"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

domenica 22 febbraio 2015

Cosecosì. 92 “Roghi e Charlie Hebdo”.




“Untitled 2” (2010) di Luca Viapiana. Oil, Acrylic on Thermal Paper applied on Canvas. cm 54x120.
Ha scritto dottamente, come sempre, Nadia Urbinati – “La religione incompresa” – sul quotidiano la Repubblica del 18 di febbraio ultimo: (…). …la religione (…) per la sua capacità di muovere la paura e comandare l’obbedienza (…) ad essa si sono rivolti fondatori di Stati e loro consiglieri per indurre uomini e donne a fare cose che mai avrebbero altrimenti avuto il coraggio di fare. Spiega Machiavelli che solo quando i romani furono portati a sentire la paura della punizione divina i loro capi militari riuscirono a imporre il comando supremo nei campi di battaglia, perché la paura di dio superava quella della morte. Del resto, l’uso politico della religione ha un senso solo perché chi la usa e la mobilita ne conosce il potere tremendo e tragico, che sta oltre la vita e la morte. La cultura moderna, la nostra cultura illuministica, è nata e si è radicata per domare e de-potenziare questo potere tremendo. Ci è riuscita permeando la vita civile della cultura dei diritti. Ma la convinzione di averne domato la forza le si è come ritorta contro, rendendola incapace di comprendere appieno le risorse di cui la religione dispone, di leggerla come nient’altro che un segno che sta per qualcos’altro, un fenomeno arcaico e un rifugio per chi non ha, per esempio, risorse culturali ed economiche sufficienti. Opium populi. La religione è un fenomeno radicale che la cultura dei diritti ha modificato ma non cambiato nella natura. Ecco perché essa ha difficoltà ad accomodarsi con la tolleranza, un termine che designa ancora una virtù fredda o una non-virtù proprio perché richiede di accettare l’esistenza di quel che da dentro la propria fede si considera un errore. Come ci ha ricordato Norberto Bobbio in un articolo magistrale, i credenti accettano la tolleranza come una regola di prudenza ma non l’abbracciano come un imperativo o un principio in sé. (…). Essere tolleranti tra eguali costa meno, rende l’autocontrollo meno difficile. E soprattutto, ci fa dimenticare la radicalità del fenomeno religioso. Fa dimenticare che la cultura dei diritti è un bene delicato; che l’abitudine che abbiamo acquisito in questi due secoli di dissentire con ragioni invece che con i pugni non ci ha al fondo cambiati, che la religione non è diventata una filosofia o una visione del mondo come le altre; che, infine, anche il pluralismo, quando riesce a stabilizzarsi, non è proprio lo stesso di quello che si trova nel libero mercato delle idee dove si sceglie tra varie opzioni (…).
Ed è leggendo la Sua prosa dotta che è ritornato alla mia memoria un episodio di qualche anno addietro del quale ho scritto nel post del 14 di settembre dell’anno 2012 nella rubrichetta “Sfogliature”. A quel tempo un burbanzoso signore della più profonda provincia americana, tale M.r Terry Jones, fortunatamente per noi tutti scomparso dalle cronache, occupò per un certo periodo la scena internazionale per i suoi manifestati e proclamati dal pulpito bellicosi propositi di scontro aperto con l’Islam e con la decisione di mandare al rogo il “Libro” di quella religione. Ai più, che ora mi leggono, l’episodio sarà, forse, uno sbiaditissimo ricordo. Ma allora tremarono i polsi a tutte le cancellerie del pianeta Terra. Roghi. In nome della religione. Di qualsivoglia religione. La Storia degli umani ne è piena abbastanza e ne avrà sempre di più. Sul tema ne avevo scritto – “Roghi quattro” - nel lontanissimo 13 di dicembre dell’anno 2009: Ove la storia traligna nell’orrore. Molto spesso, se non spessissimo. E se pur non son roghi di sostanza fiamma ardente che accompagni le anime verso l’alto dei cieli, fiamma alla cui azione  purificatrice le religioni divenute chiese han fatto generoso ricorso nel tempo per la salvezza delle anime dei ritenuti miscredenti, il rogo cui si fa cenno di Robert-François Damiens, che  vide la luce in quel de La Thieuloye – Arras - il 9 di gennaio dell’anno del signore 1715, non è rogo da meno. Rogo no, ma peggio assai del rogo sì. Robert-François Damiens lasciò questa terra per mano della umana giustizia in Parigi il 28 di marzo dell’anno del signore 1757. Soldato, tentò, invano, il regicidio di Luigi XV di Francia, e per quel suo tentativo fallito fu condannato alla particolare e crudele forma d'esecuzione prevista per i regicidi. Essere squartato vivo. Robert-François Damiens aveva avuto umili origini contadine. Arruolatosi molto giovane nell'esercito, dopo esser stato congedato aveva trovato impiego come domestico presso il collegio dei Gesuiti di Parigi. Allontanato da quel collegio per la sua cattiva condotta, ebbe la sventura di essere mandato via da altri impieghi ancora, tanto da meritarsi il soprannome di Robert le diable. Le sue turbe, a detta degli eccellenti studiosi del caso, potrebbero essere state originate