“The familists/I familisti” di LucaViapiana (2013). Oil, Acrylic
on Thermal Paper applied on Canvas. cm 120x80.
Sostiene, alla domanda di Riccardo
Staglianò, il filosofo Diego Fusaro in una interessantissima intervista concessa
e pubblicata sul settimanale “il Venerdì” del quotidiano la Repubblica del 30 di
gennaio ultimo, intervista che ha per titolo “L’Italia triste senza più vere passioni”: Uno degli ultimi focolai di
protesta globale è stato Occupy Wall Street. Era sulla buona strada? «Sì,
perché ha messo a fuoco che il problema non era destra o sinistra, ma il
capitale finanziario. (…). La realtà non è un solido cristallo ma l’esito di
una prassi storica costantemente trasformabile. Insegnava Fortini: tutto è
tremendo, ma non ancora irrimediabile. Ecco, chi dice il contrario fa soltanto
ideologia». Giustappunto. In un lontano post del 20 di ottobre dell’anno
2011 azzardavo un commento a quanto Massimo
Fini andava scrivendo su
“il Fatto Quotidiano” del 15 di ottobre di quell’anno in una Sua analisi che aveva per titolo “Deglobalizzare per sopravvivere”. Scriveva allora l’illustre opinionista:
(…). Marxismo e liberismo, destra e sinistra nelle loro varie
declinazioni sono in realtà due facce della stessa medaglia: la Modernità. Sono
entrambi figli della Rivoluzione industriale, illuministi, ottimisti,
positivisti, economicisti, hanno entrambi il mito del lavoro (per Marx è
l’essenza del valore, per i liberisti è esattamente quel fattore che,
combinandosi col capitale, dà il famoso plus valore) e si sono illusi che
industria e tecnologia avrebbero prodotto una tale cornucopia di beni da
rendere felici tutti gli uomini (Marx) o quantomeno la maggior parte di essi (i
liberisti). Questa utopia bifronte è fallita. Io vedo marxismo e capitalismo
come due arcate di un ponte che si sono sostenute a vicenda per due secoli e
mezzo. Il crollo del marxismo prelude quindi a quello del capitalismo il cui
sgretolamento sta avvenendo sotto i nostri occhi e alla cui fine ci aspetta una
catastrofe planetaria. Ma gli stanchi epigoni del capitalismo e di quel che
resta del marxismo non sono in grado di mettere in discussione radicale la
Modernità, perché categorie di destra e di sinistra della Modernità sono nate,
nella Modernità si sono affermate, e quindi non possono recidere le proprie
radici anche se tutti vedono che sono già marce e che, se non si cambia
rapidamente direzione, l’albero cadrà da solo. Allora provai, in
un virtuale confronto, a replicare all’illustre Autore sostenendo di essere “un estimatore del Fini sottile
pensatore e disquisitore eccelso. Ne leggo sempre con grande interesse i Suoi
sempre pregevoli scritti. Ma non sempre tutte le famose ciambelle vengono col
buco. Dire in questa Sua coraggiosa analisi di vedere “marxismo e capitalismo come due arcate di
un ponte che si sono sostenute a vicenda per due secoli e mezzo” mi pare una evidente esagerazione. Che il nostro lo abbia detto per
scandalizzare e così innescare un infinito inutile parlottare? Lo escludo, ma
mi sono posto anche questo risvolto della faccenda. Ed allora? Come non vedere,
invece, nelle idee dell’Uomo di Treviri il giusto contrappunto, la
contrapposizione di classe, al capitalismo di fine secolo diciottesimo e del
successivo secolo decimonono? La letteratura del tempo ce ne ha dato ampi
assaggi. Come non pensare alle figure di umanità offesa e resa derelitta dallo
sfruttamento più selvaggio del nascente capitalismo industriale che ci ha
tramandato il grande Charles John Huffam Dickens? C’è stata tutta una fioritura
nelle lettere che incontrovertibilmente ci hanno consegnato una “disumanità”
piena di quel capitalismo che non ammette
