"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

martedì 30 dicembre 2025

MadeinItaly. 74 Isaia Sales: «La partita in gioco è sempre la stessa: il potere politico prova in tutti i modi a reagire al fatto che si è tutti uguali di fronte alla legge».


(…). Il decreto Sicurezza è quella creazione squisitamente horror criticata da mezzo mondo (Corte di Cassazione in testa) che introduce fra l'altro un nuovo articolo del Codice Penale, il 321- bis, il quale prevede che le forze dell'ordine possano intervenire per sgomberare gli immobili occupati già dopo 10 giorni dall'indicazione del giudice. Nei fatti, è quella pratica efficacemente descritta dai manifesti della Lega apparsi nelle strade di Roma: un nero, una rom e un ragazzo coi capelli lunghi (ah, le vecchie polemiche sui capelloni) che a testa bassa escono da un portone, con uno schieramento di poliziotti davanti. Slogan: "Occupi una casa? Ti buttiamo fuori in 24 ore. Grazie alla Lega". Il manifesto è stato rimosso dal Campidoglio, fra le urla al "bavaglio" dei leghisti. In compenso, la settimana scorsa abbiamo potuto vedere la sua attuazione nel video che mostra lo sfratto di via Michelino a Bologna, dove due famiglie con bambini sono state gettate fuori a manganellate. Anche se pagavano l'affitto, ma quegli appartamenti servivano ad altri. Ad affitti brevi, a quanto pare, anche se la proprietà giura che non è così. Anche noi giuriamo che è difficilissimo trovare una casa in affitto, con la moltiplicazione degli Airbnb e degli alloggi per studenti, a fronte di milioni di case vuote. Ma, si sa, nell'immaginario che si sta costruendo chi è povero e non riesce a comprare una casa è colpevole: e quindi bene le mazzate, bene il settantenne di Verona che si butta dalla finestra con l'ufficiale giudiziario che bussa, e bene pure chi non riesce a far fronte a un carrello della spesa cresciuto del 30 per cento in sei anni. Il bene è ironico, ovviamente: anche se non c'è nulla di ironico nel disprezzo di manovra e di governo, che, per dire, dalla Carta Valore del ministro Giuli esclude dagli studenti che potranno utilizzarla chi non ha il diploma superiore, chi non è riuscito a diplomarsi in cinque anni, chi ha scelto scuole di formazione come parrucchieri, estetiste, meccanici, elettricisti, pasticcieri, panettieri e giardinieri. La cultura è solo per chi ha la possibilità di permettersela, e così la casa. (…). (Tratto da “Mazze, manganelli e chi è povero è sempre colpevole” di Loredana Lipperini, pubblicato sul settimanale “L’Espresso” del 31 di ottobre 2025).

