Amo la Grecia. Punto. Amo la “feta” – nel loro idioma “φέτα” - dei compagni Tsipras e
Varoufakis. Non vi sembri snobismo o irriverenza se pongo la “feta”
ai primissimi posti tra i miei amori, anteponendola alle decine di ben più importanti
altri amori. È che, come saggiamente ha detto qualcuno, al mondo non si possono
amare tutte le cose e tutti gli esseri umani. Bisogna scegliere. E la “feta”
la amo visceralmente. Amo la musica greca, con quel Mikis Teodorakis in
testa. Amo Irene Papas. Amo il sommo poeta greco che ci ha fatto dono delle sue
stupende leggende di dei ed eroi. Amo i matematici greci ed i pensatori greci
che ci hanno consentito, nei secoli, il lungo cammino per abbandonare le
caverne e giungere all’odierna era del computer con il quale vado vergando su
questi miei amori. Amo la civiltà greca tutta che ci ha fatto dono della
conquista più importante per gli esseri umani, ovvero l’imperfetta democrazia.
Amo tutto ciò e non penserò mai di cambiare idea sulla Grecia e sulla sua
straordinaria storia. Poiché alla Grecia tanto dobbiamo, soprattutto in un
momento di gravissime sue difficoltà. Ma si aggira tra di noi uno zuzzurellone
che all’alba della vittoria dei compagni Tsipras e Varoufakis sembrava pronto a
saltare il fossato per passare armi e bagagli dall’altra parte, ovvero dalla
parte dei tiranneggiati dal capitalismo finanziario internazionale. È stata
solo una impressione, ché quando dall’alto è calato il “diktat” europeo lo
zuzzurellone “de’ noantri” ha fatto pronto rientro nei ranghi. Eppure non è da
dimenticare allorquando lo zuzzurellone “de’ noantri” tuonava contro l’Europa
dei burocrati, contro l’Europa dei ragionieri, e maramaldeggiando da par suo
come suol fare “noi non prendiamo ordini dall’Europa”, “noi abbiamo fatto gli esami in
casa”, “i nostri conti sono in ordine”, “noi…noi…noi…”, “blablabla-blablabla-blablabla…”.
Era tutto uno scherzo dello zuzzurellone “de’ noantri”. La memoria cortissima
di quelli del bel paese gli torna comoda. Ché quando il “monsieur” della
Francia accennò un miserrimo strepito contro quelli dell’Europa lo zuzzurellone
“de’ noantri” si illuse d’aver trovato finalmente il compagno d’armi tanto desiderato.
E se la memoria lunga non soccorre, purtroppo, quelli del bel paese una “memoria”
di Federico Fubini - “L’asse fragile con
la Francia” - sul quotidiano la Repubblica di giovedì 2 di ottobre dell’anno
2014 la dice lunga sulle rodomontate dello zuzzurellone “de’ noantri”.
Scriveva
Federico Fubini: (…). Parigi gestisce un esercizio di bilancio anche più fragile di
quello italiano, stando ai dati della Commissione Ue. Prima ancora di pagare
gli interessi su un debito che ormai sfiora il 100% del Pil, il governo
francese è già in rosso di oltre l’1,5% del prodotto lordo. L’Italia invece è
in surplus di bilancio quasi quanto la Germania (almeno per ora), cioè di oltre
il 2% del Pil prima di onorare le cedole sui suoi titoli di Stato e gli altri
strumenti di debito. Se la Francia non ha un deficit ancora più alto, una
dinamica del debito ancora più esplosiva e costi di finanziamento delle imprese
più insostenibili, è per un solo motivo: paga tassi d’interesse più bassi
dell’Italia e allineati a quelli tedeschi. Ancora oggi, dopo anni di
compressione degli spread fra i vari Paesi dell’euro, i titoli a dieci anni
della Francia rendono ben 100 punti-base (cioè l’1%) meno di quelli italiani.
