A proposito di “parole, parole,
parole”, tante, tantissime, il più delle volte sostituite dalle “immagini” - se
non da queste ultime, esclusivamente percepite come “i messaggi” dei media in
questi giorni turbolenti del “coronavirus” - ho osato chiedere sino a qual
punto potrà “reggere” la gente al profluvio di immagini e parole – quante? quali?
– che ci sta investendo al chiuso delle nostre segregazioni. Una preoccupazione
personale che ha trovato conforto nelle prese di posizione dei tanti
specialisti dai quali è stato utilizzato un termine: “infodemia”. Un
neologismo?
Proprio così, “infodemia”, che fa il paio con la presente, terribile “pandemia”. Quale delle due la più pericolosa? Temo che i più potranno farla franca dalla seconda, ma in tanti, tantissimi pagheranno un prezzo alto, altissimo alla “infodemia”. Ma quale è il problema? I “palinsesti” sono stati riempiti a dovere con giubilo e grande soddisfazione degli addetti – l’editore Cairo docet -, il tanto mitizzato “audience” ha toccato i picchi massimi della “infodemia” mentre tuttora si attende che la “pandemia” raggiunga i picchi massimi tanto invocati. Signori, è proprio così: tutto come prima! Tratto da “Le nostre parole mentono per noi” di Umberto Galimberti, pubblicato sul settimanale “D” del quotidiano “la Repubblica” del 30 di marzo dell’anno 2013: Scrive il sociologo inglese Stanley Cohen: "La negazione è un modo per mantenere segreta a noi stessi la verità che non abbiamo il coraggio di affrontare". Oggi sappiamo cosa succede nel mondo non perché ne siamo testimoni, ma per l'informazione che i mezzi di comunicazione ci offrono. E qui il linguaggio fa i suoi giochi di verità e menzogna (…): "Senza tetto", "Barbone" sono parole che inducono un leggero sentimento di compassione, senza che da parte nostra ci sia un minimo di interessamento per la sorte di chi si trova in quelle condizioni. Al massimo una leggera indignazione verso quelle amministrazioni che non risolvono il problema, perché noi ci sentiamo esonerati dall'interessarci di quel disagio. "Integrazione" significa di fatto che l'immigrato deve diventare come uno di noi negli usi e nei costumi che ci caratterizzano, senza che noi si faccia un passo per comprendere i suoi usi e i suoi costumi. In fondo, anche se non abbiamo la spudoratezza di dirlo (anche se ogni tanto qualcuno lo dice), ci consideriamo la "civiltà superiore" e quindi riteniamo che sarebbe un bene che anche gli immigrati raggiungano il nostro livello. Ma il luogo eminente della falsificazione tramite il linguaggio avviene a livello politico, quando una pulizia etnica si chiama "scambio di popolazione", come se non comportasse alcuna sofferenza lo sradicamento dalla propria terra. Allo stesso modo, l'abbiamo sentito dire più volte, un massacro si chiama "danno collaterale", dove è sottinteso "non l'abbiamo fatto apposta", "non era nelle nostre intenzioni", e per la morale dell'intenzione, che ancora non ha recepito il messaggio di Max Weber che ha proposto la morale della responsabilità, siamo tutti assolti. Non parliamo poi della guerra e delle sue atrocità che la nostra ipocrisia ha la spudoratezza di chiamare "missione di pace". La falsificazione non riguarda solo l'informazione politica o mediatica, ma si nasconde segretamente nell'anima di ciascuno di noi. Espressioni quali: "chiudere un occhio", "guardare dall'altra parte", "mettere la testa sotto la sabbia", "non sollevare un polverone", "lavare i panni sporchi in casa propria", che cosa significano se non "non voler vedere" e quindi non prender coscienza del male di cui pure abbiamo conoscenza, ma di cui neghiamo o attenuiamo l'esistenza? Fatte le debite proporzioni, assomigliamo a quei tedeschi o a quei polacchi intervistati da Gordon Horwitz (si veda Nell'ombra della morte, Marsilio) che chiedeva se non sapevano proprio nulla di quei campi di concentramento non lontani dalle loro case. Le risposte furono che sì vedevano dei fumi, si sentivano delle dicerie, ma tutto questo non li sollecitava a verificare quanto accadeva. Freud chiama questa ipocrisia del linguaggio "negazione (Verneinung)". Il risultato è una falsificazione del nostro apparato "cognitivo" - che misconosce ciò che in verità conosce - "emozionale" - perché sterilizza i nostri sentimenti nell'indifferenza-, "morale" - perché esonera da ogni responsabilità - di "azione" - perché non promuove alcuna risposta a quanto si conosce. (…). …la purificazione del linguaggio, prima che pubblica o politica, deve incominciare dentro di noi.