“Impunità dei potenti: una storia italiana”, testo di Isaia Sales – da “Wikipedia”: “…accademico, giornalista e politico italiano, noto soprattutto come professore di Storia delle mafie (all'Università Suor Orsola Benincasa di Napoli) e studioso della criminalità organizzata…” - pubblicato su “il Fatto Quotidiano” di oggi, martedì 30 di dicembre 2025: In tutta la storia italiana, dal 1861 in poi, il potere politico ed economico ha sempre preteso di essere “ingiudicabile”, non perseguibile dal potere giudiziario, men che mai sottomesso alle sue decisioni. Un potente, un ricco, una persona influente non incappava quasi mai nei “rigori” della legge, e quando succedeva ne usciva quasi sempre assolto. Se nel Medioevo per i potenti esisteva “l’immunità”, nell’epoca moderna essa si era trasformata in “impunità”: si poteva sfuggire alla legge non più solo per nascita, ma anche per il ruolo rivestito in politica o alla guida delle istituzioni, per la ricchezza posseduta e per le amicizie importanti. Formalmente si era tutti uguali davanti alla legge, ma non davanti a coloro che erano incaricati di applicarla. Uno dei problemi centrali della vita pubblica dopo l’Unità d’Italia è stato, dunque, quello della giustizia. La continuità rispetto all’epoca preunitaria sembrava dominare nei fatti. I proverbi popolari sono pieni di rabbia o di rassegnazione verso il modo in cui veniva rappresentata e svolta la giustizia in Italia: “Chi comanda fa la legge”; “Fatta la legge trovato l’inganno”; “A rubar poco si va in galera, a rubar tanto si fa carriera”. E il poeta e politico piemontese Angelo Brofferio, amato da Papa Bergoglio, scriveva “Guai a colui che s’incapriccia / a voler giusta la giustizia”. Esistono, infatti, poche altre fragilità storiche che abbiano così profondamente inciso nella formazione del rapporto tra cittadini e Stato italiano quanto la gestione della giustizia. Secondo Piero Bevilacqua è stato il fatto indiscutibile di non aver assicurato la validità assoluta delle regole a compromettere stabilmente la credibilità dello Stato italiano. I casi clamorosi sono tanti. Ad esempio, la sostanziale impunità degli uomini di governo quando prendevano tangenti o quando difendevano i mafiosi, come nel caso dello scandalo delle Ferrovie nel 1862 (che vide coinvolto il ministro Piero Bastogi), in quello del Monopolio dei tabacchi (con una tangente al re Vittorio Emanuele II) e nel caso del più grande imbroglio finanziario di fine Ottocento, quello della Banca Romana: fu accertato che il capo del governo Crispi aveva incassato somme per quasi 2 milioni di euro di oggi, ma non ebbe nessuna condanna. O la totale impunità dei mafiosi: nel distretto giudiziario di Palermo, dal 1861 al 1986, c’erano stati migliaia e migliaia di morti ammazzati, ma erano stati erogati solo dieci ergastoli. La magistratura e gli uomini di governo avevano coperto i mafiosi in tutti i modi. Il nuovo Stato sembrava confermare i comportamenti di quelli precedenti: la giustizia era un semplice prolungamento del potere politico ed economico. Il ruolo di magistrato si trasmetteva di padre in figlio e il ceto sociale da cui si proveniva era quello dei possidenti e delle classi sociali dominanti. Gli incarichi si ricevevano su indicazioni della politica e dei vertici delle istituzioni dello Stato. Il controllo della magistratura da parte del potere politico ha corrisposto alla più elevata impunità dei potenti e alla più estesa diffidenza della popolazione per la giustizia nella storia nazionale. Durante il fascismo la dipendenza dei giudici dal governo e dal partito di Mussolini fu assoluta. L’azione della magistratura era orientata contro gli oppositori del regime, mentre i giornali avevano il compito di negare la presenza di qualsiasi crimine: il duce garantiva tranquillità e sicurezza a tutti! Nel Secondo dopoguerra l’anticomunismo, la strategia di tenere a tutti i costi i comunisti fuori dal governo per imposizione degli Usa, comportò, tra le altre cose, anche un uso della giustizia contro i nemici politici. In Sicilia furono ammazzati dai mafiosi decine e decine di sindacalisti, di rappresentanti dei contadini (socialisti e comunisti) ma nessuno, nessuno fu condannato per quei delitti. Pio La Torre, invece, fu arrestato e tenuto in galera per mesi per aver guidato un’occupazione delle terre: gli fu vietato di assistere alla nascita del suo primo figlio. Poi qualcosa è cambiato. La giustizia è diventata una cosa diversa quando si è cominciata a rompere la contiguità con il potere politico ed economico. E, di conseguenza, si è rotta la diffidenza storica verso le forze di sicurezza e verso i magistrati anche tra gli strati popolari. A cosa è stata dovuta questa radicale inversione di tendenza? Sicuramente è stata la nuova generazione di magistrati formatisi nella temperie della contestazione studentesca del 1968 a cambiare le cose, rompendo la contiguità con le strategie politiche e con la difesa di mentalità e costumi retrivi. La professione di magistrato non è passata più di padre in figlio. E si è introdotta la meritocrazia nei concorsi. Si è formata così una generazione per la quale servire lo Stato non significava più servire solo gli interessi delle classi dirigenti e possidenti.

I cosiddetti “pretori d’assalto” mettono in discussione il principio in base al quale gli imprenditori avevano sempre ragione contro gli operai, prestando una particolare attenzione per gli ambienti pericolosi in cui lavoravano e per i danni prodotti dall’inquinamento industriale. Ha inciso anche la riforma del 1976 del Consiglio superiore della magistratura, cioè l’elezione secondo la proporzionale e non più secondo il sistema maggioritario. Ricorda Giuseppe Di Lello che prima di allora una sola componente (Magistratura Indipendente) con il 40% dei voti aveva assegnati tutti i 20 membri del Csm spettanti ai giudici. Con la riforma, magistrati di diverso orientamento, rispetto a quelli accomodanti con il potere politico, hanno potuto avere rappresentanza e tutela. E poi inciderà moltissimo la fine di un’epoca storica (con la caduta del Muro di Berlino) in cui in nome degli equilibri internazionali tutto si tollerava, a partire dalla corruzione e dal rapporto con le mafie di diversi esponenti di governo. Guardando le date, questa interpretazione è del tutto legittima: è del periodo 1992/1993 l’inchiesta Mani pulite a Milano, e i risultati più significativi contro le mafie si producono con una generazione di magistrati autonomi dal potere politico in Sicilia, in Campania e in Calabria. La magistratura tra tutte le istituzioni dello Stato è quella che in assoluto ha pagato di più nell’assolvere al proprio compito: 27 magistrati sono stati ammazzati dal 1970 in poi, cioè proprio da quando si è introdotto nelle file della magistratura il convincimento che non si fa onore alla propria professione se si garantisce ai potenti di fare quello che vogliono. In conclusione, la partita in gioco è sempre la stessa, anche nel prossimo referendum sulla giustizia: il potere politico prova in tutti i modi a reagire al fatto che si è tutti uguali di fronte alla legge. I magistrati hanno commesso molti errori, non tutti sono stati all’altezza della loro funzione e diversi innocenti sono rimasti in galera, ma un muro è stato abbattuto: negli ultimi 50 anni si è raggiunto il più alto numero (mai registrato nella storia italiana) di parlamentari, ministri, manager di Stato e imprenditori privati, consiglieri regionali finiti sotto inchiesta e condannati, compresi due presidenti del Consiglio dei ministri. È questo il punto che più preme ai governanti e ai potenti di oggi e di ieri: la messa in discussione della loro storica impunità.

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