Tratto
da “Contaminati dunque umani” di Wlodek
Goldkorn, pubblicato sul settimanale “L’Espresso” del primo di marzo 2020: (…). …nel
processo di globalizzazione c’è stato il divorzio fra potere e politica. Noi
tutti, ci sentiamo smarriti perché oggi chi governa non può prendere decisioni,
può solo promettere di essere in grado di decidere. Ma sappiamo che si tratta
di promesse che non potranno essere mantenute.
E allora, non resta che l’emergenza. L’ultimo caso, in ordine cronologico è l’emergenza coronavirus. Walter Benjamin, pensatore tedesco che si tolse la vita nel 1940, scrisse che «lo stato di emergenza in cui viviamo è la regola». Certo, la formula risale all’epoca del nazismo e si riferisce, alla lettera, al richiamo alla “tradizione degli oppressi”, da recuperare in nome di un riluttante Angelo redentore. Ma sull’ipotesi della non linearità della storia, dell’emergenza che non cessa mai e che si insinua nella gestione ordinaria dei fatti sociali hanno, da allora, riflettuto filosofi e pensatori: a partire da Michel Foucault e dall’idea della biopolitica, mai più attuale di oggi. Si tratta, semplificando, di un’indagine su come il potere e lo Stato abbiano prodotto e gestito norme che riguardano la nostra vita e i nostri corpi, e come in quel quadro sia fondamentale la questione della sanità del corpo e della mente e dove le pratiche come reclusione e quarantena sono di primissima importanza per disciplinare la società, per evitare l’imprevisto, per governare la vita degli individui. E oggi? L’idea dell’emergenza permanente si traduce nella richiesta, di noi cittadini della parte del mondo ancora benestante, della garanzia di sicurezza (niente guerre, malattie guaribili, automobili dotate di airbag, ma anche città perennemente sorvegliate da telecamere e familiari sempre a portata dello smartphone). In altre parole (…) chiediamo a chi ci governa una vita in cui niente possa sorprenderci. Ma la fede che tale vita possa esistere è contradetta dai fatti stessi della vita. Giorgio Agamben, uno dei filosofi più influenti in Occidente e che su biopolitica, stato d’eccezione e via elencando ha scritto centinaia di pagine, in una bella intervista (fra le rare che concede) a un giornalista greco, spiegava come per esempio, la gestione dell’emergenza carestia fosse fondamentale per il potere nella Francia di prima della Rivoluzione. Possiamo aggiungere altrettanto riguardo all’Urss di Stalin, con la carestia in Ucraina negli anni Trenta. Le emergenze come essenza del potere e soprattutto come via maestra verso i pieni poteri. Ecco, si è detto della paura delle malattie, del decadimento del corpo, della morte. È come se (l’idea è spesso ribadita da molti pensatori) il fatto che la vita a un certo punto finisce e vi subentra il nulla fosse diventato inaccettabile. L’aveva intuito, per certi versi Slavoj Zizek, in un libro pubblicato in Italia diciannove anni fa (e adorato dal nostro compianto Edmondo Berselli) “Il godimento come fattore politico”. Fra le molte cose di quel testo, il filosofo di Lubiana diceva come il godimento fosse legato all’esercizio del potere, ma anche come il godimento sia diventato un dovere, in nome dell’edonismo, ma come questo dovere avrebbe invece portato alla rinuncia e all’ascesi. Spiegava quanto siamo ossessionati da pratiche che permettono una vita edonistica, ma la negano allo stesso tempo: per esempio il jogging, o la rinuncia a fumare. Ma poi siamo contenti di aver fatto il sacrificio, in nome sempre del godimento e del corpo che vive un’eterna giovinezza e di cui è garantita la salute. Roberto Esposito (fondamentale il suo: “Bíos. Biopolitica e filosofia”) interpellato sulla questione dell’immortalità e dell’emergenza che ci proteggerebbe dalla vita, risponde che oggi il massimo sviluppo della tecnica «è staccare la nostra identità dal nostro corpo per trasferirla su un dispositivo elettronico e così darle una vita eterna». Là dove fallì Orfeo che secondo un’interpretazione del mito si voltò indietro perché intuì che non avesse senso riportare la sua amata Euridice fra i vivi (meglio il tenero ricordo), oggi può sopperire la tecnologia. Ecco, tutto è possibile e se non lo è, vuol dire che qualcosa nella macchina che dovrebbe regolare tutto, si è inceppato, quindi bisogna ricorrere all’emergenza. Ma emergenza significa anche cordone sanitario per non permettere di contaminarci con altri, umani o non. Gli umani, con cui adottare le procedure emergenziali, sono ovviamente nell’immaginario di questi ultimi anni, gli immigrati (ma prima ancora c’è stata l’emergenza Balcani, con la guerra, imprevista, dato che la caduta del Muro di Berlino avrebbe dovuto garantire l’eternità della democrazia liberale e la fine della storia e poi l’11 