Nella psiche degli investitori, Parigi è ancora assimilata con Berlino come
nucleo base del progetto europeo. In quei prezzi di mercato così simili fra le
due capitali è racchiusa l’identificazione politica fra i due grandi Paesi
dell’area e l’idea che la Germania potrà sì lasciar cadere l’Italia, la Spagna
o la Grecia; ma il suo alleato sull’altra sponda del Reno, questo mai. Viene di
qui la storica riluttanza di tutti i governi di Parigi a effettuare un vero
cambio di alleanze, ammesso che davvero il gioco europeo funzioni così. Se
l’Eliseo cercasse di saldare un presunto «asse» con Palazzo Chigi, in contrasto
con Berlino, gli investitori ne prenderebbero atto e tratterebbero la Francia
di conseguenza: i tassi d’interesse sul debito di Parigi si allontanerebbero da
quelli tedeschi, si avvicinerebbero a quelli italiani, e gli equilibri
dell’economia transalpina salterebbero. (…). È vero che se l’Italia avesse un
costo del debito «francese» — al 2,5% e non al 5% del Pil — il suo deficit
scenderebbe automaticamente a zero come in Germania. Ma questo è solo un
periodo ipotetico dell’irrealtà. I fatti invece dicono che la Francia,
paralizzata dalla crisi di legittimità della sua vecchia élite politica, non
riesce a gestire i suoi conti eppure per ora non ne paga il prezzo: forse
succederà tra tre o quattro anni quando, di questo passo, il debito transalpino
sarà a livelli italiani. Ma se l’Italia seguisse le orme francesi sul deficit
oggi, il suo debito pubblico salirebbe verso livelli greci e tutto il Paese ne
pagherebbe il prezzo subito. Lo farebbe anche se il Fiscal Compact
semplicemente non fosse mai stato scritto. Per questo né Roma né Parigi, con
tutta la simpatia reciproca, hanno voglia di imitarsi a vicenda. (…). …entrambi
stanno toccando con mano lo stesso limite: nella loro situazione di fragilità,
c’è ormai pochissimo che i due governi nazionali possono fare per far ripartire
la domanda nell’immediato. Per l’Italia provare a farlo con il deficit, o
mettendo in tasca ai lavoratori gli accantonamenti pensionistici nelle aziende,
è un gioco ad altissimo rischio e rendimento minimo. La spinta alla domanda
ormai spetta quasi solo a dei progetti europei, alla Bce, all’euro che si
svaluta o a una eventuale svolta della Germania. Renzi e Hollande possono solo
pensare a modernizzare i propri Paesi, a metterli al passo con l’economia
globale del ventunesimo secolo. Ed è qui che avanzano, in questo davvero
insieme, come nella giungla di notte. E di quell’ipotizzato dallo
zuzzurellone “de’ noantri” “asse fragile
con la Francia”, come giustamente titolava l’illustre opinionista, se ne sono persi i contorni, tanto l’allineamento all’Europa dello zuzzurellone “de’
noantri” è stato rapido e completo. Federico Fubini sulla vicenda della mia tanto
amata Grecia è ritornato con un Suo autorevole reportage sul quotidiano la
Repubblica di ieri 6 di febbraio che ha per titolo “Dai conti truccati al cappio della Troika l’odissea della Grecia
vittima di se stessa”, riportato di seguito in parte: (…). Chuck Prince, il leader di
Citigroup, dichiarò nel 2007 che la sua banca doveva ballare fin quando la
musica fosse continuata. Parlava dei ritmi del super-ciclo del debito in
Occidente. E la Grecia al suono di quella musica ha ballato più sfrenatamente
di qualunque altro Paese al mondo. Nel 2009 questa piccola economia dei Balcani
meridionali aveva accumulato uno squilibrio di dimensioni colossali con il
resto del mondo. Secondo Eurostat, quell’anno la Grecia era in rosso per 26
miliardi negli scambi con l’estero di beni, servizi e partite finanziarie:
significa che il Paese — famiglie, imprese e Stato insieme — consumava 113 euro
per ogni 100 euro di reddito. Anno dopo anno, per un decennio, fa una
spaventosa accumulazione di debito pubblico e privato. (…). I greci non lo
avrebbero mai detto, guardando ai libri regolarmente falsificati della finanza
pubblica. Il Paese era entrato nell’euro nel 2001 ma non aveva mai davvero
rispettato il requisito di un deficit pubblico entro il 3% del Pil. Nel 2009
aveva dichiarato un disavanzo al 6%, eppure le successive revisioni lo hanno
fissato al 15,2% del Pil. Com’è stato possibile? Per chi lavorava nell’istituto
statistico di Atene, era considerato anti-patriottico pubblicare dati
veritieri. Per decenni il Paese aveva conosciuto una lunga fuga dalla realtà
fondata su uno scambio: gli elettori ricevevano posti di lavoro pubblici e i
politici ricevevano i voti loro e dei loro familiari. Il resto non contava.
