Ci ha lasciato scritto Albert
Schweitzer (1875-1965): “L’uomo ha perduto la capacità di prevedere e di
prevenire. Andrà a finire che distruggerà la terra”. Ci
ha lasciato scritto José Saramago (1922-2010) in “Quel
vecchio uomo che abbracciava gli alberi”, pubblicato sul quotidiano
“la Repubblica” del 17 di giugno dell’anno 2006:
“Sono nipote di un uomo che, presentendo che la morte lo attendeva all’ospedale dove lo stavano portando, scese nell’orto e andò a dire addio agli alberi che aveva piantato e curato, piangendo e abbracciando ognuno di essi, come se di esseri amati si fosse trattato. Quell’uomo era un semplice pastore, un contadino analfabeta, non un intellettuale, non un artista, non una persona colta e sofisticata che decideva di lasciare questo mondo con un grande gesto che la posterità avrebbe ricordato. Si sarebbe detto che stava salutando ciò che fino a quel momento era stato di sua proprietà, ma di sua proprietà erano anche gli animali che gli davano da vivere e lui non andò da loro per salutarli. Si accomiatò dalla famiglia e dagli alberi come se per lui fosse stato tutto la sua famiglia. Questo episodio è accaduto, è reale, non è frutto della mia immaginazione. In tanti anni, non avevo mai sentito uscire dalla bocca di mio nonno parola alcuna sugli alberi in generale, e su quelli in particolare, che non fosse motivata da ragioni pratiche. Inoltre, non avrei potuto immaginare, nessuno avrebbe potuto immaginarlo, che l’ultima manifestazione cosciente della personalità del vecchio uomo avrebbe toccato la linea del sublime. Eppure accadde. Non saprò mai cosa mosse lo spirito di mio nonno in quell’ora estrema, cosa pensò e provò, quale chiamata urgente guidò i suoi passi insicuri fino agli alberi che lo aspettavano. Forse sapeva che gli alberi non possono muoversi, che sono legati alla terra dalle radici e che da queste non possono separarsi, se non per morire. Nel fondo del suo cuore, forse mio nonno sapeva, di un sapere misterioso, difficile da esprimere con le parole, che la vita della terra e degli alberi è una sola vita. Né possono gli alberi vivere senza la terra, né può la terra vivere senza gli alberi. Qualcuno afferma persino che gli unici abitanti naturali del Pianeta siano essi, gli alberi. Perché? Perché si nutrono direttamente dalla terra, perché l’afferrano con le loro radici e da essa sono afferrati. Terra e albero, ecco la simbiosi perfetta. Può darsi che qualcuno pensi che ci sia troppo lirismo in queste parole. È possibile, perché, così come la terra e gli alberi, il sentimento e la ragione vanno sempre uniti. (…). Difendere gli alberi è difendere la Terra. Mio nonno lo sapeva e non sapeva né leggere né scrivere. Un vecchio analfabeta mi ha dato la migliore delle lezioni. Qui ve la offro, se la riterrete giusta e umana. (…)”. Ha scritto Michele Serra in “Impariamo dalla paura e cambiamo vita”, pubblicato sul quotidiano “la Repubblica” del 14 di marzo 2020: (…). È dentro la vita stessa che si annida, il virus. Il virus è noi, e noi siamo il virus: tutto si tiene, tutto dipende da tutto, ce lo eravamo dimenticati? Sì, ce lo eravamo dimenticati. È dunque alla vita stessa che siamo costretti a pensare, in questi giorni duri e insieme meditabondi, ben distanziati gli uni dagli altri, costretti a redistribuirci nello spazio, dunque a misurarlo meno