settembre, nemesi della globalizzazione). Ed ecco quindi che per arginare l’ondata di massa dei migranti che bussano alle nostre porte, conseguenza dei cambiamenti climatici, dei conflitti armati fuori da quello che chiamiamo l’Occidente, della voglia di partecipare ai nostri modi di vita e al nostro benessere, si è pensato di costruire nuovi muri, chiudere i porti, rendere la nostra società immune dalla contaminazione con i corpi, perché i naufraghi si presentano come corpi, come vita nuda, come un problema da gestire con la biopolitica. Ne ha scritto molto, ed è stata fra i primi a farlo, (…), Donatella Di Cesare. L’emergenza immigrati ha portato secondo la filosofa a escludere una parte dell’umanità dal “diritto ad avere diritti”, di rinchiuderli nei luoghi (i campi di internamento) dove il diritto non ha luogo perché è sospeso. Dell’illusione che una società possa restare immune completamente da ogni contaminazione parla spesso Esposito. Il filosofo fa un’analogia inquietante: «L’ossessione di immunizzarsi, di evitare contaminazioni, porta il corpo umano a sviluppare malattie autoimmunitarie che finiscono per distruggere il corpo stesso». La difesa della vita così come è, la paura, portano alla morte e all’estinzione. Ora, è vero, il coronavirus richiede misure sanitarie serie, isolamento dei malati e via elencando. Non è questo in discussione. Ma la filosofia emergenziale che l’accompagna, e che si è dispiegata con tutta la sua pervasiva potenza in questi giorni, con il richiamo alla paura, all’idea che il mondo fuori da noi è un luogo di morte e di pericolo, che il contatto con l’altro è foriero di sciagure, per cui è meglio alzare i ponti levatoi, un po’ come si faceva nel Medioevo, può avere conseguenze nefaste. Del resto, molto prima delle teorie biopolitiche lo intuì bene un lombardo, romanziere, un po’ scettico circa la natura umana, ma tutto sommato ottimista, Alessandro Manzoni.
E allora, non resta che l’emergenza. L’ultimo caso, in ordine cronologico è l’emergenza coronavirus. Walter Benjamin, pensatore tedesco che si tolse la vita nel 1940, scrisse che «lo stato di emergenza in cui viviamo è la regola». Certo, la formula risale all’epoca del nazismo e si riferisce, alla lettera, al richiamo alla “tradizione degli oppressi”, da recuperare in nome di un riluttante Angelo redentore. Ma sull’ipotesi della non linearità della storia, dell’emergenza che non cessa mai e che si insinua nella gestione ordinaria dei fatti sociali hanno, da allora, riflettuto filosofi e pensatori: a partire da Michel Foucault e dall’idea della biopolitica, mai più attuale di oggi. Si tratta, semplificando, di un’indagine su come il potere e lo Stato abbiano prodotto e gestito norme che riguardano la nostra vita e i nostri corpi, e come in quel quadro sia fondamentale la questione della sanità del corpo e della mente e dove le pratiche come reclusione e quarantena sono di primissima importanza per disciplinare la società, per evitare l’imprevisto, per governare la vita degli individui. E oggi? L’idea dell’emergenza permanente si traduce nella richiesta, di noi cittadini della parte del mondo ancora benestante, della garanzia di sicurezza (niente guerre, malattie guaribili, automobili dotate di airbag, ma anche città perennemente sorvegliate da telecamere e familiari sempre a portata dello smartphone). In altre parole (…) chiediamo a chi ci governa una vita in cui niente possa sorprenderci. Ma la fede che tale vita possa esistere è contradetta dai fatti stessi della vita. Giorgio Agamben, uno dei filosofi più influenti in Occidente e che su biopolitica, stato d’eccezione e via elencando ha scritto centinaia di pagine, in una bella intervista (fra le rare che concede) a un giornalista greco, spiegava come per esempio, la gestione dell’emergenza carestia fosse fondamentale per il potere nella Francia di prima della Rivoluzione. Possiamo aggiungere altrettanto riguardo all’Urss di Stalin, con la carestia in Ucraina negli anni Trenta. Le emergenze come essenza del potere e soprattutto come via maestra verso i pieni poteri. Ecco, si è detto della paura delle malattie, del decadimento del corpo, della morte. È come se (l’idea è spesso ribadita da molti pensatori) il fatto che la vita a un certo punto finisce e vi subentra il nulla fosse diventato inaccettabile. L’aveva intuito, per certi versi Slavoj Zizek, in un libro pubblicato in Italia diciannove anni fa (e adorato dal nostro compianto Edmondo Berselli) “Il godimento come fattore politico”. Fra le molte cose di quel testo, il filosofo di Lubiana diceva come il godimento fosse legato all’esercizio del potere, ma anche come il godimento sia diventato un dovere, in nome dell’edonismo, ma come questo dovere avrebbe invece portato