Da “Crisi,
la spesa pubblica non produce miracoli” di Fabio Scacciavillani, su “il
Fatto Quotidiano” del 30 di luglio dell’anno 2014: (…). …in Italia l’ingegno
miracolistico in politica economica alimenta una variante dell’avanspettacolo
con malcelate aspirazioni colte. Anzi, dal mito del salario come variabile
indipendente (la versione sindacale della biblica manna dal cielo),
all’evergreen della politica industriale (in virtù della quale statisti del
calibro di Tremonti, Galan, Formigoni, Gasparri, Penati&Bersani, Clini o
Vendola indirizzerebbero le risorse pubbliche e private), oggi le salumerie che
dispensano prosciutto da bulbo oculare, si piccano di impartire approfondimenti
televisivi. In questo campo il San Daniele sagacemente stagionato è
rappresentato dalla mistica della spesa pubblica e il relativo Sacro Graal del
cosiddetto moltiplicatore keynesiano (appellativo atto a evocare i pani e i
pesci evangelici). Basterebbe citare l’incalcolabile numero di crisi economiche
e finanziarie (dall’Argentina alla Grecia, dall’Indonesia all’Ecuador)
provocate dalla spesa pubblica fuori controllo, per capire che l’unico
moltiplicatore è quello delle clientele elettorali e dei debiti che zavorrano
il futuro delle nuove generazioni. Per sincerarsene basta un banale conto della
serva.
Se il moltiplicatore della spesa pubblica fosse quella panacea
tramandata dai rituali sciamani spacciati per modelli macroeconomici,
all’aumentare del deficit pubblico si assisterebbe a una crescita esplosiva del
Pil e di conseguenza al rapido riassorbimento del debito dello Stato. In
particolare, sarebbe quasi impossibile un debito pubblico in costante ascesa in
rapporto al Pil. Immaginate un governo senza debiti, che dal pareggio di
bilancio passasse, da un anno all’altro, a un deficit del 10% del Pil
(finanziato con cambiali chiamate pudicamente titoli di stato). Immaginate che
il moltiplicatore dispiegasse i suoi mirabolanti effetti nel corso di due anni
e i beneficiati dalla munificenza pubblica (destinati allo scavo di buche
inutili) ne spendessero il 70% (risparmiando il resto). Il Pil in due anni
aumenterebbe cumulativamente del 30% (in termini reali). Ipotizzando un interesse
reale del 5% sul debito pubblico e una tassazione media (viva l’ottimismo) del
33% del Pil (Irpef, Iva e gabelle varie) in due anni il debito (compresi gli
interessi) verrebbe azzerato, anzi si produrrebbe un piccolo avanzo di
bilancio. Per inciso, se i beneficiati ne spendessero l’80% il Pil aumenterebbe
del 50% eclissando persino la performance evangelica. Per esempio gli 80 euro
renziani (ancora senza copertura strutturale) secondo questi calcoli dovrebbero
produrre un effetto sul Pil come minimo di 240 euro. Fenomeni di tale portata
non si sono mai riscontrati nella storia dell’umanità. Non si hanno notizie di
debito pubblico velocemente riassorbito grazie allo stimolo messo in moto dalla
spesa pubblica. Né si conoscono casi di debito pubblico che sale e in seguito
scende in modo ordinato, senza misure fiscali correttive. Al contrario, in
Italia, come nel resto del globo, all’aumentare del deficit pubblico, il debito
pubblico rispetto al Pil ricorda Nibali sui Pirenei rispetto al gruppo. (…). La
versione più allucinata del moltiplicatore prevede che il deficit non venga
finanziato con cambiali, ma con la stampa di moneta ad libitum. Qui entriamo
nel tragicomico mondo della Modern Monetary Theory (MMT) che costituisce la
variante estrema delle corbellerie no euro, secondo le quali la svalutazione
permanente sarebbe la chiave di volta di un’economia fiorente. (…). Lo
sviluppo, secondo questo metodo Stamina della politica economica sarebbe
faccenda oltremodo banale. Invece di infrastrutture, fabbriche, servizi legali,
istruzione, trasporti, ricerca, sanità e via dicendo, l’economia si manderebbe
avanti con lenzuolate di carta moneta distribuite come grandine. Ogni deficit
pubblico si ripianerebbe con foglietti colorati e quindi non esisterebbe motivo
alcuno per lavorare, tranne che per gli impiegati della Zecca. Ma per non
oberare questi malcapitati, basterebbe dare a ogni italiano (e anche a ogni
immigrato) una stampante e una congrua dotazione di carta filigranata, in modo
che quando occorrono soldi li si possa produrre comodamente in tinello magari
mentre si guarda beati La Gabbia su La7. Alternativamente il governo potrebbe
distribuire una carta di credito senza limite di spesa e senza obbligo di
rimborso. Se ne occuperebbero in automatico da via XX settembre senza fiatare.
Insomma la MMT è la versione più strampalata del Paese dei Balocchi, che si
incastra con una congerie di teorie complottistiche volte a spiegare come
poteri occulti blocchino questo favoloso portento. Ma se la MMT funzionasse
come mai i governanti di tutto il mondo sarebbero così masochisti da non
adottarla? (…).
