Ha
lasciato scritto a noi che gli siamo sopravvissuti e che sopravviveremo anche
al “coronavirus”
Andrea Camilleri (riportato alla pagina 83 del volume “Segnali di fumo”, UTET 2019): “Compio ottantotto anni. Francamente, per il
mondo di oggi, sono troppi. Proprio ieri, un cinquantenne in moto, sfiorando il
mio incerto passo, mi ha gridato: «Che cazzo campi ancora a fa’?». Il problema
è proprio questo: alla mia età che cazzo si campa ancora a fa’?”. Titola
Alessandro Robecchi – o chi per Lui - il Suo “pezzo” pubblicato su “il Fatto
Quotidiano” del 4 di marzo: «È la legge
dei mercati: quanti “nonni” siamo disposti a sacrificare?». Puro cinismo? In
quel titolo per sollevare una questione nuova?
In quel luogo del quale ho parlato giorni addietro (nel post del 26 di febbraio), luogo primigenio nel quale si formano e si confermano le pubbliche opinioni, ovvero il negozio del nostro verdumaio, passata la paura del contagio con il “coronavirus” ne è sopravvenuta una nuova che è la paura della catastrofe economica e finanziaria, con un addentellato che ha dello inimmaginabile e che Robecchi ben sintetizza nel titolo del Suo “pezzo”. Quanti nonni da sacrificare sull’altare dei “mercati”? Ove il sostrato della umanità rivela un lato ancora oscuro, poco esplorato, turbolento assai, ma che non tarderà ad esprimersi in tutta la sua inequivocabile essenza - questa sì virulenta di dis-umanità, non nuova almeno secondo Andrea Camilleri - per come scrive l’Autore, ovvero con quel “cinismo del profitto (che) si accoppia tristemente a un cinismo di necessità”. Nei giorni passati ne aveva scritto il già priore Enzo Bianchi sul quotidiano “la Repubblica” del 2 di marzo col titolo “Sommesso elogio della vecchiaia”: In questi giorni del propagarsi del coronavirus non è consolante per gli anziani ascoltare i martellanti bollettini che insistono sul fatto che i morti erano, per l'appunto, vecchi, per di più segnati da alcune patologie. Gli anziani reagiscono a questi annunci con fastidio, più che con paura, perché si sentono interpellati ancora una volta per ragioni mediche, demografiche ed economiche. Non ci si rivolge invece ad essi come a uomini e donne tuttora presenti tra di noi, che vorrebbero aggiungere vita ai loro giorni sempre più precari. L'esistenza umana è sempre stata scandita in alcune precise stagioni, le cosiddette tappe della vita: infanzia, giovinezza, maturità e vecchiaia. Ebbene, oggi nel nostro Occidente la vecchiaia non è solo un dato biologico ma è una stagione resa più pesante da ragioni culturali. I vecchi sono improduttivi e, di conseguenza, sono percepiti come persone dalla scarsa rilevanza sociale. Il più delle volte sono ritenuti insignificanti, privati anche della parola, perché da loro non si vuole ascoltare più nulla. Nel peggiore dei casi, sono addirittura abbandonati. Dobbiamo forse affermare che si invecchia solo per morire? Al contrario, non è forse la vecchiaia anche il tempo necessario per compiere la vita, per comprenderla e leggerla nel suo dipanarsi come un tappeto, dunque per scoprire e conoscere meglio se stessi? Non è la vecchiaia il tempo per mostrare, attraverso le rughe del volto, un'anamnesi di ciò che abbiamo vissuto? Con grande intelligenza e ottimo senso dell'umorismo James Hillman affermava che "la chirurgia estetica è un crimine contro l'umanità", perché vuole cancellare le tracce dell'umanizzazione, la memoria della fatica, del dolore, della gioia e dell'amore che si sono vissuti nel volgere dei giorni e delle stagioni. Proprio la vecchiaia può essere la stagione più propizia all'amore, non più nel senso di un eros travolgente, ma in quello di un amore che va in profondità e insegna ad affrontare con consapevolezza la lotta contro la morte. Lotta che racchiude in sé una serie di battaglie da affrontare nell'ultima stagione della vita: contro il cinismo, contro la rinuncia alla passione e allo stupore... E ancora, la battaglia per evitare lo spegnersi della gratuità, del "disinteresse", del primato del vivere e dell'essere sull'avere e sul fare. Mi diceva un uomo che nel secondo dopoguerra aveva fatto diversi mestieri per sopravvivere, lui e la sua famiglia: "Nella vita occorre inventarsi tanti mestieri. Ma soprattutto, se campi, occorre inventarsi la vecchiaia, che non può essere il mestiere di morire". Per questo in Grecia i vecchi vengono chiamati kalógheroi, "begli anziani", e durante la festa con cui contano gli anni della vecchiaia si canta loro: "Che tu sia saggio, sapiente, così vivrai a lungo!". Ha scritto Alessandro Robecchi: (…). È obbligatoria la notazione linguistica: questo possente sistema di governo della ricchezza – basta guardare i titoli nelle pagine economiche – non ha volti, non ha nomi e cognomi, solo nomi comuni di cose (“i mercati”), che bastano da soli ad atterrire ogni discorso pubblico. Si