Ci danno le cronache, al tempo
del “coronavirus”, conto della umana generosità che proviene da chi pur anche nell’intemperie
sia riuscito a metter piede sull’italica terra. Generosità di quella gente martoriata
proveniente dalle regioni anche le più remote che cercano e trovano modo per
rendere un grazie all’accoglienza loro accordata. Di quelli che al loro banco
ortofrutticolo offrono gratuitamente la merce a chi, nel terribile momento del
“coronavirus”, non potrebbe farne acquisto.
Questa è la “memoria” di un sabato, è del 12 di gennaio dell’anno 2008. Scrivevo a quel tempo, il tempo dell’inizio della grande “crisi” economico-finanziaria nonché umanitaria: È da tempo che vado rimuginando l’idea di una nuova rubrichetta, che mi ridia slancio ed entusiasmo. È così, qualora non lo si fosse capito: sono stato colpito dal “blocco” del blogger. Il “blocco” dello scrittore è sempre esistito; in tanti, anche illustri, ne hanno parlato. È una condizione di impalpabile galleggiamento della mente, di smarrimento, che non concretizza un pensiero che la mano poi possa trasformare in segno scritto. Oggi, si dirà, è del tutto diverso: non si scrive ma si digita. Ma il “blocco” subentra lo stesso. Non pensavo che il “blocco” potesse interessare anche il blogger, un mestierante della peggiore risma, un “amanuense” certosino quanto si voglia, ma sempre un mestierante. E così ho provato pure io il dramma del “blocco”, proprio di coloro che sono stati anche grandissimi artisti. Ecco: il “blocco” almeno mi accosta, molto timidamente ed immeritatamente, ad essi. Una condivisione solamente esistenziale, che di tutto il resto nulla ho da condividere. Per mio demerito, certamente ed esclusivamente. Mi è bastato però leggere su di un supplemento del quotidiano “la Repubblica” il breve scritto di seguito riportato perché il mio personale “blocco” di anonimo blogger si dissolvesse come d’incanto. Spero che duri abbastanza questo nuovo stato di grazia. Intanto la nuova rubrichetta ha per titolo “Dell’essere”, ovvero della umana condizione. L’avevo pensata da tempo, poiché negli anni trascorsi ho raccolto tantissime testimonianze e contributi: ma il “blocco” quasi me lo impediva. “Dell’essere” è una rubrichetta che vuole affiancare, al tempo dominato dalla fregola dell’apparire, considerazioni e riflessioni che scavino in fondo, come la famosissima goccia sulla pietra; in questo caso, la pietra dell’indifferenza e della superficialità. La pietra dura dell’apparire anziché dell’essere, come un grande ha da tempo sentenziato. E così ho raccolto la riflessione di Jean Daniel, giornalista e scrittore nato in Algeria. In Francia Jean Daniel ha fondato e diretto “Le Nouvel Observateur”. Questo brano è tratto da una Sua nuovissima pubblicazione di prossima apparizione anche in Italia - “Questo straniero che mi somiglia” - edita da BCD. Il suo scritto è stato per me come un toccasana; spero che gli incauti navigatori della rete che dovessero approdare su questo sito ne riconoscano la profondità e la struggente passione dei ricordi. E poi ancora una considerazione ultimissima prima di cedere il passo alla lettura: ovvero, dell’inevitabile universalità dei sentimenti, qualunque possa essere il colore della pelle, la lingua parlata, la terra che ha dato i natali. Dell’essere uomini. E basta: Il mare era una promessa a quindici chilometri. Dell' Algeria mi restano l'odore di caprifoglio, il raglio di un asino attaccato a un carretto davanti alla porta di casa nostra. Rivedo i danzatori - berberi dalla carnagione scura - sfilare per le strade il venerdì, giorno dell'elemosina, e che da bambino mi impressionavano. Ricordo le notti blu di Blida. Un blu luminoso come in cima a un monte o in mezzo a un deserto. Quando la luna inondava la mia stanza attraverso la finestra, faceva sparire la luce delle stelle. L'Algeria è la mia infanzia, la mia famiglia, alcune amicizie, un paesaggio montano. Perché, a differenza di Camus che è nato in riva al mare, io sono nato ai piedi di una montagna. L'Algeria è anche “la grande casa”: mi sembrava grande perché io ero