"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

mercoledì 11 marzo 2020

Ifattinprima. 50 «Quanto è triste stare lontani un metro».


Tratto da “Mettersi in ascolto” di Michele Serra, pubblicato sul quotidiano “la Repubblica” dell’11 di marzo 2020: Quando parliamo del virus non stiamo parlando del virus, che è appena un pallino infinitesimo e fragile, molto più mortale di noi, e destinato allo sterminio grazie al vaccino. Quando parliamo del virus stiamo parlando di noi. Nostri sono gli errori di sottovalutazione (…), nostra l’angoscia, nostro l’orgoglio della scienza, nostra la speranza.
Prima tra tutte la speranza, in questi giorni bene avvertibile nelle conversazioni e negli sguardi, che la mazzata ci renda un poco più umili. Che equivale a dire un poco più intelligenti (intus legere: leggere dentro). Quello che sto cercando di dirvi lo dice benissimo, molto meglio di come avrei mai saputo fare, Mariangela Gualtieri, che è una poetessa, quasi mia coetanea. (…). Vorrei rubargliela ed è quello che sto facendo, la pubblicherei per intero se lo spazio mi bastasse. A cosa serve la poesia, in un momento nel quale tutti cerchiamo salvezza nella scienza? Serve a portare alla luce quello che non riusciamo a vedere – solamente a intuire – dentro di noi. Il poeta usa la parola come il virologo il microscopio, mette a fuoco l’invisibile. In questi giorni parliamo molto, nelle case, al telefono. Ne abbiamo il tempo e perfino la voglia. Parliamo con la voce bassa di chi ha perduto qualche certezza e guadagnato, per adesso, solo qualche incertezza. È la voce bassa di chi si sta finalmente mettendo in ascolto. “Nove marzo duemilaventi” di Mariangela Gualtieri, pubblicata sulla rivista-online “Doppiozero”:

Questo ti voglio dire
ci dovevamo fermare.
Lo sapevamo. Lo sentivamo tutti
ch’era troppo furioso
il nostro fare. Stare dentro le cose.
Tutti fuori di noi.
Agitare ogni ora - farla fruttare.
Ci dovevamo fermare
e non ci riuscivamo.
Andava fatto insieme.
Rallentare la corsa.
Ma non ci riuscivamo.
Non c’era sforzo umano
che ci potesse bloccare.
E poiché questo
era desiderio tacito comune
come un inconscio volere -
forse la specie nostra ha ubbidito
slacciato le catene che tengono blindato
il nostro seme. Aperto
le fessure più segrete
e fatto entrare.
Forse per questo dopo c’è stato un salto
di specie - dal pipistrello a noi.
Qualcosa in noi ha voluto spalancare.
Forse, non so.
Adesso siamo a casa.
È portentoso quello che succede.
E c’è dell’oro, credo, in questo tempo strano.
Forse ci sono doni.
Pepite d’oro per noi. Se ci aiutiamo.
C’è un molto forte richiamo
della specie ora e come specie adesso
deve pensarsi ognuno. Un comune destino
ci tiene qui. Lo sapevamo. Ma non troppo bene.
O tutti quanti o nessuno.
È potente la terra. Viva per davvero.
Io la sento pensante d’un pensiero
che noi non conosciamo.
E quello che succede? Consideriamo
se non sia lei che muove.
Se la legge che tiene ben guidato
l’universo intero, se quanto accade mi chiedo
non sia piena espressione di quella legge
che governa anche noi - proprio come
ogni stella - ogni particella di cosmo.
Se la materia oscura fosse questo
tenersi insieme di tutto in un ardore
di vita, con la spazzina morte che viene
a equilibrare ogni specie.
Tenerla dentro la misura sua, al posto suo,
guidata. Non siamo noi
che abbiamo fatto il cielo.
Una voce imponente, senza parola
ci dice ora di stare a casa, come bambini
che l’hanno fatta grossa, senza sapere cosa,
e non avranno baci, non saranno abbracciati.
Ognuno dentro una frenata
che ci riporta indietro, forse nelle lentezze
delle antiche antenate, delle madri.
Guardare di più il cielo,
tingere d’ocra un morto. Fare per la prima volta
il pane. Guardare bene una faccia. Cantare
piano piano perché un bambino dorma. Per la prima volta
stringere con la mano un’altra mano
sentire forte l’intesa. Che siamo insieme.
Un organismo solo. Tutta la specie
la portiamo in noi. Dentro noi la salviamo.
A quella stretta
di un palmo col palmo di qualcuno
a quel semplice atto che ci è interdetto ora -
noi torneremo con una comprensione dilatata.
Saremo qui, più attenti credo. Più delicata
la nostra mano starà dentro il fare della vita.
Adesso lo sappiamo quanto è triste
stare lontani un metro.

1 commento:

  1. Carissimo Aldo, grazie per questo post così coinvolgente e tanto vicino, credo, al modo di pensare e di sentire di tante persone, almeno di quelle che, costrette a fermarsi dalla folle, quotidiana corsa, hanno trovato il modo di meditare. Spero con tutto il cuore che tutto quello che è capitato possa veramente servire a "mettersi in ascolto", a "ridimensionare il nostro orgoglio della scienza", a renderci "un poco più umili", a "mettere a fuoco l'invisibile", "a portare alla luce quello che non riusciamo a vedere dentro di noi", quello che costituisce la parte più preziosa, vera e profonda di noi stessi. Nella speranza forte che presto tutto si possa risolvere nel migliore dei modi per tutti, ti auguro buona continuazione. Agnese A.

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