Da “Deflazione
per batterla non basta la moneta” di Marcello De Cecco, sul settimanale “Affari&Finanza”
del 13 di ottobre dell’anno 2014: (…). …nel discorso alla Brookings
Institution di Washington il 9 ottobre il presidente Draghi notava che la Bce
si trova in una transizione da un quadro di politica monetaria fondato
prevalentemente sulla fornitura passiva di credito della banca centrale, ad una
gestione più attiva e controllata del proprio bilancio, nel tentativo di
sollevare l’inflazione dal suo basso livello. ’Abbiamo verso il popolo europeo
la responsabilità di assicurare la stabilità dei prezzi, il che oggi significa
sollevare l’inflazione dal suo livello eccessivamente basso. E faremo
esattamente questo’. Draghi interpreta correttamente e certo non
pedissequamente il suo mandato, che è quello di assicurare la stabilità dei
prezzi al 2%. Lo statuto della Bce si fonda sul concetto di simmetria della
politica monetaria nel suo effetto sull’inflazione. Dato che per la Bce
l’inflazione è un fenomeno monetario, se essa è eccessiva alla Bce tocca
adottare una politica monetaria restrittiva, se essa è inferiore al 2% annuo
alla Bce si impone una politica monetaria espansiva. Quest’affermazione di fede
monetarista, quale espressa nello statuto della Bce, ha il problema che la
politica monetaria non è simmetrica nella sua azione deflattiva e in quella
inflattiva. Per fare uscire un’area dalla deflazione non si usa il contrario
della politica monetaria che si adopera per ridurre il tasso di inflazione
perché il fenomeno inflazione è qualitativamente diverso dalla deflazione.
Supponiamo che per ridurre il tasso di inflazione si riduca la quantità di
moneta. Se lo si vuol far salire basta incrementare in quantità equivalente la
massa monetaria? Purtroppo no, perché quando si è determinato uno stato di
deflazione per far sì che l’economia ne esca bisogna convincere imprenditori e
consumatori a investire e consumare di più, mentre quando si vogliono spezzare
le reni all’inflazione basta chiudere il rubinetto del credito e investitori e
consumatori saranno obbligati a ridurre investimenti e consumi. Convincere è
diverso da obbligare. Quando si è spento un incendio versandovi una montagna
d’acqua, se si vuol ridar fuoco a quello che si è spento non basta avvicinare
ai materiali inondati d’acqua una fonte di fuoco. Prima i materiali devono
asciugarsi e poi prenderanno di nuovo fuoco. Per accelerare il processo non si
può moltiplicare la forza della fonte di fuoco. Altrimenti, i materiali
all’inizio non si accendono e poi - ma in economia non lo si sa con la stessa
certezza che danno le analisi fisiche e chimiche - la forza eccessiva della
nuova fiamma determina un nuovo rovinoso incendio e non una utile fonte di
calore. Si aggiunga che i materiali coi quali si ha a che fare non sono sempre
gli stessi, in uno stesso Paese o in Paesi diversi. Confrontando Europa e Stati
Uniti si nota che l’indebitamento privato delle due aree e la sua composizione
strutturale sono assai diversi. Se basta togliere credito ai consumi e ai mutui
negli Usa dove tutti sono ultra indebitati per ottenere una riduzione di
domanda, in un’Europa nella quale Italia, Germania e Francia conoscono un forte
risparmio individuale, occorre una azione monetaria ben diversa per ottenere
una riduzione di domanda equivalente a quella ottenuta diminuendo il credito
negli Stati Uniti. Se è vero che persino nel credito automobilistico le
differenze sono forti tra Europa e Usa perché gli europei comprano le auto in
contanti, per non parlare di case, elettrodomestici, elettronica, è facile
dedurre che l’effetto reflazionistico di una politica monetaria espansiva sarà
più pronto e profondo negli Stati Uniti che in Europa. Si aggiunga che una
cospicua parte della popolazione europea sente l’influenza del suo passato
agricolo (con gli imperativi di risparmio che i contadini hanno avuto per
qualche migliaio di anni) e che la classe dirigente europea incoraggia
quest’atteggiamento perché le banche, che in Europa espletano gran parte
dell’intermediazione, operano raccogliendo risparmi delle famiglie e
prestandoli alle imprese piccole e medie che in Europa prevalgono.
Tradizionalmente in Europa il debito pubblico è stato in buona misura detenuto,
fino a pochi anni fa, dalle famiglie. Non è solo una differenza soggettiva, ma
un’oggettiva necessità delle economie europee, dove buona parte del risparmio
delle famiglie prende la forma dei depositi bancari, a far pendere la bilancia
dalla parte della deflazione. Se si aggiunge che le banche, in vista della
asset quality review, hanno aumentato il capitale di 200 miliardi di euro,
togliendo munizioni a una reflazione creditizia, si conclude che inflazione e
deflazione non sono solo fenomeni asimmetrici, ma hanno caratteristiche diverse
in Europa e Usa. (…). In Europa il risparmiatore è un uomo virtuoso che si
comporta secondo i precetti sia della tradizione romana che di quella cristiana
(ma anche di quella coranica). La formica è la virtù, la cicala è il vizio, in
Europa è diventata da due anni perfino una regola costituzionale. Malgrado il
monetarismo di Chicago, gli Stati Uniti sono invece un paese post-keynesiano
dove le formiche distruggono l’economia e le cicale la salvano. Sarebbe vero
anche in Europa, ma bisognerebbe che le riforme delle quali parla Draghi
portassero a comportamenti bancari di incentivazione del debito, alla riduzione
dei controlli sullo shadow banking, in breve alla liberalizzazione in senso
americano dell’economia europea. Ma è questo che vogliono veramente la signora
Merkel e i suoi caudatari finlandesi o olandesi? Si direbbe il contrario, a
giudicare dalle prediche ai paesi mediterranei. È bene che questi signori si
chiariscano le idee prima di prendersela coi debitori e persino, come ha fatto
il governatore della Bundesbank qualche giorno fa, con lo stesso Draghi.
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