oggigiorno alcun ripensamento ed alcuna retromarcia. La condanna di quel capitalismo è tutta scritta nella Storia. Così come
mi pare azzardata ed a-storica l’affermazione del nostro secondo la quale il
marxismo avrebbe creato l’illusione che “industria e tecnologia avrebbero
prodotto una tale cornucopia di beni da rendere felici tutti gli uomini (Marx)
o quantomeno la maggior parte di essi (i liberisti)”. La felicità degli esseri umani non la si
realizza e non la si conquista con la produzione e la distribuzione industriale
di manufatti, ma con la piena realizzazione dei valori della persona, quali la
solidarietà, la fratellanza, l’equità. Termini che non sono propri del
capitalismo in quanto tale. Se esiste, ed esiste, un responsabile primo di
quell’illusoria felicità, esso lo si può rintracciare in quel dickensiano
capitalismo industriale prima ancora che nel capitalismo finanziario odierno,
che rappresenta oggigiorno la sua deriva storica e, forse, il suo fallimento
storico. Del resto, al tempo dell’Uomo di Treviri non si poneva alcun problema
ambientale – ma come non ricordare, comunque, l’allarmante storiella della
falena Biston betularia – né tanto meno si erano rivenute quelle idee
che hanno fatto parlare dei cosiddetti “limiti
dello sviluppo”, limiti ben tracciati nel celeberrimo volume di Donella
Meadows “The Limits to Growth” (1972) – che in una traduzione più letterale
sta come i “limiti alla crescita”. La
“crescita”,
per l’appunto. Ché è tutto uno stracciarsi le vesti al solo pensiero che essa, la “crescita”, ritardi ad apparire all’orizzonte di un Occidente opulento, possessore
geloso delle sue ricchezze, dissipatore impenitente e gozzovigliante nello
sfacelo inevitabile dell’ambiente e delle sue risorse. Che dire poi dello “spettro”
individuato nella “modernità”
dal Fini quale causa dei nostri
mali? Non riesco a stargli dietro. Impossibile perorare una anti-modernità che
ricaccerebbe tutti nella “caverna”
della storia senza tempo. Non mi sento di
seguirlo sulla strada di un “depauperamento”
sociale che sarebbe a solo svantaggio dei
più indifesi. Come la Storia insegna da sempre. Come il presente insegna, se
pur ce ne fosse bisogno. Il “capitalismo finanziario” non ha alcuna mira o scopo sociale. E su
questa deriva il capitalismo tout-court gioca le sue ultime carte. Le violenze
dell’oggi sono i sinistri rumori di un malcontento planetario che abbraccia
società avanzate, paesi emergenti ed i “paria” di sempre, il terzo ed il quarto mondo della fame. È quanto
scrivevo in quel lontano 20 di ottobre. A quattro anni di distanza le situazioni
sono sempre di più allarmanti e la divaricazione tra chi ha sempre di più e
coloro che faticano a condurre una vita dignitosa si allarga ferocemente. Oggigiorno
su scala planetaria. Il superamento di quella contrapposizione – “destra/sinistra”
- tanto invisa al Massimo Fini di allora, auspicato soprattutto da chi sperava
di trarne il massimo dei benefici e non intravisto come colpo micidiale alla
propria condizione dai più bisognevoli come prodromo all’esasperazione sociale
dell’oggi, ha dato i suoi frutti amari. È quanto sostiene Diego Fusaro in
questa straordinaria intervista, che riprendo: (…). Perché considera il
platonico mito della caverna ancora così importante? «Perché descrive
perfettamente la condizione umana attuale, di prigionieri che non sanno di
esserlo. Che scambiano le ombre in cui vivono, il sistema capitalista post 1989
spacciato per unico mondo possibile, con la libertà. Diventando così cultori
ignari della propria prigione. La filosofia deve ripartire da qui: contemplare
la verità per liberarci dalle catene. È il cuore del pensiero filosofico, dalla