dall’insanabile contrasto sorto nel suo animo pio a seguito delle dispute che al tempo videro contrapposti il Parlamento di Parigi ed il vescovo di Roma, l’eminentissimo Clemente XI, contrasto insorto per il rifiuto da parte del clero di amministrare i sacramenti di santa romana chiesa ai giansenisti ed ai convulsionari. Nell’animo pio del giovane Robert-François Damiens si radicò la convinzione, o l’idea, che la morte di uno dei contendenti, nel caso il re di Francia, avrebbe consentito di riportare la pace degli spiriti. Ove si narra il fatto. Il 5 di gennaio dell’anno del signore 1757, mentre Luigi XV rimontava nella propria carrozza, Robert-François Damiens gli si gettò addosso ferendolo appena al fianco destro con la lama del suo coltello. Compiuto l’insano gesto Robert-François Damiens rimase sul luogo del misfatto e, senza fare alcun tentativo di ferire ulteriormente il Re, si lasciò arrestare. Anche i membri della sua famiglia furono arrestati ed imprigionati. Interrogato e torturato allo scopo di fargli confessare l'identità di eventuali complici o mandanti fu condotto innanzi al giudice per il processo che si aprì il 12 di febbraio dell’anno del signore 1757. Giudicato e riconosciuto colpevole per tentato regicidio, il 26 di marzo dell’anno del signore 1757 fu condannato a morte dal Parlamento di Parigi, con sentenza da eseguirsi secondo l'atroce e complesso rituale dello squartamento. Il 28 di marzo dell’anno del signore 1757, alle ore tre pomeridiane Robert-François Damiens fu condotto sulla piazza di Parigi per l'esecuzione della condanna. Robert-François Damiens fu costretto ad impugnare l'arma del tentato delitto ed a prologo del suo martirio subì il supplizio di vedersi bruciare con lo zolfo rovente la mano che aveva colpito il sovrano. Non fu che l'inizio di un orribile rituale condotto dal boia con l’amorevole assistenza di ben altre sedici maestranze, ripugnante rituale al quale assistette anche il veneziano Giacomo Casanova. A Robert-François Damiens, legato ben bene su di una tavola di legno, venne quindi aperto l’addome e sulla piaga venne versata una miscela rovente di piombo fuso, olio, cera e resina di pino. Un intruglio con perfetta combinazione di sostanze. A Robert-François Damiens, che nonostante tutto mantenne una perfetta coscienza, vennero offerti i conforti, si fa per dire, religiosi prima dello squartamento. Le sue gambe e le sue braccia vennero  legate  a quattro cavalli che vennero spronati in quattro direzioni diverse. Gli arti robusti del povero Robert-François Damiens non cedettero alla trazione delle bestie da tiro, e pertanto, con una caritatevole e molto cristiana  decisione, si aiutarono i cavalli nel loro invano sforzo incidendo con dei coltelli le articolazioni del morituro. Solo in tal modo lo squartamento ebbe luogo. Ridotto Robert-François Damiens ad un tronco sanguinante, ustionato e sventrato, ma ancora in vita, i suoi resti, raccolti assieme, vennero gettati su un rogo. Ecco il punto; il rogo ci sta sempre bene. Le povere ceneri di Robert-François Damiens furono disperse al vento a glorificazione del suo re e forse del suo dio. Epilogo della triste storia. Il giorno successivo la casa di Robert-François Damiens fu distrutta e fu emesso allo scopo un decreto che ne vietava la ricostruzione. Del suo parentado, il padre, la moglie e la figlia furono banditi dal regno; al resto della famiglia, fratelli e sorelle, fu imposto il cambio del nome. Ha scritto Franco Cordero sul tema Che cos’è la giustiziasvolto nel corso di una pubblica conferenza in Roma il 28 di ottobre dell’anno del signore 2006: (…). l'Onnipotente crea il mondo in vista dell'inferno nei cui bagliori trova gloria; e alleva una razza d'automi i cui destini aveva stabilito ab aeterno; ogni animale umano nasce carico della colpa ereditaria. Non sono dottrine raccomandabili. Pigliamone una: infinita essendo la maestà divina, i peccatori meritano pene infinite, sebbene siano miserabili esserucoli e nel vortice cosmico le loro historiettes svaniscano; l'idea passa al diritto penale ancien régime. Parigi, lunedì 28 marzo 1757: splende l'età dei lumi; Voltaire conta 63 anni; escono i volumi dell'Encyclopédie; e su Place de Grève dopo le 15, ora canonica delle feste patibolari, ne va in scena una fuori programma da 147 anni (ultimo paziente, Francois Ravaillac), un regicida squartato a trazione equina, previ attanagliamenti, ustioni sulfuree, taglio della mano. Che iperbole chiamarlo regicida: Robert-Francois Damiens, 42 anni, ha lievemente punto Luigi XV, detto l'Amatissimo; non voleva uccidere, né quel coltellino era arma idonea; è un mattoide dal sangue bollente (quando gli sale alla testa, se ne fa cavare). Atto futile se il corpo del re non fosse santo: Sua Maestà impersona Dio in terra; Robert-Francois sputa l'anima dopo due ore d'uno scempio dal quale Casanova distoglie gli occhi inorridito. Nel sonno della «recta ratio» esplodono furie paranoiche. (…).

Nessun commento:

Posta un commento