“Idolo mentale chiuso (uno tra tutti quelli
possibili)” 2011. Oil,
Acrylic on Thermal Paper applied on Canvas cm 120x80” di Luca Viapiana.
A proposito di “Charlie Hebdo”. Che è il tema
ricorrente di questi nostri giorni e che lo sarà ancor di più negli anni a
venire. Non ci si facciano illusioni. Poiché il nodo sta altrove. È che la
storia l’hanno scritta i vincitori. Da sempre. Al popolo, a quelli del “regno
di sotto” non rimane che abbozzare e sottomettersi. Si abbia però il
coraggio di individuare quell”altrove” di cui prima si parlava. È che la
nefasta azione dei mass-media interviene in soccorso del vincitore di turno. E la
nefasta azione si concretizza in quella azione operosa di “distrazione di massa” per
la qual cosa si tacciono e si negano alla pubblica riflessione gli aspetti nascosti
degli accadimenti e dei sommovimenti che si sono da sempre registrati tra gli
umani. Fa scuola nell’occasione l’azione di contrapporre il cosiddetto “sultanato”
a tutti gli altri buoni ed onesti uomini che affollano il pianeta Terra. E quale
strumento migliore se non issare bandiere e labari che si rifacciano ad un
qualsivoglia credo ed a tutto ciò che concorra a definire una religione che sia
contrapposta al resto delle religioni? È la dilagante azione messa in campo per
distrarre da tutti quei problemi che afferiscono a ben altre sfere del vivere
umano, l’economia innanzitutto. Questi nostri tremebondi giorni che vedono il
trionfo del “capitalismo finanziario” a scapito di un capitalismo manifatturiero
socialmente più utile vedono dispiegarsi, per l’ennesima volta nella storia
degli umani, la consueta strategia di “distrazione di massa” tesa a far
volgere l’attenzione verso quell’”altrove” che da sempre rappresenta lo
strumento migliore per accenderne gli animi senza che la ragione abbia a
contenerne l’infausta azione. I problemi sono ben altri. E sopra tutti gli altri
il problema dei problemi, ovvero l’esplodere delle enormi disuguaglianze planetarie
che, mai colmate nei secoli precedenti, trovano nella era della globalizzazione
modo di ampliarsi oltre ogni misura raggiungendo livelli tali di
insopportabilità che necessariamente accendono gli animi degli esclusi. Insisterà
l’azione messa in atto affinché i sommovimenti si facciano ricadere nell’ambito
del solito scontro di civiltà e/o religioso. Tornerà sempre utile farne un
riferimento, ma il punto è ben altro.
Ne ha scritto Caterina Soffici su “il
Fatto Quotidiano” del 20 di gennaio ultimo - “Nel 2016 l’1% sarà più ricco del 99%” -: Poveri sempre più poveri, ricchi
sempre più ricchi. Non è una novità, ma di questo passo l’anno prossimo la
ricchezza in mano all’1% della popolazione mondiale sarà superiore a quella
posseduta dal restante 99%. Lo dice uno studio dell’organizzazione non profit
Oxfam, che lancia il siluro alla vigilia della conferenza di Davos, dove i
ricchi e i manager del mondo si ritroveranno (…). L’indagine dell’Oxfam è
impressionante: dal 2009 al 2014, mentre il mondo intero si impoveriva e
lottava contro la crisi, le ricchezze degli “happy few” sono cresciute ancora,
passando dal 44 al 48% della ricchezza del pianeta. Entro il 2016, se le stime della
charity sono giuste, l’1% dei super ricchi lo diventerà ancora di più e avrà in
mano più del 50% delle risorse mondiali. Ma non finisce qui. Lo studio Oxfam è
la peggiore (o migliore, a secondo dei punti di vista) fotografia delle
distribuzione della ricchezza. Se attualmente i super ricchi posseggono il 48%,
il restante 52 è in mano a un altro ristretto gruppo di ricchi (il 20%). La
piramide della disuguaglianza si fa sempre più appuntita e l’80% delle
popolazione mondiale possiede solo il 5,5% della ricchezza totale. La
direttrice esecutiva dell’Oxfam Winnie Byanyima, uno degli organizzatori
dell’annuale World Economic Forum di Davos, userà il consesso per scuotere le
coscienze del mondo. Dopo i movimenti di Occupy Wall Street e le marce di
protesta del 99% le disuguaglianze sono esplose ulteriormente. Le analisi e le
previsioni di Thomas Piketty, l’autore del controverso libro Il capitale nel
XXI secolo, su cui tanto si è discusso, sembrano più che confermate. E proprio
nel momento in cui Obama lancia la sua campagna per alzare le tasse dei ricchi