verità vi farà liberi dei Vangeli all’uscita dallo stato di minorità di Kant». Cita
Bloch quando dice che pensare significa oltrepassare, spostarci mentalmente in
avanti, verso un luogo da cui sia possibile vedere i limiti dell’oggi. A
giudicare dall’immobilismo che ci affligge, abbiamo smesso di farlo? «Preferiamo
calcolare. Il calcolo registra il presente, mentre il sapere filosofico può
mettere in luce le sue contraddizioni, programmando futuri alternativi. La
critica glaciale del presente può farci vedere che al suo interno esistono
mondi migliori e più giusti, sebbene l’ideologia dominante dopo la caduta del
Muro lo neghi». Perché l’89, anche come capacità di immaginare il futuro, è uno
spartiacque? «Perché dopo il crollo (…) una sconfitta specifica viene
trasfigurata nella sconfitta assoluta di cambiare l’ordine esistente. Ogni
tentativo di porre rimedio alle contraddizioni macroscopiche del capitalismo
viene demonizzato come votato allo scacco. L’utopia viene sempre disegnata a
braccetto con la violenza. È falso, ma a forza di ripeterlo diventa il pensiero
dominante». Rispetto alle varie definizioni di società (…) lei propone
l’attributo “livida”. Ce lo spiega? «L’ho preso in prestito dal filosofo Enrico
Donaggio. Gli individui sono profondamente scontenti per la miseria che avanza,
ma sono incapaci di trasformare questo sentimento in una passione politica
grande. L’ira attuale potrebbe giustificare 20 rivoluzioni russe e 15 francesi
eppure resta intrappolata negli individui. Finché c’è rabbia c’è speranza, mi
viene da dire, ma oggi non sappiamo trasformare le passioni tristi di cui siamo
in balia». Oggi la rabbia è polverizzata, magari contro lo straniero. È un
diversivo? «Certo. La strategia del capitale è sempre stata: dividi e comanda.
Invece di lottare insieme contro il capitale i disoccupati finiscono per
lottare tra loro. Senza accorgersi che la vera minaccia non viene dall’altra
sponda del Mediterraneo quanto dall’altra sponda dell’Atlantico, intesa come
ideologia del consumismo totale. Vedo coetanei dei centri sociali che si
picchiano con quelli di Casa Pound mentre la finanza si frega le mani. Come i
capponi di Renzo che si beccavano a vicenda». Parlando di lavoro, perché il
«tempo determinato» è la madre di tutti i mali? «Rappresenta bene lo spirito
del tempo. Le nuove generazioni, senza garanzie e stabilità, sono meglio
asservite. Oranti (la radice di precario è prex, preghiera) che
dipendono dalla volontà di chi dà loro lavoro. Il divieto di licenziamento
senza giusta causa, di cui molto si parla, viene comodamente aggirato
attraverso il non rinnovo. Il vecchio proletariato, che poteva lottare per le
proprie ragioni, si è dissolto nel precariato indifeso». Eppure segnala una
contraddizione: «Nella società più disuguale di sempre, ogni pancia vuota
dovrebbe costituire un argomento, se non a favore del comunismo, comunque
contro il mos oecono- micus egemonico». E invece... «Niente ritorno di fiamma
rossa. Le vittime difendono il sistema perché è crollato il senso di una
possibile alternativa. Il capitalismo è un totalitarismo così seducente da
convincere gli esclusi a lottare per l’inclusione. Gli ultimi farebbero di tutto
per un iPhone». (…). In pratica però non ho capito cosa immagina... «Il
comunismo ha sacrificato l’individuo sull’altare della comunità. Il capitalismo
sacrifica la comunità per l’individualismo selvaggio. Ma l’individuo può pienamente
realizzare se stesso solo tra individui ugualmente liberi, che mantengono la
loro lingua e cultura e non vengono visti come nemici. Questo scenario lo chiamo
comunitarismo cosmopolitico». (…).
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