alla rinuncia e all’ascesi. Spiegava quanto siamo ossessionati da pratiche che permettono una vita edonistica, ma la negano allo stesso tempo: per esempio il jogging, o la rinuncia a fumare. Ma poi siamo contenti di aver fatto il sacrificio, in nome sempre del godimento e del corpo che vive un’eterna giovinezza e di cui è garantita la salute. Roberto Esposito (fondamentale il suo: “Bíos. Biopolitica e filosofia”) interpellato sulla questione dell’immortalità e dell’emergenza che ci proteggerebbe dalla vita, risponde che oggi il massimo sviluppo della tecnica «è staccare la nostra identità dal nostro corpo per trasferirla su un dispositivo elettronico e così darle una vita eterna». Là dove fallì Orfeo che secondo un’interpretazione del mito si voltò indietro perché intuì che non avesse senso riportare la sua amata Euridice fra i vivi (meglio il tenero ricordo), oggi può sopperire la tecnologia. Ecco, tutto è possibile e se non lo è, vuol dire che qualcosa nella macchina che dovrebbe regolare tutto, si è inceppato, quindi bisogna ricorrere all’emergenza. Ma emergenza significa anche cordone sanitario per non permettere di contaminarci con altri, umani o non. Gli umani, con cui adottare le procedure emergenziali, sono ovviamente nell’immaginario di questi ultimi anni, gli immigrati (ma prima ancora c’è stata l’emergenza Balcani, con la guerra, imprevista, dato che la caduta del Muro di Berlino avrebbe dovuto garantire l’eternità della democrazia liberale e la fine della storia e poi l’11 settembre, nemesi della globalizzazione). Ed ecco quindi che per arginare l’ondata di massa dei migranti che bussano alle nostre porte, conseguenza dei cambiamenti climatici, dei conflitti armati fuori da quello che chiamiamo l’Occidente, della voglia di partecipare ai nostri modi di vita e al nostro benessere, si è pensato di costruire nuovi muri, chiudere i porti, rendere la nostra società immune dalla contaminazione con i corpi, perché i naufraghi si presentano come corpi, come vita nuda, come un problema da gestire con la biopolitica. Ne ha scritto molto, ed è stata fra i primi a farlo, (…), Donatella Di Cesare. L’emergenza immigrati ha portato secondo la filosofa a escludere una parte dell’umanità dal “diritto ad avere diritti”, di rinchiuderli nei luoghi (i campi di internamento) dove il diritto non ha luogo perché è sospeso. Dell’illusione che una società possa restare immune completamente da ogni contaminazione parla spesso Esposito. Il filosofo fa un’analogia inquietante: «L’ossessione di immunizzarsi, di evitare contaminazioni, porta il corpo umano a sviluppare malattie autoimmunitarie che finiscono per distruggere il corpo stesso». La difesa della vita così come è, la paura, portano alla morte e all’estinzione. Ora, è vero, il coronavirus richiede misure sanitarie serie, isolamento dei malati e via elencando. Non è questo in discussione. Ma la filosofia emergenziale che l’accompagna, e che si è dispiegata con tutta la sua pervasiva potenza in questi giorni, con il richiamo alla paura, all’idea che il mondo fuori da noi è un luogo di morte e di pericolo, che il contatto con l’altro è foriero di sciagure, per cui è meglio alzare i ponti levatoi, un po’ come si faceva nel Medioevo, può avere conseguenze nefaste. Del resto, molto prima delle teorie biopolitiche lo intuì bene un lombardo, romanziere, un po’ scettico circa la natura umana, ma tutto sommato ottimista, Alessandro Manzoni.
Carissimo Aldo, la lettura di questo post, così ricco di spunti di riflessione, mi induce a fare alcune considerazioni che forse pochi condivideranno... Ritengo che tutti dovremmo prendere coscienza della fragilità dell'essere umano, perché segnato dall'esperienza del limite che è condizione inconfutabile dell'umanità. Il nostro tempo esalta il potere, l'esibizione della potenza in tutte le sue forme e per questo si vuole nascondere la fragilità umana che viene, pertanto, considerata come una condizione svantaggiosa da nascondere. Mentre proprio nella fragilità sono custoditi i più preziosi valori umani di sensibilità, partecipazione, empatia e comprensione della sofferenza. Le parole dei filosofi, i versi dei poeti, le espressioni artistiche possono aiutarci a recuperare con uno sguardo nuovo la nostra dimensione originaria, impressa nella fragilità che è forza. È dalla fragilità che emergono gli incontri autentici fra persone che riconoscono la propria vulnerabilità e che per questo sentono il bisogno esistenziale dell'altro non per dominarlo, ma per realizzare il desiderio di una relazione fondata sull' umiltà, il rispetto, l'amicizia, l'ascolto, la condivisione e la gratitudine dell'incontro. Grazie e buona continuazione.Agnese A.
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