Proprio così, “infodemia”, che fa il paio con la presente, terribile “pandemia”. Quale delle due la più pericolosa? Temo che i più potranno farla franca dalla seconda, ma in tanti, tantissimi pagheranno un prezzo alto, altissimo alla “infodemia”. Ma quale è il problema? I “palinsesti” sono stati riempiti a dovere con giubilo e grande soddisfazione degli addetti – l’editore Cairo docet -, il tanto mitizzato “audience” ha toccato i picchi massimi della “infodemia” mentre tuttora si attende che la “pandemia” raggiunga i picchi massimi tanto invocati. Signori, è proprio così: tutto come prima! Tratto da “Le nostre parole mentono per noi” di Umberto Galimberti, pubblicato sul settimanale “D” del quotidiano “la Repubblica” del 30 di marzo dell’anno 2013: Scrive il sociologo inglese Stanley Cohen: "La negazione è un modo per mantenere segreta a noi stessi la verità che non abbiamo il coraggio di affrontare". Oggi sappiamo cosa succede nel mondo non perché ne siamo testimoni, ma per l'informazione che i mezzi di comunicazione ci offrono. E qui il linguaggio fa i suoi giochi di verità e menzogna (…): "Senza tetto", "Barbone" sono parole che inducono un leggero sentimento di compassione, senza che da parte nostra ci sia un minimo di interessamento per la sorte di chi si trova in quelle condizioni. Al massimo una leggera indignazione verso quelle amministrazioni che non risolvono il problema, perché noi ci sentiamo esonerati dall'interessarci di quel disagio. "Integrazione" significa di fatto che l'immigrato deve diventare come uno di noi negli usi e nei costumi che ci caratterizzano, senza che noi si faccia un passo per comprendere i suoi usi e i suoi costumi. In fondo, anche se non abbiamo la spudoratezza di dirlo (anche se ogni tanto qualcuno lo dice), ci consideriamo la "civiltà superiore" e quindi riteniamo che sarebbe un bene che anche gli immigrati raggiungano il nostro livello. Ma il luogo eminente della falsificazione tramite il linguaggio avviene a livello politico, quando una pulizia etnica si chiama "scambio di popolazione", come se non comportasse alcuna sofferenza lo sradicamento dalla propria terra. Allo stesso modo, l'abbiamo sentito dire più volte, un massacro si chiama "danno collaterale", dove è sottinteso "non l'abbiamo fatto apposta", "non era nelle nostre intenzioni", e per la morale dell'intenzione, che ancora non ha recepito il messaggio di Max Weber che ha proposto la morale della responsabilità, siamo tutti assolti. Non parliamo poi della guerra e delle sue atrocità che la nostra ipocrisia ha la spudoratezza di chiamare "missione di pace". La falsificazione non riguarda solo l'informazione politica o mediatica, ma si nasconde segretamente nell'anima di ciascuno di noi. Espressioni quali: "chiudere un occhio", "guardare dall'altra parte", "mettere la testa sotto la sabbia", "non sollevare un polverone", "lavare i panni sporchi in casa propria", che cosa significano se non "non voler vedere" e quindi non prender coscienza del male di cui pure abbiamo conoscenza, ma di cui neghiamo o attenuiamo l'esistenza? Fatte le debite proporzioni, assomigliamo a quei tedeschi o a quei polacchi intervistati da Gordon Horwitz (si veda Nell'ombra della morte, Marsilio) che chiedeva se non sapevano proprio nulla di quei campi di concentramento non lontani dalle loro case. Le risposte furono che sì vedevano dei fumi, si sentivano delle dicerie, ma tutto questo non li sollecitava a verificare quanto accadeva. Freud chiama questa ipocrisia del linguaggio "negazione (Verneinung)". Il risultato è una falsificazione del nostro apparato "cognitivo" - che misconosce ciò che in verità conosce - "emozionale" - perché sterilizza i nostri sentimenti nell'indifferenza-, "morale" - perché esonera da ogni responsabilità - di "azione" - perché non promuove alcuna risposta a quanto si conosce. (…). …la purificazione del linguaggio, prima che pubblica o politica, deve incominciare dentro di noi.
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