distrattamente, come l'agrimensore che distribuisce il seme o i bulbi a seconda del terreno disponibile. C'è spazio per tutti, a ben vedere. Non siamo un assembramento. Siamo una miriade di persone. Perfino le megalopoli (miracolo!) non appaiono più come un formicaio brulicante e febbrile, ma come un insieme di unità che mantengono la posizione, l'immensa fanteria planetaria che si affaccia ai balconi e canta, si sporge dalle finestre e saluta. Combatte e - non c'è dubbio - vincerà. Volendo è religioso (lo è tecnicamente) questo risentirsi d'un tratto, quasi a tradimento, parte di un tutto. Ri-legati al mondo, e all'umanità nel suo insieme. Perfino la parola "pandemia" ha qualcosa di religioso: quando il contagio diventa universale non è più al gretto cortile che si pensa. È al mondo. È però una religiosità materiale, direi materialista, una religiosità che non necessita di un Dio Padre che giudica, punisce e folgora. Risiede in ogni cosa vivente, e dunque, in quanto vivente, anche mortale (ce ne eravamo dimenticati? Sì, ce ne eravamo dimenticati). Stiamo vivendo lo sfaldamento dell'antropocentrismo - dell'arroganza antropocentrica - a causa del pipistrello, delle bave e del sangue di miliardi di animali e animaletti, del minuscolo pallino che si moltiplica nel nostro pneuma: siamo natura anche noi, e sì, ce ne eravamo dimenticati. Siamo parte dell'equilibrio e dalla lotta tra le specie, siamo figli della biochimica, indiscutibilmente, oggettivamente, più che di qualunque altro Dio tra i tanti disponibili in catalogo, siamo figli di Gea non per devozione o per moda New Age, ma perché è indiscutibile, è evidente che noi siamo qui, viviamo qui, esposti alle tempeste, ai terremoti, ai vulcani, ai meteoriti, alle epidemie. Anche alle epidemie. E ce ne eravamo dimenticati, sì, ce ne eravamo dimenticati, tanto è vero che nessuno, prima di quindici giorni fa, si ricordava più dell'influenza asiatica che alla metà del secolo scorso, quando gli antibiotici erano già stati inventati, fece circa due milioni di morti nel mondo, e trentamila (trentamila!) solo in Italia. Fu pandemia: una delle tre pandemie del ventesimo secolo. Questa è la seconda del ventunesimo, preceduta, nel 2009, dalla cosiddetta influenza suina: a bassa mortalità. Non è l'ecologista o l'intellettuale o il catastrofista, in questi giorni, è l'uomo della strada (nel mio caso un benzinaio) che ti mostra la foto del cielo sopra la Cina mondata di smog, e ti dice: lei che ha studiato, non crede che fermarci, chissà, può servire a capire qualcosa? Non era mica giusto, sa, vivere come si viveva prima. Poi magari, quando le sirene delle ambulanze torneranno alla loro abituale frequenza, quando sarà di nuovo possibile fare casino tutti assieme, riallacciare i corpi, confondere i respiri, molto di questo forzato riflettere si disperderà, come il virus. E torneremo ingordi e imprevidenti come prima, come sempre. Ma l'augurio che possiamo farci, anzi dobbiamo farci, è che qualcosa rimanga, di questa lunga pausa: a cominciare dall'idea che apparteniamo, nel bene e nel male, alla natura, che siamo natura noi stessi, con le nostre bave, i nostri sputacchi, i nostri bronchi così vulnerabili. Tutto si tiene, ogni cosa è illuminata e ogni cosa, di conseguenza, può spegnersi. E ce ne eravamo dimenticati, eccome se ce ne eravamo dimenticati.
