Ha scritto Elwyn Brooks
White (Mount Vernon, 11 di luglio dell’anno1899 – Brooklin, 1º di ottobre dell’anno
1985): “Sono pessimista sulla sorte della razza umana perché essa ha
troppo più ingegno di quanto ne occorra al suo benessere”. La “memoria”,
del martedì 29 di agosto dell’anno 2006, è tratta da “Etica per una
foglia” di Umberto Galimberti pubblicata per “Arianna Editrice” il 14
di ottobre dell’anno 2005: (…). Purtroppo la città degli uomini, che un
tempo era uno spazio recintato nel mondo naturale, oggi ha preso il posto della
natura ridotta a spazio recintato nel mondo artificiale della città, dove la
natura può vivere solo grazie all'assistenza tecnica, la stessa che un giorno
l'ha compromessa come paesaggio abituale, modificando l'esistenza dell'uomo e
quello che Marx chiamava "il suo ricambio organico con la natura".
Se guardiamo la monotonia di distese di cereali solcate da mietitrici
solitarie e irrorate da antiparassitari erogati in volo, abbiamo un esempio
elementare ma indicativo di come la tecnica, anche quando soccorre la natura,
in realtà la "denaturalizza", perché crea un paesaggio così poco
ospitale e così poco comunicativo che persino una fabbrica offre un volto più
umano.
Se poi dal mondo vegetale passiamo a quello animale, l'estrema degradazione di esseri viventi trasformati in macchine da uova e da carne, sottratti al loro ambiente, sottoposti a illuminazione artificiale, alimentati automaticamente, deprivati sensorialmente, è la prova più evidente di come l'assistenza tecnica alla natura denaturi la natura e segni l'abissale distanza che ormai separa la tecnica dal suo antico radicamento naturale. Ma ormai anche la natura, per effetto dell'incremento demografico esponenziale, ha forse superato il limite biologico, e, senza l'intervento della tecnica, non è più in grado di provvedere alle sue stesse creature. Leggo (…) che la concentrazione della popolazione in città senza natura è la causa prima dell'infertilità umana, che si prevede toccherà, nell'arco di quindici anni, il 30% della popolazione metropolitana, quasi la natura ci proibisse di generare là dove la vita ha perso ogni connotato naturale. Se poi pensiamo che nel 2020 i tre quarti dell'umanità saranno concentrati in quaranta città, con concomitante incremento dei processi di desertificazione, vien da chiedersi se, dopo essere passati dall'uso della terra all'usura della terra, non abbiamo posto le premesse per la fine dell'esperimento umano. E questo anche perché ancora non disponiamo di un'etica che si faccia carico degli enti di natura, perché sia l'etica cristiana sia l'etica laica si sono limitate a regolare i rapporti tra gli uomini, senza assumere alcuna responsabilità nei confronti degli alberi, degli animali, dell'aria, dell'acqua, in una parola di ciò che è naturale, che è poi la condizione per cui gli uomini possono vivere e avere rapporti tra loro. Quando nel Genesi leggiamo che Dio assegna all'uomo il compito di "dominare" la terra, o quando in Kant leggiamo che "l'uomo va trattato sempre come un fine e mai come un mezzo", mi viene da chiedere se questo ostinato e pervicace antropocentrismo, che pensa l'uomo come il fine del creato a cui tutto è subordinato, non sia la causa prima di quell'usura della terra che, come una minaccia, ormai incombe sul nostro futuro. E già se ne vedono inquietanti e devastanti i segni, che naturalmente non preoccupano né gli automobilisti né i bottegai, per i quali il futuro prossimo o lontano non rientra, non dico nella loro etica, ma neppure nella loro visuale.
Se poi dal mondo vegetale passiamo a quello animale, l'estrema degradazione di esseri viventi trasformati in macchine da uova e da carne, sottratti al loro ambiente, sottoposti a illuminazione artificiale, alimentati automaticamente, deprivati sensorialmente, è la prova più evidente di come l'assistenza tecnica alla natura denaturi la natura e segni l'abissale distanza che ormai separa la tecnica dal suo antico radicamento naturale. Ma ormai anche la natura, per effetto dell'incremento demografico esponenziale, ha forse superato il limite biologico, e, senza l'intervento della tecnica, non è più in grado di provvedere alle sue stesse creature. Leggo (…) che la concentrazione della popolazione in città senza natura è la causa prima dell'infertilità umana, che si prevede toccherà, nell'arco di quindici anni, il 30% della popolazione metropolitana, quasi la natura ci proibisse di generare là dove la vita ha perso ogni connotato naturale. Se poi pensiamo che nel 2020 i tre quarti dell'umanità saranno concentrati in quaranta città, con concomitante incremento dei processi di desertificazione, vien da chiedersi se, dopo essere passati dall'uso della terra all'usura della terra, non abbiamo posto le premesse per la fine dell'esperimento umano. E questo anche perché ancora non disponiamo di un'etica che si faccia carico degli enti di natura, perché sia l'etica cristiana sia l'etica laica si sono limitate a regolare i rapporti tra gli uomini, senza assumere alcuna responsabilità nei confronti degli alberi, degli animali, dell'aria, dell'acqua, in una parola di ciò che è naturale, che è poi la condizione per cui gli uomini possono vivere e avere rapporti tra loro. Quando nel Genesi leggiamo che Dio assegna all'uomo il compito di "dominare" la terra, o quando in Kant leggiamo che "l'uomo va trattato sempre come un fine e mai come un mezzo", mi viene da chiedere se questo ostinato e pervicace antropocentrismo, che pensa l'uomo come il fine del creato a cui tutto è subordinato, non sia la causa prima di quell'usura della terra che, come una minaccia, ormai incombe sul nostro futuro. E già se ne vedono inquietanti e devastanti i segni, che naturalmente non preoccupano né gli automobilisti né i bottegai, per i quali il futuro prossimo o lontano non rientra, non dico nella loro etica, ma neppure nella loro visuale.
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