“Damasco” 2014. Oil, Acrylic on Thermal Paper
applied on Canvas. cm 100x80 di Luca Viapiana.
“Risus abundat in ore stultorum”. Non
so come voi l’abbiate preso quell’antico proverbio latino. Intendo dire, se
esso abbia avuto il potere di segnare, come l’”imprinting” di Lorenz
con le sue oche, il vostro trascorso infantile. Se a voi non ha fatto effetto
alcuno ritenetevi fortunati. Ben diversamente è avvenuto per me. Fu sulle
labbra della mia cara, carissima mamma che comparve prestissimo quel proverbio.
Quando quella, a me tanto cara, ritenne necessario dispiegare la sua azione per
la formazione civile e sociale dei suoi pargoli. A fin di bene, s’intende.
Allora si usava educare la prole sin dalla più tenera età e quella cara non
disdegnava di riprenderci ad ogni pie’ sospinto ogni qualvolta la nostra audacia
infantile rompeva le regole che cercava di insufflarci nella mente. Ed una
delle regole di quella cara faceva riferimento proprio a quel proverbio. Ne
sono rimasto segnato. Il riso e la risata come suo derivato ed il ricorso ad
essi non sono stati da quegli anni gioiosi in poi, per me almeno, il rimedio
che tanto bene apporta al resto della umanità. Poiché il ridere, nelle forme
poi sguaiate dei tempi correnti neanche a parlarne, era un venire contro le
buone maniere e la buona educazione che quella a me tanto cara non risparmiava
di darci. E devo ammettere che quell’”imprinting” è stato così risolutivo
da avere negli anni della adolescenza ed anche dopo non più ricercato quel
mezzo del ridere o della grassa risata per alleviare la pesantezza del vivere.
Segnato. Per sempre. Ricordo ancora distintamente le occasioni di visite fatte
in case altrui prima delle quali, dinnanzi al portone e prima di suonare il
campanello, quel “risus abundat in ore stultorum” ci veniva ricordato sottovoce
e con un’occhiataccia che tutto lasciava intendere. Questo è stato ed è tuttora
il mio rapporto con il ridere e la risata. Poi c’è stata la tragedia di “Charlie
Hebdo” e delle sue risate. Con tutto ciò che ne è seguito e ne seguirà
ancora. A proposito delle quali, le risate intendo dire, mi è stato illuminante
leggere quanto ha scritto Christian Salmon sul quotidiano la Repubblica del 6
di febbraio ultimo – col titolo “Free
speeck” -:
(…). Ai suoi albori, il cristianesimo condannava la risata. E c’era chi
arrivava a sostenere, come San Giovanni Crisostomo (morto nel 407) che
l’ilarità e lo scherzo non venissero da Dio, ma dal diavolo, affermando
addirittura che il Cristo non avesse mai riso! In tempi più vicini a noi, il
giansenismo e l’invettiva di Rancé «Guai a voi che ridete!» portano il segno di
un rigorismo morale non riconducibile all’islam radicale, tutt’altro. Furono
spesso i vertici della Chiesa cattolica – e non l’estremismo religioso – a
lanciare anatemi ogni qual volta un libro, un film o una mostra si avvicinavano
ai territori del sacro. (…). …è la posizione costante della Chiesa cattolica.
Ai tempi del caso Rushdie, monsignor Lustiger, membro dell’Accademia francese,
si spinse assai più in là, arrischiandosi ad affermare che «la figura del
Cristo e quella di Maometto non appartengono all’immaginario degli artisti…».
Monsignor Decourtray, arcivescovo di Lione, stabilì persino un collegamento tra
il caso Rushdie e la campagna scatenata alcuni mesi prima contro il film di
Scorsese L’ultima tentazione di Cristo, quando scrisse: «Ancora una volta si
insultano i credenti nella loro fede. Ieri, in un film che sfigura il volto di
Cristo. Oggi è la volta dei musulmani, in un libro sul profeta». E la stessa
riprovazione fu espressa dal gran rabbino di Israele, dal Vaticano e da
Margaret Thatcher… (…). …nel Medioevo la religione si mostrò di gran lunga più
tollerante verso le parodie e le feste carnevalesche. Fin dall’XI secolo tutti
gli elementi del culto ufficiale sono oggetto di parodie – la parodia sacra in
latino, ma anche in lingua volgare: le preghiere così come i Vangeli, le regole
monacali, i decreti della Chiesa e quelli del Concilio, le bolle e i messaggi
pontifici, i sermoni… Per le cerimonie della Pasqua la tradizione ammetteva le
risate e le facezie licenziose all’interno stesso della Chiesa (il risus
paschalis , associato alla rinascita gioiosa). Esisteva anche l’ilarità del
Natale. (…). A redigere testi e trattati comici non erano solo i chierici, ma
anche gli ecclesiastici d’alto bordo e i dotti teologi. Una delle opere più
antiche di questa letteratura parodistica, La cena di Cipriano, scritta tra il
V e il VII secolo, travestiva le Sacre Scritture in uno spirito carnevalesco,
sbeffeggiando tutta la storia sacra nella descrizione di un eccentrico e
buffonesco banchetto. Ma è durante il Rinascimento che il riso carnevalesco, a
lungo confinato nelle feste popolari, irrompe nella letteratura, dando vita a
capolavori immortali quali il Decameron di Boccaccio, le opere di Rabelais, il
romanzo di Cervantes o le commedie di Shakespeare. «Nella persona di Rabelais –
scrive Bachtin – la parola e la maschera del buffone medievale, le forme
popolari di divertimento carnevalesco, la foga della basoche (corporazione di
chierici e legali, NdT) con le sue idee democratiche, che travestivano e
parodiavano tutti i discorsi e i gesti dei saltimbanchi di fiera, si associano
al sapere degli umanisti, alla scienza e alle pratiche mediche». Bachtin
