"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

martedì 10 marzo 2020

Lalinguabatte. 96 «Far leva sulla paura è però puro cinismo politico».


Scriveva l’indimenticata Margherita Hack su il “Corriere della Sera” del 17 di maggio dell’anno 2008: «Tutti sappiamo che se venissero a mancare loro, non ce la faremmo. All’ospedale, dove hanno curato mio marito e me se non ci fossero stati gli infermieri polacchi, serbi, ucraini tutto si sarebbe fermato. Per questo è vergognosa questa spinta ad aizzare i peggiori istinti umani». Si era soltanto all’anno 2008, anno d’inizio della “grande crisi” tuttora imperante – “coronavirus” al tempo incolpevole ma distrattamente non segnalato riguardando esso piccoli focolai d’infezione lontani dal mondo ricco e “civilizzato” -, ché ancora non si eran visti i gagliardi governi della “rottamazione” prima e del “cambiamento” poi. Oggigiorno ne raccogliamo ancora gli sparsi cocci. Il giorno successivo all’articolo del “Corriere della Sera” Vittorio Emiliani in “Sbatti i Rom in prima pagina”, pubblicato sull’allora vivente quotidiano “l’Unità”, scriveva: (…). Siamo sempre più un Paese spaesato, senza coordinate, spaventato e come ripiegato su sé stesso. (…). Abbiamo mandato per il mondo, fra le Americhe, l’Australia e il vecchio Continente, circa 30 milioni di connazionali affamati e senza lavoro, da metà Ottocento a tutti gli anni Sessanta del Novecento, e ci siamo totalmente dimenticati di questo enorme esodo forzoso. Ci stiamo dimenticando persino della gigantesca emigrazione da Sud a Nord, dalla montagna alla pianura, alle coste, avvenuta nemmeno mezzo secolo fa. La gente, si sottolinea, ha paura. Far leva sulla paura è però puro cinismo politico. Una classe dirigente che si rispetti deve anche spiegare che la situazione italiana è, più o meno, la stessa degli altri Paesi sviluppati. - Una nazione che chieda al suo governo il solo mantenimento dell’ordine è già schiava in fondo al cuore, schiava del suo benessere e da un momento all’altro può presentarsi l’uomo destinato ad asservirla _. Sono parole, lucide e taglienti, di uno dei più autentici e schietti pensatori e politici liberali, Charles-Alexis Clérel de Tocqueville nel volume “La democrazia in America”, anno 1840. Siamo in Europa. Vediamo di starci, in tutti i sensi. Ragionando e capendo. Migranti di ieri, migranti dell’oggi. Si è migranti per bisogno, per fame. Si è migranti spesso per sfuggire alle guerre, per sfuggire alle tirannie. Non si hanno, in questi ultimi casi, migrazioni bibliche, giusto per utilizzare un termine abusato. Ma stiamo assistendo, in questo ventunesimo secolo, a nuove migrazioni bibliche. Difficile capirne le ragioni? O forse non si vogliono semplicemente cercare le ragioni che inducono a migrare, da ogni angolo di questo pianeta, milioni di uomini e donne e bambini. Cosa cercano questi disperati del ventunesimo secolo? Forse di delinquere in massa? Anche i nostri migranti di un tempo migravano per sfuggire il più delle volte alla più nera delle miserie; migravano con la speranza dei disperati di creare un futuro diverso alle famiglie rimaste nella terra d’origine. E le responsabilità proprie delle nazioni cosiddette progredite, oramai abbastanza scristianizzate? Responsabilità per un impoverimento colonialistico di tante zone della Terra sfruttate per le loro ricerche affannose delle risorse di materie prime; responsabilità per l’ineguale distribuzione delle ricchezze prodotte. Ma anche noi, delle cosiddette terre progredite, possiamo considerarci moderni “migranti” della globalizzazione: nel senso che ci sfugge il significato di questa epocale trasformazione nelle produzioni e nei consumi e di fronte all’incertezza di un futuro senza prospettive certe induriamo il nostro cuore e le nostre menti, pronti a difendere quel che resta, ed è tanto assai, dei nostri beni, delle nostre comodità, e perché non dirlo, delle nostre futilità di sfrenati consumatori. È questo il punto: non siamo più disposti ad “aggiungere un posto a tavola”, non siamo più aperti a vedere nei migranti che si aggirano nelle nostre affollate contrade quegli stessi esseri umani che un tempo, con le valigie di cartone trattenute da un robusto spago, lasciavano con infinita tristezza le proprie case per un futuro da nessuno garantito. E la paura di perdere quel poco, o quel tanto che si possiede, ci spinge a dare ascolto alle peggiori profezie, ci spinge ad essere lusingati dalle promesse di una sicurezza ottenuta con la robusta politica delle cannoniere. Non è una risposta umana a cambiamenti d’epoca e che riguardano il mondo tutto globalizzato!