“Sono nipote di un uomo che, presentendo che la morte lo attendeva all’ospedale dove lo stavano portando, scese nell’orto e andò a dire addio agli alberi che aveva piantato e curato, piangendo e abbracciando ognuno di essi, come se di esseri amati si fosse trattato. Quell’uomo era un semplice pastore, un contadino analfabeta, non un intellettuale, non un artista, non una persona colta e sofisticata che decideva di lasciare questo mondo con un grande gesto che la posterità avrebbe ricordato. Si sarebbe detto che stava salutando ciò che fino a quel momento era stato di sua proprietà, ma di sua proprietà erano anche gli animali che gli davano da vivere e lui non andò da loro per salutarli. Si accomiatò dalla famiglia e dagli alberi come se per lui fosse stato tutto la sua famiglia. Questo episodio è accaduto, è reale, non è frutto della mia immaginazione. In tanti anni, non avevo mai sentito uscire dalla bocca di mio nonno parola alcuna sugli alberi in generale, e su quelli in particolare, che non fosse motivata da ragioni pratiche. Inoltre, non avrei potuto immaginare, nessuno avrebbe potuto immaginarlo, che l’ultima manifestazione cosciente della personalità del vecchio uomo avrebbe toccato la linea del sublime. Eppure accadde. Non saprò mai cosa mosse lo spirito di mio nonno in quell’ora estrema, cosa pensò e provò, quale chiamata urgente guidò i suoi passi insicuri fino agli alberi che lo aspettavano. Forse sapeva che gli alberi non possono muoversi, che sono legati alla terra dalle radici e che da queste non possono separarsi, se non per morire. Nel fondo del suo cuore, forse mio nonno sapeva, di un sapere misterioso, difficile da esprimere con le parole, che la vita della terra e degli alberi è una sola vita. Né possono gli alberi vivere senza la terra, né può la terra vivere senza gli alberi. Qualcuno afferma persino che gli unici abitanti naturali del Pianeta siano essi, gli alberi. Perché? Perché si nutrono direttamente dalla terra, perché l’afferrano con le loro radici e da essa sono afferrati. Terra e albero, ecco la simbiosi perfetta. Può darsi che qualcuno pensi che ci sia troppo lirismo in queste parole. È possibile, perché, così come la terra e gli alberi, il sentimento e la ragione vanno sempre uniti. (…). Difendere gli alberi è difendere la Terra. Mio nonno lo sapeva e non sapeva né leggere né scrivere. Un vecchio analfabeta mi ha dato la migliore delle lezioni. Qui ve la offro, se la riterrete giusta e umana. (…)”. Ha scritto Michele Serra in “Impariamo dalla paura e cambiamo vita”, pubblicato sul quotidiano “la Repubblica” del 14 di marzo 2020: (…). È dentro la vita stessa che si annida, il virus. Il virus è noi, e noi siamo il virus: tutto si tiene, tutto dipende da tutto, ce lo eravamo dimenticati? Sì, ce lo eravamo dimenticati. È dunque alla vita stessa che siamo costretti a pensare, in questi giorni duri e insieme meditabondi, ben distanziati gli uni dagli altri, costretti a redistribuirci nello spazio, dunque a misurarlo meno distrattamente, come l'agrimensore che distribuisce il seme o i bulbi a seconda del terreno disponibile. C'è spazio per tutti, a ben vedere. Non siamo un assembramento. Siamo una miriade di persone. Perfino le megalopoli (miracolo!) non appaiono più come un formicaio brulicante e febbrile, ma come un insieme di unità che mantengono la posizione, l'immensa fanteria planetaria che si affaccia ai balconi e canta, si sporge dalle finestre e saluta. Combatte e - non c'è dubbio - vincerà. Volendo è religioso (lo è tecnicamente) questo risentirsi d'un tratto, quasi a tradimento, parte di un tutto. Ri-legati al mondo, e all'umanità nel suo insieme. Perfino la parola "pandemia" ha qualcosa di religioso: quando il contagio diventa universale non è più al gretto cortile che si pensa. È al mondo. È però una religiosità