esce insomma con le mani alzate: se smottano “i mercati” è come se arrivasse il terremoto, che ci vuoi fare? Ecco, stanno smottando, gli allarmi si fanno fragorosi, le previsioni molto cupe. Questo potere assoluto e capriccioso, una roba da dei dell’Olimpo, condiziona le nostre vite in modo decisivo. L’ultima botta, come ricordano in questi giorni tutti i cronisti dei periodici disastri economici, fu nel 2008, e dodici anni dopo siamo ancora in pieno dentro alla morsa causata da quella stretta, meno tranquillità, meno diritti, meno redditi, tutto meno sicuro e più precario. Ora, si paventa che, di fronte al virus cattivo, i famosi mercati ci potrebbero ricascare, potrebbe ripartire un altro massiccio impoverimento, con tutto quel che ne deriva. E va bene, tutte cose che sappiamo. Ciò che sappiamo un po’ meno è forse questo: quando siamo diventati anche noi “mercati”? Cioè quando esattamente ci siamo dotati di quel cinismo un po’ gretto travestito da realismo che fa dire, beh, era vecchio, beh, era già malato? Si sa che spesso la morte degli altri può essere un sollievo per i vivi, ma in questi giorni – anche nei dibattiti sul tema, sempre un po’ smarriti o paradossali – si legge, e non tra le righe, ma proprio nelle righe, qualcosa che somiglia un sollievo millenarista: e vabbé, se ne va il nonno, meglio lui che io. A vederla in termini teorici, è una specie di scambio: preferite un’altra crisi economica planetaria oppure registrare un salto di mortalità nella fascia alta e altissima d’età? Oltretutto una fascia di vittime improduttive, e questo lo direbbero senza dubbio i famosi “mercati”, ma anche molte famiglie su cui è lasciato totalmente il peso delle cure e dell’assistenza: ecco un caso in cui il cinismo del profitto si accoppia tristemente a un cinismo di necessità. In questa oscena tenaglia, lo squilibrio è evidente: scommettendo al ribasso sui mercati finanziari, le grandi potenze della speculazione produrranno altre ricchezze per sé e per i loro azionisti, in modo non dissimile da chi vende amuchina e mascherine a prezzi da mercato nero, cioè la collocazione etica è più o meno quella. Gli altri, cioè tutti noi, costretti ad accettare un baratto non contrattabile, cioè (…) qualche sacrificio umano a fronte del mantenimento di un regime di vita che consideriamo ancora accettabile e in qualche modo (rispetto a molta parte del pianeta) privilegiato. Forse non lo sappiamo, tutto questo, forse ne intuiamo soltanto l’incombenza e l’alito fetido, forse siamo solo alla fase del sollievo corrente di non avere ancora “età avanzata e patologie pregresse”. Ma lo scambio, nei suoi termini ideologici, è assodato, chiaro, in qualche modo accettato. E quindi, si direbbe, abbiamo già perso.
In quel luogo del quale ho parlato giorni addietro (nel post del 26 di febbraio), luogo primigenio nel quale si formano e si confermano le pubbliche opinioni, ovvero il negozio del nostro verdumaio, passata la paura del contagio con il “coronavirus” ne è sopravvenuta una nuova che è la paura della catastrofe economica e finanziaria, con un addentellato che ha dello inimmaginabile e che Robecchi ben sintetizza nel titolo del Suo “pezzo”. Quanti nonni da sacrificare sull’altare dei “mercati”? Ove il sostrato della umanità rivela un lato ancora oscuro, poco esplorato, turbolento assai, ma che non tarderà ad esprimersi in tutta la sua inequivocabile essenza - questa sì virulenta di dis-umanità, non nuova almeno secondo Andrea Camilleri - per come scrive l’Autore, ovvero con quel “cinismo del profitto (che) si accoppia tristemente a un cinismo di necessità”. Nei giorni passati ne aveva scritto il già priore Enzo Bianchi sul quotidiano “la Repubblica” del 2 di marzo col titolo “Sommesso elogio della vecchiaia”: In questi giorni del propagarsi del coronavirus non è consolante per gli anziani ascoltare i martellanti bollettini che insistono sul fatto che i morti erano, per l'appunto, vecchi, per di più segnati da alcune patologie. Gli anziani reagiscono a questi annunci con fastidio, più che con paura, perché si sentono interpellati ancora una volta per ragioni mediche, demografiche ed economiche. Non ci si rivolge invece ad essi come a uomini e donne tuttora presenti tra di noi, che vorrebbero aggiungere vita ai loro giorni sempre più precari. L'esistenza umana è sempre stata scandita in alcune precise stagioni, le cosiddette tappe della vita: infanzia, giovinezza, maturità e vecchiaia. Ebbene, oggi nel nostro Occidente la vecchiaia non è solo un dato biologico ma è una stagione resa più pesante da ragioni culturali. I vecchi sono improduttivi e, di conseguenza, sono percepiti come persone dalla scarsa rilevanza sociale. Il più delle volte sono ritenuti insignificanti, privati anche della parola, perché da loro non si vuole ascoltare più nulla. Nel peggiore dei