e nei paesi europei si continua a chiedere il salario minimo, l’Oxfam racconta
un altro aspetto della vicenda. Se possibile ancora più inquietante. Perché la
ricerca evidenza come la maggiora parte dei soldi dei Paperoni mondiali non
sono guadagnati, ma ereditati. “Vogliamo portare il messaggio dai popoli più
poveri ai leader economici e politici più potenti. Il messaggio è che far
crescere le disuguaglianze è pericoloso. È una cosa pessima per la crescita e pessima
per i governi. C’è una concentrazione della ricchezza che cattura il potere e
lascia la gente comune senza voce, senza possibilità di qualsiasi cura” ha
detto Byanyima in un’intervista al Guardian. “Davvero vogliamo vivere in un
mondo dove l’1% possiede la metà della ricchezza?”. (…). È contro quella
falsa contrapposizione portata scientemente avanti dai media e da gran parte della
politica dagli orizzonti limitati che bisognerebbe iniziare a lottare per
ricondurre l’attenzione verso i reali problemi d’ingiustizia e d’ineguaglianza
che affliggono il pianeta globalizzato da una finanza di rapina. A proposito di
“Charlie Hebdo”. Ne ha avvertito i pericoli di quell’azione di “distrazione di massa” Gustavo
Zagrebelsky che come sempre, dall’alto della Sua cultura e della Sua sensibilità,
nei giorni immediatamente seguenti ai fatti di Parigi pubblicava sul quotidiano
la Repubblica una riflessione – “Le
risposte dell'Occidente oltre lo scontro di civiltà” del 12 di gennaio –
che di seguito propongo alla lettura ed alla riflessione: (…). Nel mondo odierno in cui
tutto circola, non è nemmeno più problema di forme di governo, ma di governo
tout court. Il mondo è una grande scorribanda: poteri economico- finanziari e
tecnologici mossi da inesausta e cieca volontà di potenza; organizzazioni
criminali che controllano interi settori di attività illegali; circolazione
illimitata di armi micidiali che alimenta conflitti. Il mondo è una polveriera
dove civiltà umiliate nei secoli cercano rivalse; dove storiche rivalità
etniche e tribali sono libere di riesplodere; dove fedi politico-religiose che
erano confinate nel premoderno riemergono con la loro carica d'intransigenza e
d'intolleranza. Il mondo, che la globalizzazione ha reso uno, si sta
disgregando in contraddizioni non più tenute sotto il controllo da un qualunque
ordine mondiale, fosse anche l'ordine assicurato dall'«equilibrio del terrore».
Il terrore s'insinua capillarmente e anarchicamente nelle aggregazioni umane
che chiamiamo «nazioni» dove l'insufficienza di politiche e culture
integratrici produce vite infelici, sbagliate e senza radici: facili vittime
del fascino perverso della violenza riscattatrice. Massima estensione uguale
massima debolezza. (…). …l'impresa smisurata rovina su se stessa e coloro che
vi lavorano si disperdono nel marasma. Tutti i regni malati di gigantismo si
sono dissolti: l'impero persiano, macedone, romano, mongolo, ottomano,
giapponese, russo, giapponese, ecc. Questo è accaduto pur quando governi
centrali dispotici esistevano. Immaginiamo quando un governo nemmeno esiste:
qui la debolezza è massima e il disordine e la violenza si diffondono
indifferentemente tra quelli che continuiamo a considerare centri del mondo (New
York, Londra, Madrid, Parigi, ecc.) e periferie (Palestina, Sudan, Nigeria,
Siria, Egitto, Turchia, paesi del sud-Asia, ecc. ecc.). (…). La nascita
spontanea delle istituzioni e dell'ordine sociale è un fenomeno ben noto, con
riguardo soprattutto ai fatti economici, dove dovrebbe valere la razionalità
degli attori. Non sempre, però, le cose funzionano così. Soprattutto non
funzionano quando i soggetti da integrare sono di natura diversa (economica,
culturale, etnica, religiosa), sono troppo numerosi e le motivazioni e gli
impulsi degli uni sono sconosciuti e imprevedibili per gli altri. Il gioco
delle aspettative razionali circa i comportamenti reciproci — gioco da cui
nasce l'ordine spontaneo — è impossibile, tanto più quando si contrappongono
valori sostanziali, come si usa dire, non negoziabili. C'è poco da stupirsi se
la globalizzazione anarchica non ha portato al massimo della razionalità, ma al
massimo dell'irrazionalità. Non ha promosso la pace, ma ha diffuso la violenza.