piccolo. A lungo ho dormito in camera dei miei genitori, cosa comunque poco sana. Ero l'undicesimo, non programmato, e non c'era un altro posto. Mio padre si alzava alle sei e spalancava le persiane, ma appena se ne andava, mia madre correva a richiuderle sussurrando: - Dormi, tesoro -. E io me la figuravo là, in ginocchio che pregava. Sentirle chiedere a Dio di proteggerci tutti mi turbava. Nella “grande casa” di Blida in cui prende corpo questa numerosa famiglia, regna il silenzio. Il rumore, per rispetto a mio padre, era bandito. Per lui, austero patriarca, le persone espansive erano “quelli della spiaggia”, per distinguerli da quelli della montagna, discreti e silenziosi. Ci avevano cresciuti nell'idea che il rumore fosse una cosa volgare. Un'educazione che ha plasmato i miei comportamenti e da sempre le persone silenziose mi ispirano rispetto e ammirazione. Mio padre aveva cinquant'anni quando nacqui io, una differenza d'età che lo rendeva, più che un padre, un nonno. Aveva un debole per due figli, Fernand - il dentista, quello che ruppe con me durante la guerra d'Algeria - e Jacques, il più vicino, che ho perso di recente. Gli assomigliavano fisicamente: rudi montanari. Eravamo una tribù e nostro padre aveva individuato i forti, i generosi, gli egoisti, i colti. Se qualcuno gli faceva dei complimenti per me, rispondeva con una frase degna di Pagnol: - Jean non mi assomiglia, però mi fa onore -. Vedevo mio padre ammazzarsi di lavoro. Aveva cominciato da giovanissimo sgobbando per i suoi fratelli più anziani e ricchi che lo sfruttavano come uno schiavo caricandogli in spalla sacchi da cento chili di farina. Gli volevo un gran bene, lo ammiravo, ma parlare non fu mai veramente possibile. Tuttavia un giorno in terrazza mi raccontò di come avesse irretito mia madre, allora quindicenne. Lei abitava in un paesello sperduto, ma la sua era una famiglia della piccola borghesia di condizione superiore a quella di mio padre. Per sedurla le disse che da loro l'acqua era più limpida, l'uva più dolce e i fichi più polposi. Amava le acacie e i pioppi quanto gli ulivi. A volte anche di più, diceva. Papà, e hai detto tutte queste cose alla mamma? Certo che no. Le ho pensate. Naturalmente l'Algeria di mio padre è anche la mia, l'unica.
Questa è la “memoria” di un sabato, è del 12 di gennaio dell’anno 2008. Scrivevo a quel tempo, il tempo dell’inizio della grande “crisi” economico-finanziaria nonché umanitaria: È da tempo che vado rimuginando l’idea di una nuova rubrichetta, che mi ridia slancio ed entusiasmo. È così, qualora non lo si fosse capito: sono stato colpito dal “blocco” del blogger. Il “blocco” dello scrittore è sempre esistito; in tanti, anche illustri, ne hanno parlato. È una condizione di impalpabile galleggiamento della mente, di smarrimento, che non concretizza un pensiero che la mano poi possa trasformare in segno scritto. Oggi, si dirà, è del tutto diverso: non si scrive ma si digita. Ma il “blocco” subentra lo stesso. Non pensavo che il “blocco” potesse interessare anche il blogger, un mestierante della peggiore risma, un “amanuense” certosino quanto si voglia, ma sempre un mestierante. E così ho provato pure io il dramma del “blocco”, proprio di coloro che sono stati anche grandissimi artisti. Ecco: il “blocco” almeno mi accosta, molto timidamente ed immeritatamente, ad essi. Una condivisione solamente esistenziale, che di tutto il resto nulla ho da condividere. Per mio demerito, certamente ed esclusivamente. Mi è bastato però leggere su di un supplemento del quotidiano “la Repubblica” il breve scritto di seguito riportato perché il mio personale “blocco” di anonimo blogger si dissolvesse come d’incanto. Spero che duri abbastanza questo nuovo stato di grazia. Intanto la nuova rubrichetta ha per titolo “Dell’essere”, ovvero della umana condizione. L’avevo pensata da tempo, poiché negli anni trascorsi ho raccolto tantissime testimonianze e contributi: ma il “blocco” quasi me lo impediva. “Dell’essere” è una rubrichetta che vuole affiancare, al tempo dominato dalla fregola dell’apparire, considerazioni e