Tratto
da “Solo lo Stato ci può salvare” di
Riccardo Staglianò, intervista al premio Nobel per l'Economia Joseph Stiglitz
pubblicata sul settimanale “il Venerdì di Repubblica” del 13 di marzo 2020: (…).
Tra le altre pessime cose, il coronavirus può essere letto anche come parabola
avvelenata della globalizzazione? "Senz'altro. Intanto perché i virus,
come il riscaldamento globale, non hanno bisogno di passaporto per fare il giro
del mondo. Sono globali per definizione. (…). …quando la gente ha bisogno di
essere protetta da rischi seri, si rivolge allo Stato, non certo ai
privati".
Per poi scoprire che Donald Trump ha ridotto dell'80
per cento il budget dei Centres for disease control che dovrebbero fronteggiare
l'emergenza... "Esattamente nel capitolo sulla prevenzione di epidemie
globali. Ci voleva della geniale preveggenza per intaccare proprio quella
spesa, e lui l'ha avuta. Aggiungo che questa vicenda fa risaltare anche i
rischi di una presidenza mai così profondamente antiscientifica, basti pensare
alla negazione del climate change. Mentre qui l'unica cosa che ci può salvare è
la scienza e i fondi pubblici di cui ha bisogno".
La Banca centrale americana ha tagliato i tassi, ma
non sembra essere bastato. Quali conseguenze prevede per l'economia mondiale?
"È difficile dirlo. Lo scenario peggiore è quello con il 30-70 per cento
della popolazione contagiata e con un tasso di mortalità dell'1-3 per cento.
Significherebbe, nelle ipotesi migliori, due miliardi e rotti di contagiati e
oltre venti milioni di morti. Ciò che si vede già, invece, è la rottura della
catena dell'offerta di merci e anche di quella della domanda, in un'economia
sempre più interconnessa che non può fare a meno della Cina. Se uno, come fa
Trump, equipara il benessere dell'economia con quello della Borsa, allora si
illude che la politica monetaria possa bastare, ma per la gente normale non è
così. E se uno ha deciso di chiudere la fabbrica perché non ha più fornitori,
non è che cambia idea per i tagli dei tassi".
Siete messi meglio o peggio del resto del mondo quanto
a capacità di reazione? "Purtroppo peggio. Qui milioni di persone non
hanno reti di salvataggio. Se un cameriere è malato e non può restare a casa
perché altrimenti non guadagna, moltiplicherà il contagio. Idem per molte
persone che non faranno i test per paura di doverli pagare o di far aumentare
il premio dell'assicurazione".
Come succedeva da noi con gli immigrati clandestini,
vittime di altre politiche autolesioniste. Ma entriamo nel vivo del libro. Nel
sottotitolo lei parla di capitalismo progressista: è un eufemismo per
socialdemocrazia? "(…). Tutto il lessico che ha a che fare con il
socialismo da noi fa più paura. Ma socialismo significa una cosa precisa,
ovvero proprietà pubblica dei mezzi di produzione e neppure Sanders se l'è mai
lontanamente sognato. Quello che lui, io e la maggior parte dei candidati
democratici intendiamo è offrire gli elementi di base di una vita decente: sanità,
istruzione, casa, pensione".
È anche un libro dichiaratamente più politico del
solito, perché? "Perché l'economia non vive in un vuoto. Una volta i
repubblicani avevano una soluzione per tutto: abbassare le tasse ai ricchi. Ora
ne hanno aggiunta un'altra: abbassare i tassi di interesse (facendo sempre
contenti i ricchi che investono). Sono tutte opzioni politiche, con conseguenze
economiche".
Che mondo è quello in cui il plutocrate Buffett chiede di pagare tasse più alte e nessuno, neppure i democratici, riescono ad accontentarlo? (…). "Dopo una lunga esitazione, ora i democratici concordano che le tasse dovrebbero essere più progressive. D'altronde il sistema attuale è quello per cui spendiamo il 18 per cento del Pil in sanità, ovvero il doppio della Francia, con servizi infinitamente peggiori. Se passassimo a un sistema pubblico risparmieremmo come minimo il 20-30 per cento. Eppure la risposta è: non ce lo possiamo permettere. Vuole un mondo più alla rovescia di così?".