casi, sono addirittura abbandonati. Dobbiamo forse affermare che si invecchia solo per morire? Al contrario, non è forse la vecchiaia anche il tempo necessario per compiere la vita, per comprenderla e leggerla nel suo dipanarsi come un tappeto, dunque per scoprire e conoscere meglio se stessi? Non è la vecchiaia il tempo per mostrare, attraverso le rughe del volto, un'anamnesi di ciò che abbiamo vissuto? Con grande intelligenza e ottimo senso dell'umorismo James Hillman affermava che "la chirurgia estetica è un crimine contro l'umanità", perché vuole cancellare le tracce dell'umanizzazione, la memoria della fatica, del dolore, della gioia e dell'amore che si sono vissuti nel volgere dei giorni e delle stagioni. Proprio la vecchiaia può essere la stagione più propizia all'amore, non più nel senso di un eros travolgente, ma in quello di un amore che va in profondità e insegna ad affrontare con consapevolezza la lotta contro la morte. Lotta che racchiude in sé una serie di battaglie da affrontare nell'ultima stagione della vita: contro il cinismo, contro la rinuncia alla passione e allo stupore... E ancora, la battaglia per evitare lo spegnersi della gratuità, del "disinteresse", del primato del vivere e dell'essere sull'avere e sul fare. Mi diceva un uomo che nel secondo dopoguerra aveva fatto diversi mestieri per sopravvivere, lui e la sua famiglia: "Nella vita occorre inventarsi tanti mestieri. Ma soprattutto, se campi, occorre inventarsi la vecchiaia, che non può essere il mestiere di morire". Per questo in Grecia i vecchi vengono chiamati kalógheroi, "begli anziani", e durante la festa con cui contano gli anni della vecchiaia si canta loro: "Che tu sia saggio, sapiente, così vivrai a lungo!". Ha scritto Alessandro Robecchi: (…). È obbligatoria la notazione linguistica: questo possente sistema di governo della ricchezza – basta guardare i titoli nelle pagine economiche – non ha volti, non ha nomi e cognomi, solo nomi comuni di cose (“i mercati”), che bastano da soli ad atterrire ogni discorso pubblico. Si esce insomma con le mani alzate: se smottano “i mercati” è come se arrivasse il terremoto, che ci vuoi fare? Ecco, stanno smottando, gli allarmi si fanno fragorosi, le previsioni molto cupe. Questo potere assoluto e capriccioso, una roba da dei dell’Olimpo, condiziona le nostre vite in modo decisivo. L’ultima botta, come ricordano in questi giorni tutti i cronisti dei periodici disastri economici, fu nel 2008, e dodici anni dopo siamo ancora in pieno dentro alla morsa causata da quella stretta, meno tranquillità, meno diritti, meno redditi, tutto meno sicuro e più precario. Ora, si paventa che, di fronte al virus cattivo, i famosi mercati ci potrebbero ricascare, potrebbe ripartire un altro massiccio impoverimento, con tutto quel che ne deriva. E va bene, tutte cose che sappiamo. Ciò che sappiamo un po’ meno è forse questo: quando siamo diventati anche noi “mercati”? Cioè quando esattamente ci siamo dotati di quel cinismo un po’ gretto travestito da realismo che fa dire, beh, era vecchio, beh, era già malato? Si sa che spesso la morte degli altri può essere un sollievo per i vivi, ma in questi giorni – anche nei dibattiti sul tema, sempre un po’ smarriti o paradossali – si legge, e non tra le righe, ma proprio nelle righe, qualcosa che somiglia un sollievo millenarista: e vabbé, se ne va il nonno, meglio lui che io. A vederla in termini teorici, è una specie di scambio: preferite un’altra crisi economica planetaria oppure registrare un salto di mortalità nella fascia alta e altissima d’età? Oltretutto una fascia di vittime improduttive, e questo lo direbbero senza dubbio i famosi “mercati”, ma anche molte famiglie su cui è lasciato totalmente il peso delle cure e dell’assistenza: ecco un caso in cui il cinismo del profitto si accoppia tristemente a un cinismo di necessità. In questa oscena tenaglia, lo squilibrio è evidente: scommettendo al ribasso sui mercati finanziari, le grandi potenze della speculazione produrranno altre ricchezze per sé e per i loro azionisti, in modo non dissimile da chi vende amuchina e mascherine a prezzi da mercato nero, cioè la collocazione etica è più o meno quella. Gli altri, cioè tutti noi, costretti ad accettare un baratto non contrattabile, cioè (…) qualche sacrificio umano a fronte del mantenimento di un regime di vita che consideriamo ancora accettabile e in qualche modo (rispetto a molta parte del pianeta) privilegiato. Forse non lo sappiamo, tutto questo, forse ne intuiamo soltanto l’incombenza e l’alito fetido, forse siamo solo alla fase del sollievo corrente di non avere ancora “età avanzata e patologie pregresse”. Ma lo scambio, nei suoi termini ideologici, è assodato, chiaro, in qualche modo accettato. E quindi, si direbbe, abbiamo già perso.
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