Lontanissimi a quel tempo dalla “peste” che ammorba
oggigiorno le nostre vite questo testo - “La
paura di morire in realtà è quella di perdere l'amore” - di Umberto
Galimberti è stato pubblicato sul settimanale “D di Repubblica” del 18 di marzo
dell’anno 2017:
Quello dei nostri cari. Ma anche quello che in vita abbiamo imparato a nutrire per noi stessi. Il significato della morte e l'eventuale angoscia a essa connessa dipendono dalla cultura in cui si è cresciuti. Per gli antichi Greci, che ritenevano che, al pari di tutti i viventi, l'uomo nasce, cresce, si riproduce e poi muore "secondo l'ordine del tempo", come scrive Anassimandro, la morte apparteneva all'ordine della natura che la prevede per ogni nato. Per cui, insegnava la sapienza greca: quando la vita ti è favorevole espandila e vivila in tutta la sua potenza, quando si annuncia il dolore e la malattia reggili ed evita di metterli in scena (substine et abstine). I Greci avevano capito quel che Michel Foucault esplicita: "Non si muore perché ci si ammala, ma ci si ammala perché fondamentalmente dobbiamo morire". Per questo i Greci non drammatizzavano la morte, e quando Paolo di Tarso, giunto ad Atene, annunciò che dopo la resurrezione di Cristo anche noi saremmo risorti, gli Atti degli Apostoli (17, 31-33) riferiscono che: «Alcuni risero, altri dissero: "Questa storia ce la vieni a raccontare un'altra volta"». Ma la storia successiva credette più a Paolo che ai Greci. La cultura greca si estinse unitamente alla sua visione tragica dell'esistenza e l'Occidente fu conquistato dalla cultura cristiana, caratterizzata dalla fede e dalla speranza in una vita ultraterrena. Questo passaggio determinò l'ottimismo dell'Occidente che, a differenza della grecità, guarda al futuro sempre in positivo: come salvezza nel registro religioso, come progresso nel registro laico della scienza e della società. Ma la morte è comunque lì ad attendere sia gli uomini di fede, sia gli uomini senza fede. (…). Perché, sia pure con la speranza di una vita ultraterrena, anche il cristiano, come insegna la sua fede, non può sottrarsi al giudizio di Dio, che non è solo "Misericordia", ma anche, come mi insegnavano da bambino, terrorizzandomi, "Timor di Dio". Se poi, senza ipocrisia, scaviamo un po' nella natura dell'angoscia che accompagna la morte, constatiamo che la natura è stata con gli umani, gli unici viventi che sanno di dover morire, abbastanza benevola, perché tutti noi sappiamo di dover morire, ma la nostra psiche, come insegna Freud, non "sente" la propria morte, non solo quando si è in piena salute, ma anche quando si è in prossimità dell'evento, perché subentrano strane affabulazioni e improbabili immaginazioni di quel che faremo appena guariti, anche nella piena consapevolezza che da quella malattia non guariremo. Può darsi che queste parole i morenti le dicano per confortare gli astanti, i quali non sanno dare un conforto credibile a chi li sta lasciando. In questo gioco di inganni c'è qualcosa di inconfessabile in chi sta morendo. Di cosa davvero il morente si angoscia? Del congedo da quello che ha costruito nella vita, dai cari, ma soprattutto dell'amore che, in vita, ha maturato per sé. Questo è il vero dolore. Perché vivendo ci siamo anche innamorati di noi, e quando moriamo dobbiamo dire addio a questo amore. Lo stesso vale per i sopravvissuti, se hanno amato chi li ha lasciati. Quel che piangono è l'amore che hanno vissuto per chi li ha lasciati, e che ora è senza oggetto, perché non ha più quella persona a cui potersi riferire. Non è il defunto che piangiamo, ma l'amore che abbiamo provato per lui. Un amore che ora resta orfano. È sempre di noi stessi e delle nostre mutilazioni che piangiamo, anche quando a morire sono gli altri.