Mi piace raccogliere tra l’infinità di fogli sparsi amorevolmente conservati, e ri-proporre, uno scritto della carissima amica Rita Maria Militi che ha per titolo “Raccontare l’emigrazione tramite le lettere”; uno scritto di qualche tempo addietro – al tempo della nostra verde età e della nostra appassionata militanza sindacale - che ha il pregio e la forza di ripercorrere e riproporci il nostro passato, non tanto remoto in verità, un passato secolare di popolo di migranti: (…). Ripercorrere alcuni tratti dell’emigrazione calabrese nel mondo significa rivisitare l’intera storia contemporanea della regione. Lo studio delle migrazioni permette, da sempre, di osservare il mondo contemporaneo nelle fasi della sua modernizzazione da un punto di vista privilegiato. Se poi proviamo a farlo attraverso l’interpretazione di lettere scritte da emigrati calabresi, si può contribuire ad aprire una prima strada descrittiva, etnologica e relativamente attendibile riguardo la polisemia del fenomeno migratorio nella regione. Cercare di ridare ai migranti calabresi il proprio vissuto, una storia che non sia solo quella di un numero o di un dato fra molti, permette di ricomporre la loro figura in una dimensione più ampia che possa comprendere la lacerazione fra due modelli differenti, la difficoltà di farli interagire per mantenere la propria identità, pur ammantata di nuovi vestiti. Significa anche uscire, per quanto mi riguarda, da una posizione storiografica che sembra aver preferito, come metro di giudizio, l’immobilità e l’arretratezza della nostra regione. Tale giudizio prospettico ha fatto dimenticare che la Calabria, da sempre è stata una terra mobile, impegnata da secoli a sedimentare nuovi modelli di riferimento. Tali riflessioni ci consentono, inoltre, di considerare il peso che l’emigrazione ha avuto nella nostra regione e quanto essa abbia influenzato il nostro immaginario, la nostra cultura e a come siano stati ridefiniti gli stessi ruoli a partire dalla sfera familiare e sociale. Oggetto delle mie ricerche etnologiche è stata ed è una serie di oltre 100 lettere di emigrati calabresi. In Calabria manca un lavoro organico circa le lettere di emigrazione, tranne se si esclude la raccolta curata da L. M. Lombardi Satriani; l’autore infatti in “Menzogna e verità nella cultura contadina del Sud”, alle pagine 185-233, riporta 34 lettere inviate da emigrati ad un mago calabrese. La passione per la mia terra, ma anche il dolore per il suo continuo declino mi ha spinto a ricercare, a saperne di più su quella parte di conterranei che si è messa in fuga e contemporaneamente ha smosso pure noi che siamo rimasti. Oggi, che la Calabria è più povera senza gli emigrati che ritornano e le loro rimesse, proprio ora bisogna considerare che la nostra regione è un punto di arrivo e non più di partenza e il peso della memoria può aiutarci a comprendere questa trasformazione e, chissà…forse costituire una forza in più. (…). Trascrivo senza nessuna correzione una delle lettere più belle della raccolta. L’autore Vincenzo F. nacque a Taverna (Cz) nel 1892. Il padre era farmacista, ma ebbe molti figli che manteneva con difficoltà. Fu questo, forse, il motivo per cui Vincenzo emigrò all’età di 18 anni. Di lui si racconta che era tanto forte il bisogno di partire, da indurlo a prelevare del denaro dalle casse della Congregazione del SS. Salvatore, della quale era confratello, per potersi pagare il biglietto. Dopo aver raggiunto una solida posizione economica, per ripagare il suo debito e anche per cancellare il suo rimorso, inviava cospicue rimesse di dollari e cercava di garantire la sua presenza ogni qual volta erano organizzati i festeggiamenti del patrono della Congregazione. California 19-12-1969. Mio caro Sebastiano, conlagurio di cuore che la presente possa trovarti sempre bene di salute atte e la tua cara e buona moglie e tutti i cari buoni figli e il caro buono tuo caro genero e nipote io grazie à Dio bene, ma la buona moglie mia e la cara Teresina con lifluenza che è naria in fettata à tutte le parte, qui tutto bene è tempo caldo. Sebastiano caro, una ora fa ò ricevuto la tua desiderata lettera, che con gioia rilevo tutto bene è la S. vergine dei pompei cheviguarda e vida salute e pace e lo stesso aguro della buona madre di tua amata moglie che sta bene, e nelli stesso tempo tiringrazio di cuore della bella fotografia di ricordo in mezzo à voi tutti cari, si della bella S. Festa rimasta in pressa al mio cuore, il Professore F. e Larciprete mianno in formato di tutto, è sono rimasto contentissimo che voi del comitato che avete lavorato sena limito al meno avete avuto la soddisfazione diavere lasciato un caro ricordo, è moneta restata, ma se il S. Dio vuole ci vediamo ancora senza aspettare la S. festa, ti ringrazio di cuore che sei andato alla Tomba della mato fratello Eugenio, eora sto in pace che so tutto sta bene, e il  caro è buono amico Giuseppe S. il Maresciallo in congedo cosi gentile è caro mida sempre notizie, e selovedi dai i miei saluti perloro tutti, come il Prof. F. e il caro Arciprete e suo caro cognato e famiglia tutti i pai sani, e ora di tutto cuore e affetto io e la cara buona moglie mia e icari figli e il caro genero per il Santo Natale che gia evenuto viaguriamo tutte le gioie, e un buono capo danno 1970. Tia chiudo 5 dollari e compri i dolci per amore mio Baci Vostro aff. Vincent Buone S. Feste E se voi venire sarai il benvenuto … (…).

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