“Untitled 2” (2010) di Luca Viapiana. Oil, Acrylic on Thermal
Paper applied on Canvas. cm 54x120.
Ha scritto dottamente, come
sempre, Nadia Urbinati – “La religione
incompresa” – sul quotidiano la Repubblica del 18 di febbraio ultimo: (…). …la
religione (…) per la sua capacità di muovere la paura e comandare l’obbedienza
(…) ad essa si sono rivolti fondatori di Stati e loro consiglieri per indurre
uomini e donne a fare cose che mai avrebbero altrimenti avuto il coraggio di
fare. Spiega Machiavelli che solo quando i romani furono portati a sentire la
paura della punizione divina i loro capi militari riuscirono a imporre il
comando supremo nei campi di battaglia, perché la paura di dio superava quella
della morte. Del resto, l’uso politico della religione ha un senso solo perché
chi la usa e la mobilita ne conosce il potere tremendo e tragico, che sta oltre
la vita e la morte. La cultura moderna, la nostra cultura illuministica, è nata
e si è radicata per domare e de-potenziare questo potere tremendo. Ci è riuscita
permeando la vita civile della cultura dei diritti. Ma la convinzione di averne
domato la forza le si è come ritorta contro, rendendola incapace di comprendere
appieno le risorse di cui la religione dispone, di leggerla come nient’altro
che un segno che sta per qualcos’altro, un fenomeno arcaico e un rifugio per
chi non ha, per esempio, risorse culturali ed economiche sufficienti. Opium
populi. La religione è un fenomeno radicale che la cultura dei diritti ha
modificato ma non cambiato nella natura. Ecco perché essa ha difficoltà ad
accomodarsi con la tolleranza, un termine che designa ancora una virtù fredda o
una non-virtù proprio perché richiede di accettare l’esistenza di quel che da
dentro la propria fede si considera un errore. Come ci ha ricordato Norberto
Bobbio in un articolo magistrale, i credenti accettano la tolleranza come una
regola di prudenza ma non l’abbracciano come un imperativo o un principio in
sé. (…). Essere tolleranti tra eguali costa meno, rende l’autocontrollo meno
difficile. E soprattutto, ci fa dimenticare la radicalità del fenomeno
religioso. Fa dimenticare che la cultura dei diritti è un bene delicato; che
l’abitudine che abbiamo acquisito in questi due secoli di dissentire con
ragioni invece che con i pugni non ci ha al fondo cambiati, che la religione
non è diventata una filosofia o una visione del mondo come le altre; che,
infine, anche il pluralismo, quando riesce a stabilizzarsi, non è proprio lo
stesso di quello che si trova nel libero mercato delle idee dove si sceglie tra
varie opzioni (…).
Ed è leggendo la Sua prosa dotta che è ritornato
alla mia memoria un episodio di qualche anno addietro del quale ho scritto nel
post del 14 di settembre dell’anno 2012 nella rubrichetta “Sfogliature”. A quel
tempo un burbanzoso signore della più profonda provincia americana, tale M.r
Terry Jones, fortunatamente per noi tutti scomparso dalle cronache, occupò per
un certo periodo la scena internazionale per i suoi manifestati e proclamati
dal pulpito bellicosi propositi di scontro aperto con l’Islam e con la
decisione di mandare al rogo il “Libro” di quella religione. Ai più, che ora mi
leggono, l’episodio sarà, forse, uno sbiaditissimo ricordo. Ma allora tremarono
i polsi a tutte le cancellerie del pianeta Terra. Roghi. In nome della
religione. Di qualsivoglia religione. La Storia degli umani ne è piena
abbastanza e ne avrà sempre di più. Sul tema ne avevo scritto – “Roghi quattro” - nel lontanissimo 13
di dicembre dell’anno 2009: Ove la storia traligna nell’orrore.
Molto spesso, se non spessissimo. E se pur non son roghi di sostanza fiamma
ardente che accompagni le anime verso l’alto dei cieli, fiamma alla cui
azione purificatrice le religioni
divenute chiese han fatto generoso ricorso nel tempo per la salvezza delle
anime dei ritenuti miscredenti, il rogo cui si fa cenno di Robert-François
Damiens, che vide la luce in quel de La
Thieuloye – Arras - il 9 di gennaio dell’anno del signore 1715, non è rogo da
meno. Rogo no, ma peggio assai del rogo sì. Robert-François Damiens lasciò
questa terra per mano della umana giustizia in Parigi il 28 di marzo dell’anno
del signore 1757. Soldato, tentò, invano, il regicidio di Luigi XV di Francia,
e per quel suo tentativo fallito fu condannato alla particolare e crudele forma
d'esecuzione prevista per i regicidi. Essere squartato vivo. Robert-François
Damiens aveva avuto umili origini contadine. Arruolatosi molto giovane
nell'esercito, dopo esser stato congedato aveva trovato impiego come domestico
presso il collegio dei Gesuiti di Parigi. Allontanato da quel collegio per la
sua cattiva condotta, ebbe la sventura di essere mandato via da altri impieghi
ancora, tanto da meritarsi il soprannome di “Robert le diable”.