Quello dei nostri cari. Ma anche quello che in vita abbiamo imparato a nutrire per noi stessi. Il significato della morte e l'eventuale angoscia a essa connessa dipendono dalla cultura in cui si è cresciuti. Per gli antichi Greci, che ritenevano che, al pari di tutti i viventi, l'uomo nasce, cresce, si riproduce e poi muore "secondo l'ordine del tempo", come scrive Anassimandro, la morte apparteneva all'ordine della natura che la prevede per ogni nato. Per cui, insegnava la sapienza greca: quando la vita ti è favorevole espandila e vivila in tutta la sua potenza, quando si annuncia il dolore e la malattia reggili ed evita di metterli in scena (substine et abstine). I Greci avevano capito quel che Michel Foucault esplicita: "Non si muore perché ci si ammala, ma ci si ammala perché fondamentalmente dobbiamo morire". Per questo i Greci non drammatizzavano la morte, e quando Paolo di Tarso, giunto ad Atene, annunciò che dopo la resurrezione di Cristo anche noi saremmo risorti, gli Atti degli Apostoli (17, 31-33) riferiscono che: «Alcuni risero, altri dissero: "Questa storia ce la vieni a raccontare un'altra volta"». Ma la storia successiva credette più a Paolo che ai Greci. La cultura greca si estinse unitamente alla sua visione tragica dell'esistenza e l'Occidente fu conquistato dalla cultura cristiana, caratterizzata dalla fede e dalla speranza in una vita ultraterrena. Questo passaggio determinò l'ottimismo dell'Occidente che, a differenza della grecità, guarda al futuro sempre in positivo: come salvezza nel registro religioso, come progresso nel registro laico della scienza e della società. Ma la morte è comunque lì ad attendere sia gli uomini di fede, sia gli uomini senza fede. (…). Perché, sia pure con la speranza di una vita ultraterrena, anche il cristiano, come insegna la sua fede, non può sottrarsi al giudizio di Dio, che non è solo "Misericordia", ma anche, come mi insegnavano da bambino, terrorizzandomi, "Timor di Dio". Se poi, senza ipocrisia, scaviamo un po' nella natura dell'angoscia che accompagna la morte, constatiamo che la natura è stata con gli umani, gli unici viventi che sanno di dover morire, abbastanza benevola, perché tutti noi sappiamo di dover morire, ma la nostra psiche, come insegna Freud, non "sente" la propria morte, non solo quando si è in piena salute, ma anche quando si è in prossimità dell'evento, perché subentrano strane affabulazioni e improbabili immaginazioni di quel che faremo appena guariti, anche nella piena consapevolezza che da quella malattia non guariremo. Può darsi che queste parole i morenti le dicano per confortare gli astanti, i quali non sanno dare un conforto credibile a chi li sta lasciando. In questo gioco di inganni c'è qualcosa di inconfessabile in chi sta morendo. Di cosa davvero il morente si angoscia? Del congedo da quello che ha costruito nella vita, dai cari, ma soprattutto dell'amore che, in vita, ha maturato per sé. Questo è il vero dolore. Perché vivendo ci siamo anche innamorati di noi, e quando moriamo dobbiamo dire addio a questo amore. Lo stesso vale per i sopravvissuti, se hanno amato chi li ha lasciati. Quel che piangono è l'amore che hanno vissuto per chi li ha lasciati, e che ora è senza oggetto, perché non ha più quella persona a cui potersi riferire. Non è il defunto che piangiamo, ma l'amore che abbiamo provato per lui. Un amore che ora resta orfano. È sempre di noi stessi e delle nostre mutilazioni che piangiamo, anche quando a morire sono gli altri.
Carissimo Aldo, di fronte all'enigma della morte,l'uomo si trova al confine fra l'abisso del nulla e l'eternità dell'essere, che si fonda sull'amore che non ha mai fine. La nostra fragile umanità vive uno spaesamento tragico, se non vuole riconoscere l'eternità dell'amore... Ma l'uomo che riflette riconosce nella propria interiorità la traccia eterna dell'amore. Quell'amore che eternizza la vita, facendoci sperimentare l'eternità indissolubile dei nostri legami con le persone care. L'uomo deve imparare a vincere la lacerante contraddizione della propria esistenza, segnata dalla morte, aprendosi all'intramontabile orizzonte della bellezza interiore, nella quale l'amore ha la sua eterna dimora. Nell' interiorità abbiamo la possibilità di coltivare l'amore, sperimentando l' indissolubilità di questo legame che viene conservato, assumendo i contorni dell'eternità. Ma, per conseguire una simile, profonda consapevolezza, è richiesto necessariamente un paziente esercizio interiore quotidiano. Grazie per la condivisione e buona continuazione. Agnese A.
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