(…). Le nostre società sono vulnerabili, anche sul piano psicologico. I nervi
sono a fior di pelle. Poiché, però, non possiamo rimettere indietro le lancette
della storia e sognare impossibili, romantici ritorni alle «piccole patrie» o
agli «stati nazionali chiusi» e alle loro sicurezze, dobbiamo rassegnarci ad
affrontare le conseguenze di quello che è il nostro momento storico,
preparandoci. È difficile e doloroso ammetterlo: i morti di Parigi e le
centinaia e migliaia di morti che li accompagnano in ogni parte del mondo non
sono né saranno anomalie. Sono conseguenza del mondo che abbiamo costruito e
che ora si rivolta contro di noi modellando, alquanto spaventosamente, le
nostre vite. (…). Il tema che già si è imposto nei discorsi politici è la
guerra, qualunque cosa questa parola possa significare nella situazione in cui
ci troviamo. Siamo solo all'inizio, perché su questa parola si giocano
interessi politici ed elettorali che fanno leva su istinti e divisioni
primordiali: amico-nemico, scontro di civiltà. Anzi, civiltà contro barbarie. Davvero
siamo come a Poitiers nel 732, a Vienna nel 1529, a Lepanto nel 1571? Basta
porre la domanda per comprendere che parlare di guerra è un puro nonsenso.
Serve solo a mobilitare irrazionalmente l'opinione pubblica interna, per
ragioni di lotta politica, come stanno facendo i partiti e i movimenti
nazionalisti xenofobi che speculano sulla paura e illudono con la promessa che
«la guerra» sia la risposta risolutiva. Questa generica parola d'ordine — a
parte l'orrore della leggerezza con la quale è usata — vale soprattutto come
argomento per vincere le elezioni, contro avversari politici interni, accusati
d'essere pusillanimi, opportunisti, traditori dei valori occidentali, se non
addirittura conniventi con i terroristi. (…). Il primo effetto d'una guerra
dichiarata genericamente contro l'Islam sarebbe di compattare in un unico
fronte nemico gli islamici che vivono nei nostri Paesi e che, bene o male, vi
si sono integrati. Sarebbero questi le prime vittime: atti di violenza nei loro
confronti; e sarebbero nuove reclute: atti di violenza come ritorsione. Odio su
odio. Se ci si vuole imbarbarire e dare argomenti all'islamismo presso persone
che ne sarebbero immuni, questa è la strada sicura. (…). La campagna per la
guerra è una formidabile propaganda per l'arruolamento all'Islam violento, un
regalo ai nostri nemici, il cui obiettivo è il compattamento integralista di
tutto l'Islam. Questo è il momento della ragione, e la ragione dice non guerra,
ma controlli, indagini e azioni di polizia. Tra azioni di guerra e azioni di
polizia c'è la differenza che le prime sono rivolte indifferenziatamente contro
«il nemico » e le seconde, selettivamente, contro i delinquenti, le loro
organizzazioni, i loro addestratori e finanziatori. (…). Dalle cronache
di questi ultimissimi giorni sembra che il terribile tema della “guerra” faccia
la sua tragica strada. Le notizie delle violenze contro i musulmani di questi
giorni e la richiesta del presidente Obama dei poteri di guerra per un buon
triennio non lasciano intravedere la tanto auspicata supremazia della ragione
sulle emozionalità elementari delle masse, emozionalità che tornano utili
affinché l’azione di “distrazione di massa” possa esplicare
i suoi benefici effetti a favore di quell’1% che sta progressivamente
schiavizzando l’intero pianeta.
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