Dagli anni 80 ovunque le tasse hanno cominciato a
sembrare - anche in un Paese come il vostro che aveva un'aliquota marginale
massima del 91 per cento sino al '63 - una specie di kryptonite politica. Come
si cambia quell'attitudine? "Sta già cominciando a cambiare. Gli scandali
tipo Panama Papers hanno mostrato la vastità dei paradisi fiscali, oppure
quello di Apple che in Irlanda pagava lo 0,005 per cento di tasse. Per non dire
dello stato pietoso delle nostre infrastrutture, del sistema di istruzione non
affatto adeguato a un Paese del primo mondo. Alla fine la gente unisce i
puntini e capisce che, forse, se si pagassero più tasse, si potrebbero
aggiustare molte cose".
Un altro problema che affronta è l'enorme
concentrazione dell'economia, addirittura peggiore di quella degli inizi del XX
secolo. Con le cinque principali aziende tecnologiche che da sole costituiscono
circa un quinto del mercato americano. Perché non è un bene? "Perché
troppo potere nelle mani di pochi distorce il mercato, fa aumentare i prezzi,
intralcia l'innovazione e, alla fine, aumenta la disuguaglianza. Se
l'innovazione si limita a creare la maniera più efficace di allocare la
pubblicità online, come fa Google, questo arricchisce poche persone, non la
collettività. Tantomeno se, come nel caso di Facebook, lo stesso talento
addirittura mina la nostra democrazia. Bisogna regolare queste aziende, fino
all'estremo proposto da Elizabeth Warren, ma non solo, di spezzettarle per
ristabilire un terreno di gioco più sano".
Tutto, alla fine, riporta al suo bersaglio grosso: la
disuguaglianza, sempre più acuta anche fuori dagli Stati Uniti. Che fare?
"Bisogna intervenire sulla cosiddetta predistribuzione, ovvero sul modo in
cui si formano i redditi, alzando quelli minimi e ridando potere ai sindacati e
agli organismi antitrust. Poi potenziare la redistribuzione, eliminando la
regressività fiscale e gli sconti fiscali di cui si sono avvantaggiati i
ricchi, fino a pensare a serie patrimoniali sulle grandi fortune. Infine lo
Stato deve garantire gli elementi minimi per la vita decente di cui parlavamo
prima. Per questo dovrà avere un ruolo più importante".
Ma ciò si infrange contro un altro tabù. Ricorda le
nove parole più terrificanti secondo Reagan? "Lavoro per lo Stato e sono
venuto per aiutare". "Era quarant'anni fa e, ormai, non c'è più
dubbio che la trickle down economics, per cui gli sconti fiscali ai ricchi
dovevano provocare un dinamismo che alla fine sarebbe sgocciolato positivamente
sui poveri con la creazione di nuovi lavori, abbia fallito".
Tuttavia la riforma fiscale di Trump del 2017 replica
quello schema. Così come l'idea di una flat tax al 15 per cento che il leader
della Lega Nord ha sbandierato da noi. "Ne ho sentito parlare. È
stupefacente che qualcuno ancora ci creda. La crescita, dopo un piccolo balzo
subito seguito ai tagli reaganiani, si è assestata su circa un terzo in meno
rispetto a quelle che si registravano prima. Né la Banca mondiale né il Fondo
monetario internazionale lo mettono più in dubbio. Basta guardare i
numeri".
A uno sguardo superficiale, però, lei e Trump
condividete almeno un punto: la critica alla globalizzazione, o sbaglio?
"È corretto, ma da prospettive completamente diverse. Lui ritiene che la
globalizzazione sia stata pensata contro l'America, che invece - e ovviamente -
era il suo più potente sponsor. Mentre io sostengo che abbia fatto danni a
molti lavoratori per arricchire pochi imprenditori. Per non dire dei rimedi.