Secondo gli economisti Zafiris Tzannatos e Iannis Monogios, dal 2000 al 2009 la
spesa per gli statali è salita del 6,5% l’anno, quasi raddoppiando in un
decennio, mentre l’evasione erodeva le entrate del 5% l’anno. Gli aumenti degli
statali correvano cinque volte più di quelli del settore privato. Alla fine
dello scorso decennio oltre un milione di persone, quasi un occupato ogni
quattro, era ormai un dipendente pubblico: una densità doppia rispetto
all’Italia. Almeno un addetto su tre era di troppo, almeno un dipartimento su
cinque contava solo il dirigente e nessun impiegato. E il colossale deficit
nascosto non fu l’unica conseguenza: la spesa per istruzione in proporzione al
Pil è stata (e resta) compressa ai livelli più bassi d’Europa e all’interno di
quella voce gli stipendi assorbono la quota più alta d’Europa, quasi tutto:
nessun investimento nel futuro dei giovani e nella qualità della formazione.
Anche per questo la disoccupazione è dilagata quando il Paese ha dovuto
correggere gli squilibri, cancellando centinaia di migliaia di posti fittizi
nell’amministrazione. Solo gli oligarchi e i grandi evasori sono stati
tutelati. Il contratto sociale è andato in pezzi. (…). Nel frattempo, il
settore privato è rimasto il più arretrato d’Europa. L’istituto Ifw di Kiel
stima su dati Eurostat che operino oggi nel manifatturiero in Grecia appena 311
mila addetti: meno che in pesca e agricoltura, settori di solito piccolissimi
in un Paese avanzato. Le principali voci di export industriale ellenico sono a
bassa intensità di valore e di ricerca: prodotti raffinati del petrolio, frutta
e verdura, metalli non ferrosi. È uno dei grandi fallimenti delle politiche
imposte dalla Troika: non ha mai cercato di aiutare i greci a costruire da
quasi zero competenze e un tessuto produttivo adeguati. Così un’economia priva
di competenze, basata sul debito, su rendite di posizione parassitarie e
sull’impiego fittizio si è afflosciata senza reagire, a differenza di come
avvenuto in Spagna, Portogallo o Irlanda. (…). Dove invece i governi europei
hanno aiutato la Grecia, è proprio sul debito pubblico: è stato tagliato due
volte nel 2011, poi nel 2012 le scadenze dei pagamenti agli Stati dell’Unione
sono state rinviate di decenni, con gli ultimi saldi previsti nel 2057. I
governi europei hanno messo a disposizione 194 miliardi, il Fondo monetario
altri 31,8 e la Banca centrale europea è ancora esposta per 25. È il più grande
pacchetto di prestiti della storia, finanziato anche da Paesi molto più poveri
della Grecia come i Baltici o la Slovacchia. Le condizioni sono ormai così
favorevoli che, calcola il centro studi Bruegel, Atene paga in interessi appena
il 2,6% del Pil: quasi la metà dell’Italia, vicino ai livelli di Francia e
Germania. Se ora davvero la Grecia vuole aiutare l’Europa, può farlo smettendo
di presentarsi come una vittima di qualcun altro. E cercando, finalmente, di
aiutare se stessa. Spulciati i conti dell’amata Grecia che dire della
tentennante azione di governo dello zuzzurellone contro la corruzione, la
malversazione, l’evasione fiscale, l’iniqua distribuzione della ricchezza nel
bel paese, la collezione in serie di prebende e scranni alti da parte dei sempiterni
boiardi di Stato? È pur vero che la Grecia è un peso piuma all’interno della
comunità europea in fatto di economia manifatturiera e quindi economia reale,
ma che dire della situazione del bel paese che ha smantellato o ceduto ad altri
il suo “asset” industriale? È su tutto ciò che lo zuzzurellone “de’
noantri” dovrebbe pronunciarsi. Scrive Federico Fubini nel Suo apprezzabilissimo
reportage che nella mia tanto amata Grecia “solo gli oligarchi e i grandi
evasori sono stati tutelati. Il contratto sociale è andato in pezzi”. Cosa
vi fa pensare?
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