materiale, direi materialista, una religiosità che non necessita di un Dio Padre che giudica, punisce e folgora. Risiede in ogni cosa vivente, e dunque, in quanto vivente, anche mortale (ce ne eravamo dimenticati? Sì, ce ne eravamo dimenticati). Stiamo vivendo lo sfaldamento dell'antropocentrismo - dell'arroganza antropocentrica - a causa del pipistrello, delle bave e del sangue di miliardi di animali e animaletti, del minuscolo pallino che si moltiplica nel nostro pneuma: siamo natura anche noi, e sì, ce ne eravamo dimenticati. Siamo parte dell'equilibrio e dalla lotta tra le specie, siamo figli della biochimica, indiscutibilmente, oggettivamente, più che di qualunque altro Dio tra i tanti disponibili in catalogo, siamo figli di Gea non per devozione o per moda New Age, ma perché è indiscutibile, è evidente che noi siamo qui, viviamo qui, esposti alle tempeste, ai terremoti, ai vulcani, ai meteoriti, alle epidemie. Anche alle epidemie. E ce ne eravamo dimenticati, sì, ce ne eravamo dimenticati, tanto è vero che nessuno, prima di quindici giorni fa, si ricordava più dell'influenza asiatica che alla metà del secolo scorso, quando gli antibiotici erano già stati inventati, fece circa due milioni di morti nel mondo, e trentamila (trentamila!) solo in Italia. Fu pandemia: una delle tre pandemie del ventesimo secolo. Questa è la seconda del ventunesimo, preceduta, nel 2009, dalla cosiddetta influenza suina: a bassa mortalità. Non è l'ecologista o l'intellettuale o il catastrofista, in questi giorni, è l'uomo della strada (nel mio caso un benzinaio) che ti mostra la foto del cielo sopra la Cina mondata di smog, e ti dice: lei che ha studiato, non crede che fermarci, chissà, può servire a capire qualcosa? Non era mica giusto, sa, vivere come si viveva prima. Poi magari, quando le sirene delle ambulanze torneranno alla loro abituale frequenza, quando sarà di nuovo possibile fare casino tutti assieme, riallacciare i corpi, confondere i respiri, molto di questo forzato riflettere si disperderà, come il virus. E torneremo ingordi e imprevidenti come prima, come sempre. Ma l'augurio che possiamo farci, anzi dobbiamo farci, è che qualcosa rimanga, di questa lunga pausa: a cominciare dall'idea che apparteniamo, nel bene e nel male, alla natura, che siamo natura noi stessi, con le nostre bave, i nostri sputacchi, i nostri bronchi così vulnerabili. Tutto si tiene, ogni cosa è illuminata e ogni cosa, di conseguenza, può spegnersi. E ce ne eravamo dimenticati, eccome se ce ne eravamo dimenticati.
Carissimo Aldo, grandioso questo post, il cui significato mi tocca sinceramente nel profondo. La natura è una grande sinfonia strabordante di emozioni sublimi, quasi mistiche. L'amore per la natura non è facile conquista, ma, come per ogni tipo di amore, pretende di essere compreso in tutti i suoi fini, esige disciplina, metodo e soprattutto dedizione. Una volta conquistato, questo tipo di amore ha il suo culmine in un processo di fusione panteistica totale che rende possibile di conoscere il sublime. "Apparteniamo, nel bene e nel male, alla natura, siamo natura noi stessi... E ce ne eravamo dimenticati..." Questa forzata, ma necessaria spinta a riflettere dovrebbe imprimere a tratti indelebili nell'umanità il senso della caducità della concezione antropocentrica e forse questo potrebbe essere il primo passo verso un mondo migliore. L'idea della collocazione dell'uomo al di fuori della Natura è un'assurdità da tutti i punti di vista.La visione ideologica, che ci fa
RispondiEliminacredere superiori a tutti gli altri esseri viventi sul pianeta, è solo delirio di grandezza. Se non usciamo dall'antropocentrismo, così radicato nella cultura occidentale, sarà
l' Ecosistema totale a provvedere a un ridimensionamento della nostra specie. Grazie e buona continuazione. Agnese A.