"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

domenica 8 marzo 2020

Cosedaleggere. 30 «La democrazia non è la figlia stupida della matematica».


Tratto da “L’illusione del potere in mano a tutti” di Ezio Mauro, pubblicato sul quotidiano “la Repubblica” del 7 di marzo 2020: (…). La stagione del disincanto ha sostituito la rabbia alla critica, la rottamazione al cambiamento, la ruspa alla politica, lo slogan alle idee, ma la qualità democratica del Paese non è cambiata, l’efficienza del meccanismo di governance nemmeno.
Molti falsi rimedi venduti in campagna elettorale si sono rivelati alla prova dei fatti abbagli, o addirittura inganni. Resta un deposito indistinto di risentimenti che hanno preso il posto del sentimento nazionale, il senso di un infragilimento individuale della cittadinanza, una percezione collettiva di esclusione, dunque un bisogno diffuso di riconoscimento. L’indebolimento di tutto ciò che è pubblico è la cifra dell’epoca e restituisce l’individuo a se stesso, solo, dopo il giro sulla giostra della rabbia inebriante, agonistica e inutile. Il risultato è un impasto di solitudine, privatizzazione, semplificazione, le coordinate del momento. E allora non stupisce che dal fondo del paesaggio emerga l’ultima illusione ottica, quella della grande scorciatoia finale, la democrazia diretta. Semplifica, si esercita nel silenzio singolare dell’individuo che prova a essere cittadino da solo, sperimentando la partecipazione isolata, la vera solitudine dei numeri primi. Ultima fase del populismo dopo l’esaurimento dei fuochi artificiali col botto della contropolitica, verrà proposta come una riappropriazione, anzi una rivincita, addirittura un capovolgimento rivoluzionario dei soggetti che invera la costituzione, consegnando finalmente la sovranità al popolo. Ma è davvero così? (…). Difficile negare che la delega oggi soffre, mentre l’astratto ideale democratico vorrebbe che il popolo scrivesse direttamente le leggi alle quali deve ubbidire. Soprattutto la democrazia “indiretta” appare in ritardo sullo spirito dei tempi, perché prevede un passaggio- filtro che oggi sembra già di per sé la confisca di una quota sovrana, o almeno un depotenziamento di potestà. Aggiungiamo che nell’epoca in cui salta ogni intermediazione – (…) – qualunque passaggio obbligato viene percepito come un ostacolo, o comunque un abuso. L’esperienza dei mediatori non conta più nulla perché è la loro interposizione che in quanto tale diventa una rendita, uno sfruttamento, un tributo illegittimo. Siamo a un passo dal rifiuto non solo della competenza, ma della conoscenza, addirittura della scienza: e purtroppo bisogna aggiungere che quando tutto questo sapere dà l’impressione di essere speso soltanto nel circuito dell’establishment senza toccare la vita dei cittadini, quasi fosse una moneta di riserva o un bitcoin dell’élite, si costruiscono se non le ragioni, le cause perverse di quel rifiuto. E infatti l’incantesimo della fase è l’idea che la democrazia diretta agisca come una restituzione di potere. Eppure, dal rito ateniese dell’“ecclesia”, il modello della democrazia governante è l’adunanza popolare riunita in piazza, con la partecipazione di tutti i cittadini – escluse le donne, gli schiavi e gli stranieri – nel rispetto della libertà di ognuno e dell’uguaglianza di tutti, due principi che ritroviamo non per caso nelle costituzioni occidentali del Novecento. Poi interviene la rappresentanza, che separa i governati dai governanti. Derivata dalla teologia politica (col sommo sacerdote tramite della divinità) e dalla regalità, con la corona simbolo del potere del sovrano sul regno, si distingue dalla delega perché il rappresentante esercita un mandato libero e autonomo, mentre il delegato è vincolato al mandato ricevuto. Il popolo, dunque, è padrone, ma esercita la sovranità attraverso altri soggetti prescelti: anche perché, se bisogna credere a Montesquieu, «il grande vantaggio dei rappresentanti è che sono capaci di discutere gli affari, mentre il popolo non vi è per nulla adatto». La fatica della democrazia, e la sua debole efficacia reale, aprono un varco alla proposta di ridurre la catena della formazione del consenso e il meccanismo delle decisioni. Gli istituti di democrazia diretta sono già tra noi, sperimentati: primo fra tutti il referendum, che su argomenti specifici (ma persino su questioni fondamentali, come la Brexit) sposta la potestà di decidere