ricorda che mentre la prudenza indusse Rabelais a ritirare dai suoi due primi
libri, per l’edizione del 1542, tutti gli attacchi contro la Sorbona, «non gli
venne neppure in mente di espurgare gli altri pastiche di testi sacri, visto
che il diritto e la libertà di ridere erano ancora ben vivi». La
compenetrazione tra testi sacri e letteratura profana era tale che la prima
traduzione francese della Bibbia, realizzata da Olivétan, porta il segno della
lingua e dello stile di Rabelais. D’altra parte, non sempre i critici più
severi di Rabelais si reclutavano nella Chiesa. La storia del recepimento della
sua opera in Francia ci riserva qualche sorpresa. Nel 1690 La Bruyère emise un
giudizio senza appello: «Marot e Rabelais sono imperdonabili per aver seminato
immondizia nei loro scritti… Soprattutto Rabelais è incomprensibile: il suo
libro è un mostruoso assemblaggio di morale fine e ingegnosa e di lurida
corruzione». Lo stesso Voltaire, regolarmente evocato contro l’oscurantismo,
rimproverava Rabelais per aver mescolato l’erudizione alla spazzatura e alla
noia. (…). E Cervantes! Soprattutto Cervantes, il primo a mostrare come nel momento
in cui si cancella la linea evanescente che separa la realtà dalla finzione, la
follia e il disordine entrano nel mondo. E difatti, chi è Don Chisciotte, se
non colui che si è smarrito da qualche parte, ai confini tra i libri e la
realtà, fino a non percepire più chiaramente questa linea di separazione? Tanto
che arriverà addirittura a interrompere uno spettacolo di Guignol per passare a
fil di spada le marionette di legno, colpevoli di aver trasgredito ai principi
della cavalleria! Il motto di Cervantes è la formula popolare, pregna di
umorismo e di saggezza, (…): «Non bisogna confondere!». Per la prima volta, un
racconto non pretendeva di fondare una legge né una comunità, ma affermava
un’etica del discernimento. Nel suo libro Lo scherzo, Kundera descrive il
totalitarismo come un mondo che tende a cancellare la linea evanescente tra il
serio e il faceto; un mondo in cui uno scherzo non fa più ridere, ma può
sconvolgere una vita. La burla è un prolungamento della finzione nella vita
quotidiana. Grazie alla parodia, al gioco, alla risata, si possono inventare
altri rapporti all’interno di una relazione umana, invertire i ruoli,
relativizzare il significato che si dà a se stessi. Sappiamo oggi che rendendo
impossibile lo scherzo, il totalitarismo annunciava il nostro ingresso in un
mondo in cui l’illusione romanzesca è divenuta il bersaglio delle coorti
sinistre dell’idea fissa. Questo mondo – il mondo dei media e dei mullah – è
caratterizzato dalla confusione tra realtà e finzione, tra sacro e profano, tra
il gioco e la fede. È un mondo ove l’etica del discernimento non ha più senso.
Ad essere in gioco, (…), è per l’appunto quest’etica. Che non contrappone
credenti e non credenti. Perché l’etica del discernimento si esercita nel seno
stesso delle religioni del libro (Esegesi canonica, Talmud e Tafsir). E neppure
definisce l’Occidente dei Lumi contro un Islam che si pretende oscurantista. La
censura rivolta contro gli artigiani dell’immaginario, siano essi disegnatori,
scrittori, cineasti, pittori o scultori, non punisce un reato d’opinione (per
cui la loro difesa non rientra nella difesa della libertà d’espressione,
brandita come un feticcio) ma contro la fiction in quanto tale, il diritto alla
letteratura, all’umorismo, alla metamorfosi… E proietta su scala mondiale,
attraverso mille distorsioni, confusioni e malintesi, la nuova guerra per il monopolio
della narrazione che ha preso possesso del pianeta. In questa guerra, (…) l’ironia
e la poesia sono ostaggi disarmati che cercano di far sentire la loro voce.
«L’arte degli uomini – scriveva Mandelstam – avanza come una cavalleria
d’insonnie, e là dove si mette a scalpitare non vi può essere che la poesia o
la guerra…». Sin qui la dotta esposizione di Christian Salmon che è
scrittore e ricercatore presso il “Centre de recherches sur les arts et le
langage”. Ha scritto Daniele Luttazzi su “il Fatto Quotidiano” del 16
di gennaio – “Il problema non è la
satira ma chi ancora si offende” -: (…). Che l’irrazionale sia la merce principe
della religione lo conferma Bergoglio. (…). …riflettendo sui tragici fatti di
Parigi (…) ha detto: “Uccidere in nome di Dio è un’aberrazione. Non si può
provocare, non si può insultare la fede degli altri, non si può deridere la
religione.” Applichiamo, con la necessaria cautela, il nostro tutore satirico:
“Uccidere in nome di Dio è la scusa di cui ogni potere, nella Storia
dell’umanità, si è servito per giustificare le sue nefandezze, da prima di
Giordano Bruno a dopo i nazisti. Criticare la fede non è né provocare, né
insultare: è fare appello alla razionalità, così necessaria in codesti tempi
di irrazionalità integralista. (…). È un richiamo forte quest’ultimo alla
supremazia della razionalità che mi sento di fare mio in pieno e di compendiare
ricorrendo al sarcasmo dissacratorio di quell’impareggiabile Woody Allen nei
confronti della sua religione d’origine: "Perché la carne di maiale sia proibita
dalla legge ebraica è tuttora poco chiaro e alcuni studiosi ritengono che la
Torah suggerisca semplicemente di non mangiarla in certi ristoranti”.
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