riflessioni che scavino in fondo, come la famosissima goccia sulla pietra; in questo caso, la pietra dell’indifferenza e della superficialità. La pietra dura dell’apparire anziché dell’essere, come un grande ha da tempo sentenziato. E così ho raccolto la riflessione di Jean Daniel, giornalista e scrittore nato in Algeria. In Francia Jean Daniel ha fondato e diretto “Le Nouvel Observateur”. Questo brano è tratto da una Sua nuovissima pubblicazione di prossima apparizione anche in Italia - “Questo straniero che mi somiglia” - edita da BCD. Il suo scritto è stato per me come un toccasana; spero che gli incauti navigatori della rete che dovessero approdare su questo sito ne riconoscano la profondità e la struggente passione dei ricordi. E poi ancora una considerazione ultimissima prima di cedere il passo alla lettura: ovvero, dell’inevitabile universalità dei sentimenti, qualunque possa essere il colore della pelle, la lingua parlata, la terra che ha dato i natali. Dell’essere uomini. E basta: Il mare era una promessa a quindici chilometri. Dell' Algeria mi restano l'odore di caprifoglio, il raglio di un asino attaccato a un carretto davanti alla porta di casa nostra. Rivedo i danzatori - berberi dalla carnagione scura - sfilare per le strade il venerdì, giorno dell'elemosina, e che da bambino mi impressionavano. Ricordo le notti blu di Blida. Un blu luminoso come in cima a un monte o in mezzo a un deserto. Quando la luna inondava la mia stanza attraverso la finestra, faceva sparire la luce delle stelle. L'Algeria è la mia infanzia, la mia famiglia, alcune amicizie, un paesaggio montano. Perché, a differenza di Camus che è nato in riva al mare, io sono nato ai piedi di una montagna. L'Algeria è anche “la grande casa”: mi sembrava grande perché io ero piccolo. A lungo ho dormito in camera dei miei genitori, cosa comunque poco sana. Ero l'undicesimo, non programmato, e non c'era un altro posto. Mio padre si alzava alle sei e spalancava le persiane, ma appena se ne andava, mia madre correva a richiuderle sussurrando: - Dormi, tesoro -. E io me la figuravo là, in ginocchio che pregava. Sentirle chiedere a Dio di proteggerci tutti mi turbava. Nella “grande casa” di Blida in cui prende corpo questa numerosa famiglia, regna il silenzio. Il rumore, per rispetto a mio padre, era bandito. Per lui, austero patriarca, le persone espansive erano “quelli della spiaggia”, per distinguerli da quelli della montagna, discreti e silenziosi. Ci avevano cresciuti nell'idea che il rumore fosse una cosa volgare. Un'educazione che ha plasmato i miei comportamenti e da sempre le persone silenziose mi ispirano rispetto e ammirazione. Mio padre aveva cinquant'anni quando nacqui io, una differenza d'età che lo rendeva, più che un padre, un nonno. Aveva un debole per due figli, Fernand - il dentista, quello che ruppe con me durante la guerra d'Algeria - e Jacques, il più vicino, che ho perso di recente. Gli assomigliavano fisicamente: rudi montanari. Eravamo una tribù e nostro padre aveva individuato i forti, i generosi, gli egoisti, i colti. Se qualcuno gli faceva dei complimenti per me, rispondeva con una frase degna di Pagnol: - Jean non mi assomiglia, però mi fa onore -. Vedevo mio padre ammazzarsi di lavoro. Aveva cominciato da giovanissimo sgobbando per i suoi fratelli più anziani e ricchi che lo sfruttavano come uno schiavo caricandogli in spalla sacchi da cento chili di farina. Gli volevo un gran bene, lo ammiravo, ma parlare non fu mai veramente possibile. Tuttavia un giorno in terrazza mi raccontò di come avesse irretito mia madre, allora quindicenne. Lei abitava in un paesello sperduto, ma la sua era una famiglia della piccola borghesia di condizione superiore a quella di mio padre. Per sedurla le disse che da loro l'acqua era più limpida, l'uva più dolce e i fichi più polposi. Amava le acacie e i pioppi quanto gli ulivi. A volte anche di più, diceva. Papà, e hai detto tutte queste cose alla mamma? Certo che no. Le ho pensate. Naturalmente l'Algeria di mio padre è anche la mia, l'unica.
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