Trump immagina un nuovo protezionismo, come quando mette dazi sui componenti
delle auto che vengono dal Messico. Così facendo, tutela la componentistica
statunitense ma allo stesso tempo fa aumentare il costo finale delle auto,
danneggiando quell'industria. Non si può avere la botte piena e la moglie
ubriaca. Ma il presidente ha una profonda ignoranza dei meccanismi economici".
Eppure lo votano, come del resto Salvini da noi. Evidentemente anche la sinistra deve fare autocritica. Compresa la terza via di Clinton che si innamorò della globalizzazione e deregolamentò la finanza. Lei ne era consigliere economico: ha qualcosa da rimproverarsi? "Sui rischi della globalizzazione io e altri consulenti economici raccomandammo di mettere in piedi da subito dei correttivi per alleviare le sue conseguenze sociali su molti lavoratori. Alla fine il presidente si convinse che, anche senza quei correttivi, i vantaggi sarebbero stati superiori agli svantaggi. L'errore più drammatico riguarda però l'abolizione del Glass- Steagall Act che separava le banche dalle banche d'affari e la deregolamentazione dei derivati che, poi, ci hanno regalato la crisi del 2008. Scelte catastrofiche che portano la firma di Alan Greenspan, Robert Rubin, Larry Summers: io non ero già più della partita. Comunque sì, anche i progressisti hanno responsabilità".
Eppure lo votano, come del resto Salvini da noi. Evidentemente anche la sinistra deve fare autocritica. Compresa la terza via di Clinton che si innamorò della globalizzazione e deregolamentò la finanza. Lei ne era consigliere economico: ha qualcosa da rimproverarsi? "Sui rischi della globalizzazione io e altri consulenti economici raccomandammo di mettere in piedi da subito dei correttivi per alleviare le sue conseguenze sociali su molti lavoratori. Alla fine il presidente si convinse che, anche senza quei correttivi, i vantaggi sarebbero stati superiori agli svantaggi. L'errore più drammatico riguarda però l'abolizione del Glass- Steagall Act che separava le banche dalle banche d'affari e la deregolamentazione dei derivati che, poi, ci hanno regalato la crisi del 2008. Scelte catastrofiche che portano la firma di Alan Greenspan, Robert Rubin, Larry Summers: io non ero già più della partita. Comunque sì, anche i progressisti hanno responsabilità".
L'ultimo cavallo di battaglia è il green new deal, la
transizione ambientalmente sostenibile: è realistica? "Sì, e necessaria. È
stato calcolato che abbiamo già perso il 2 per cento del Pil per eventi estremi
legati al cambiamento climatico. E dobbiamo smettere di pagare miliardi in
sussidi alle energie fossili. Con questi risparmi, e con quello che otterremo
da tasse mirate come la carbon tax contro chi inquina e la Tobin tax sulle
transazioni finanziarie, potremo finanziare la transizione e creare molti nuovi
lavori che bilanceranno quelli che l'automazione rischia di far fuori. Anche
qui, dipenderà tutto dalle scelte politiche".
Per questo serve uno Stato forte? "Sì, perché è
un progetto ambizioso, che prevede tempi più lunghi di quelli concepibili dai
privati. E che parte da una semplice constatazione: un'economia che ha
accumulato oltre un trilione di dollari di debito pubblico, peggiorato proprio
per avvantaggiare i ricchi, con una crescita inferiore al 2 per cento,
nonostante i tassi bassi è il contrario di un'economia in salute".
Sanders lo dice, ma non è il solo. Come lo vede
piazzato? "Le previsioni politiche sono le uniche forse ancora più
difficili di quelle economiche. Lui vincerà in California mentre Biden prenderà
il grosso degli altri Stati. La vittoria che Sanders ha già ottenuto è di aver
spostato a sinistra il Partito democratico. Al suo interno ormai c'è un ampio
consenso, ad esempio, su tasse più progressive. E non è un cambiamento da
poco". (…).
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