo garante smarrita da nove anni. L’altroieri
la signorina Boschi farfugliava di un “accordo con Forza Italia su Italicum e
Quirinale”. Bella prospettiva, che ci ripiomberebbe nell’incubo dell’aprile
2013, quando Bersani non trovò di meglio che incontrare furtivamente B. e
Verdini dopo il tramonto, in un ufficetto di Montecitorio, per sottoporre loro
una rosa di nomi impresentabili, da cui i due galantuomini estrassero Marini.
Nella certezza che non sarebbe passato e si sarebbe dunque rieletto, previo
massacro di Prodi, il loro vero candidato: Napolitano. Intanto i 5Stelle
facevano la miglior cosa della loro breve avventura parlamentare:
interpellavano gli iscritti, i quali indicavano personalità di grande spessore
morale e di provata indipendenza come Gabanelli, Strada, Rodotà, Zagrebelsky.
La rinuncia dei primi due portava alla scelta del terzo, che la base del Pd mostrava
di gradire a tal punto che, incaprettato Prodi, decine di sedi venivano
occupate da dirigenti locali ed elettori inneggianti a Ro-do-tà-Ro-do-tà. Se i
vertici li avessero ascoltati, anziché ripiegare sulla riesumazione dell’Ancien
Régime, oggi avremmo un presidente garante per sette anni, forse anche un
governo di vero cambiamento e una legge elettorale decente, senza le vergogne
dell’ultimo anno e mezzo. (…).
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