Le sue turbe, a detta degli eccellenti studiosi del caso, potrebbero essere
state originate dall’insanabile contrasto sorto nel suo animo pio a seguito delle
dispute che al tempo videro contrapposti il Parlamento di Parigi ed il vescovo
di Roma, l’eminentissimo Clemente XI, contrasto insorto per il rifiuto da parte
del clero di amministrare i sacramenti di santa romana chiesa ai giansenisti ed
ai convulsionari. Nell’animo pio del giovane Robert-François Damiens si radicò
la convinzione, o l’idea, che la morte di uno dei contendenti, nel caso il re
di Francia, avrebbe consentito di riportare la pace degli spiriti. Ove si narra
il fatto. Il 5 di gennaio dell’anno del signore 1757, mentre Luigi XV rimontava
nella propria carrozza, Robert-François Damiens gli si gettò addosso ferendolo
appena al fianco destro con la lama del suo coltello. Compiuto l’insano gesto
Robert-François Damiens rimase sul luogo del misfatto e, senza fare alcun
tentativo di ferire ulteriormente il Re, si lasciò arrestare. Anche i membri
della sua famiglia furono arrestati ed imprigionati. Interrogato e torturato
allo scopo di fargli confessare l'identità di eventuali complici o mandanti fu
condotto innanzi al giudice per il processo che si aprì il 12 di febbraio
dell’anno del signore 1757. Giudicato e riconosciuto colpevole per tentato
regicidio, il 26 di marzo dell’anno del signore 1757 fu condannato a morte dal
Parlamento di Parigi, con sentenza da eseguirsi secondo l'atroce e complesso
rituale dello squartamento. Il 28 di marzo dell’anno del signore 1757, alle ore
tre pomeridiane Robert-François Damiens fu condotto sulla piazza di Parigi per
l'esecuzione della condanna. Robert-François Damiens fu costretto ad impugnare
l'arma del tentato delitto ed a prologo del suo martirio subì il supplizio di
vedersi bruciare con lo zolfo rovente la mano che aveva colpito il sovrano. Non
fu che l'inizio di un orribile rituale condotto dal boia con l’amorevole
assistenza di ben altre sedici maestranze, ripugnante rituale al quale
assistette anche il veneziano Giacomo Casanova. A Robert-François Damiens,
legato ben bene su di una tavola di legno, venne quindi aperto l’addome e sulla
piaga venne versata una miscela rovente di piombo fuso, olio, cera e resina di
pino. Un intruglio con perfetta combinazione di sostanze. A Robert-François
Damiens, che nonostante tutto mantenne una perfetta coscienza, vennero offerti
i conforti, si fa per dire, religiosi prima dello squartamento. Le sue gambe e
le sue braccia vennero legate a quattro cavalli che vennero spronati in
quattro direzioni diverse. Gli arti robusti del povero Robert-François Damiens
non cedettero alla trazione delle bestie da tiro, e pertanto, con una
caritatevole e molto cristiana
decisione, si aiutarono i cavalli nel loro invano sforzo incidendo con
dei coltelli le articolazioni del morituro. Solo in tal modo lo squartamento
ebbe luogo. Ridotto Robert-François Damiens ad un tronco sanguinante, ustionato
e sventrato, ma ancora in vita, i suoi resti, raccolti assieme, vennero gettati
su un rogo. Ecco il punto; il rogo ci sta sempre bene. Le povere ceneri di
Robert-François Damiens furono disperse al vento a glorificazione del suo re e
forse del suo dio. Epilogo della triste storia. Il giorno successivo la casa di
Robert-François Damiens fu distrutta e fu emesso allo scopo un decreto che ne
vietava la ricostruzione. Del suo parentado, il padre, la moglie e la figlia
furono banditi dal regno; al resto della famiglia, fratelli e sorelle, fu
imposto il cambio del nome. Ha scritto Franco Cordero sul tema “Che
cos’è la giustizia” svolto nel
corso di una pubblica conferenza
in Roma il 28 di ottobre
dell’anno del signore 2006: (…). …l'Onnipotente crea il mondo in
vista dell'inferno nei cui bagliori
trova gloria; e alleva una razza d'automi i cui destini aveva stabilito ab aeterno; ogni animale umano
nasce carico della colpa ereditaria. Non sono dottrine raccomandabili. Pigliamone una: infinita essendo la
maestà divina, i peccatori meritano pene infinite, sebbene siano miserabili
esserucoli e nel vortice cosmico le loro historiettes svaniscano; l'idea passa al diritto penale ancien
régime. Parigi, lunedì 28 marzo 1757: splende l'età dei lumi; Voltaire conta 63
anni; escono i volumi dell'Encyclopédie;
e su Place de Grève dopo le 15, ora canonica delle feste patibolari, ne va in
scena una fuori programma da 147 anni (ultimo paziente, Francois Ravaillac), un
regicida squartato a trazione equina, previ attanagliamenti, ustioni sulfuree,
taglio della mano. Che iperbole chiamarlo regicida: Robert-Francois Damiens, 42
anni, ha lievemente punto Luigi XV, detto l'Amatissimo; non voleva uccidere, né quel coltellino era arma idonea; è
un mattoide dal sangue bollente (quando gli sale alla testa, se ne fa cavare).
Atto futile se il corpo del re non fosse santo: Sua Maestà impersona Dio in terra;
Robert-Francois sputa l'anima
dopo due ore d'uno scempio dal quale Casanova distoglie gli occhi inorridito.
Nel sonno della «recta ratio» esplodono furie paranoiche. (…).
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