dalle Camere al popolo. Nel plebiscito, invece, il popolo non decide ma ratifica decisioni già prese dal potere. Più debole ancora è l’imprinting sovrano della petizione, che traduce in democrazia le antiche suppliche al sovrano. Convocate per libera scelta dei partiti, che si auto-impongono un limite di sovranità, irrompono ormai le primarie, per scegliere i candidati alle elezioni, al governo o alla guida delle stesse formazioni politiche. Limitato agli Stati Uniti, infine, c’è il “recall”, l’intervento dei cittadini elettori per rimuovere un eletto dal proprio incarico prima della fine del mandato. A ben vedere, (…), queste forme contemporanee di democrazia diretta prevedono un coinvolgimento occasionale e specifico – non continuo, dunque – dei cittadini nelle decisioni politiche e presuppongono in ogni caso un ambiente parlamentare dentro il quale agiscono: «sono dunque strumenti che operano come correttivi di sistema». D’altra parte bisogna chiedersi, come faceva Rodotà, se va davvero a vantaggio dei cittadini una “democrazia continua”, con le questioni pubbliche sottoposte tutte e costantemente al vaglio dell’intero popolo: che dovrebbe informarsi sui temi in discussione, valutare le qualità sui soggetti da scegliere, formarsi un’opinione sulle varie opzioni possibili e infine esercitare il suo voto con una specie di impegno elettorale a tempo pieno. Quasi un secolo fa ha già risposto Carl Schmitt, sostenendo che se «un giorno per mezzo di ingegnose invenzioni ogni singolo uomo senza lasciare la sua abitazione con un apparecchio potesse esprimere le sue opinioni sulle questioni politiche, ciò non sarebbe affatto una democrazia particolarmente intensa», ma una privatizzazione dello Stato, perché il giudizio così concorde di milioni di individui isolati «non dà come risultato nessuna pubblica opinione, ma solo una somma di opinioni private». La qualità politica non nasce da questa addizione di preferenze personali, ma dalla capacità di estrarre da un problema la soluzione più utile al Paese, e non al singolo votante, cioè nel passaggio dalla convenienza privata all’interesse pubblico, quel momento in cui l’individuo si veste da cittadino e il voto consacra la sua funzione generale: «il risultato della somma degli egoismi è un egoismo di più grande dimensione, non la solidarietà necessaria a dare coesione alla società». La stessa democrazia, in buona sostanza, è discussione prima e più che scelta, è procedura, dibattito per deliberare. Perché come suggerisce Gustavo Zagrebelsky questo procedimento implica ponderazione, valutazione degli interessi legittimi in campo, confronto tra diverse soluzioni, considerazione di possibili compromessi, costruzione del consenso. Eccola, la fatica produttiva del meccanismo democratico. «Quella che pretende di rispondere in tempo reale, non è democrazia, ma è demagogia – avverte Zagrebelsky –, perché distrugge il fattore tempo, che è essenziale, e perché distrugge il contesto collettivo». Si potrebbe dire che il processo democratico, avvitandosi su se stesso, implode. (…). In realtà la democrazia per essere credibile deve costruire legame sociale, altrimenti nega se stessa, dunque non deve basarsi esclusivamente sulla tecnica della velocità e della regola, ma addirittura sull’emancipazione dal bisogno e dall’ignoranza, per avere cittadini davvero liberi e consapevoli. Questo sarebbe il vero passo in avanti, perché anche con il miracolo informatico dell’ubiquità, della contemporaneità e della velocità, l’individuo isolato non può influenzare lo Stato, in quanto «non ha politicamente alcuna esistenza reale», come avvertiva Kelsen. La democrazia è circuito, dinamica, passaggio, crescita e scambio, dunque si realizza se i malesseri e le opportunità individuali si sommano e si trasfigurano in una “causa” generale, con i cittadini che la sostengono modificando la volontà generale, raggruppandosi in partiti e movimenti. La democrazia dunque è uscire di casa, aggiungere l’”io” agli “altri”, costruire un’opinione. È meccanica sociale. Non basta cliccare, nemmeno contare. La pura sommatoria algebrica delle preferenze individuali non getta ponti tra le parti in cui è divisa la società, ma costruisce muri, (…). Non è democrazia ma oclocrazia, cioè potere della folla. E da qui, alla fine, arriva una buona notizia: «La democrazia non è la figlia stupida della matematica». 

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