"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

lunedì 10 febbraio 2020

Cosedaleggere. 28 «Il razzismo è un'arma, non un atteggiamento».


Tratto da “Il nuovo razzismo abita qui” di Ezio Mauro, pubblicato sul quotidiano “la Repubblica” dell’8 di febbraio 2020: (…). …com'è rinato, e quando, il neo-razzismo italiano che vediamo all'opera ormai quotidianamente, tradotto in gesti, simboli, comportamenti e linguaggio? E com'è possibile che si riproduca in questo Paese dopo la tragedia del fascismo, delle leggi razziali, delle deportazioni, incurante delle lezioni della storia, anzi nuovamente pronto a diventare espressione della politica, ideologia spontanea di una collettività frantumata da egoismi e paure? Vediamo che è un razzismo preda delle sue eterne ossessioni, per la sua pulsione replicante, e tuttavia mutante, pronto anch'esso a trasformarsi per prendere nuove forme, adatte a rappresentare le fratture dei nostri tempi. Scopriamo che come già nel Novecento è un organismo anfibio dell'ecosistema creato dal malessere, dall'impoverimento, soprattutto dal misconoscimento del ceto medio proletarizzato: in parte ne è l'insegna, in parte ne è espressione.
Perché ancora una volta è l'interprete più estremo, radicale, sproporzionato della crisi più lunga del secolo, nata sul terreno economico-finanziario e poi dilagata sul piano politico e culturale, fino a interpellare la democrazia. Poiché quella crisi è vissuta come violenza di espropriazione, spossessamento, esclusione, il razzismo è una risposta violenta di riappropriazione e recinzione del campo, che canalizza la rabbia e la paura all'esterno, individuando una colpa altrui, dunque un responsabile a cui addossare tutti i mali di un mondo che sfugge al controllo. Un colpevole simbolico che condensa e concretizza nel primitivismo rituale del capro espiatorio peccati troppo universali per essere imputati a un soggetto particolare: la globalizzazione, l'immigrazione, la delocalizzazione, la robotizzazione, tutti quei fenomeni che sovrastano la politica tradizionale e i governi nazionali, lasciando il cittadino scoperto, anzi esposto, politicamente nudo e disarmato. Il razzismo è appunto un'arma, non un atteggiamento. Un'affermazione disperata di sé colpendo gli altri dal fondo dello smarrimento, e una vendetta privata brandita in pubblico, consentendo a se stessi di rompere il patto morale e razionale di riconoscimento reciproco tra persone che regola la nostra vita, poi trasformato nel contratto sociale e civile di cittadinanza. Così il razzismo erode ciò che resta del concetto di società, come un sistema di garanzie che gli individui si scambiano implicitamente nella quotidianità, in una responsabilità distinta ma comune. Si rifugia in un "noi", ma in realtà isola l'individuo mentre lo distingue da "loro", e per farlo contrassegna, marchia, bolla, gerarchizza e soprattutto separa: scindendo, dissociando, differenziando. In questo senso il razzismo porta in sé il seme della solitudine, dell'"io" spaurito e rinchiuso nella fortezza del pregiudizio, circondata non più dal paesaggio organizzato di un sodalizio civico, ma dagli accampamenti sospettosi e isolati delle tribù contrapposte. E infatti dopo la lunga stagione della sociologia, la scienza più adatta a studiare questo impasto di sangue, terra, identità, paura e violenza è quella dell'antropologo. (…). Una ricerca sulla discendenza del razzismo e sulle sue cause, ma anche e soprattutto sulle sue nuove incarnazioni nella società globale. Il ceppo originario è sempre nel concetto di purezza, su cui si fonda il malinteso sentimento di superiorità di un gruppo umano sugli altri, e che si accompagna alla paura della contaminazione, all'inquietudine per la rottura dell'integrità, all'angoscia per la dissolvenza della trasmissione generazionale nel nulla identitario. La difesa ossessionata di questa mitica purezza fondativa supera le evidenze della storia, la sconfessione della scienza, la macchia umana delle tragedie basate sull'idea di razza, che anzi persiste e si ri-genera nonostante tutto, forte della sua semplificazione del reale, perfetta per renderla strumento di ogni disagio, di qualsiasi lacerazione. Per preservare occorre escludere, e quindi è necessario separare: e prima ancora, classificare. Il razzismo si concentra qui, in questo scambio dove si rinuncia a conoscere pur di poter classificare, nell'ansia di incasellare gli esseri umani come oggetti, così come si catalogano piante, animali e minerali. Un "apartheid preventivo", che ci allontana e ci distingue senza neppure la fatica di conoscerci. Non è necessario, anzi la conoscenza sorprende, incrina la fissità ideologica, la articola nelle variabili umane e nell'instabilità delle circostanze rischiando di sciogliere lo stereotipo, che conserva la sua potenza interdittiva soltanto se è compatto, intatto e chiuso in sé come una corazza impenetrabile. Il primo livello nella scala dell'intolleranza è quello dell'etnocentrismo, che spinge ognuno a mettere il proprio gruppo al centro di ogni cosa, giudicando inferiore ogni manifestazione di diversità altrui. Una concezione non esclusivamente occidentale, tanto che i termini "apache", "inuit", "bantu" significano "uomini", come se gli altri non lo fossero, o lo fossero meno. Si arriva al razzismo quando queste differenze vengono considerate non come un fenomeno culturale prodotto dall'esperienza di vita ma come un vincolo innato ed eterno generato dalla natura che continuamente lo riproduce, in una specie di condanna perenne. Il fluido vitale e corporeo svolge la funzione simbolica di garanzia: nel XV e XVI secolo, davanti all'avanzata islamica, la "limpieza de sangre" era la formula che regolava l'assegnazione di cariche pubbliche solo a chi era spagnolo e cristiano da generazioni. La biologia fissava nel sangue le differenze culturali, alzando una barriera naturale e invalicabile, perché innata e dunque non modificabile. L'antigiudaismo è il primo pregiudizio antiebraico, per lo stigma del deicidio, che poteva essere cancellato solo dalla conversione. Poi con i pogrom dall'emarginazione per ragioni religiose si passa ad un pregiudizio discriminatorio fondato sulle caratteristiche di un'intera popolazione, e nasce l'antisemitismo. Quindi quel pregiudizio dalla cultura scava nella stessa natura ebraica e lì si annida, prescindendo da tradizioni, atteggiamenti, azioni, gesti o condotte, diventando così totale e definitivo, al punto da prevedere l'esclusione: è il livello del razzismo. (…). …nella Bibbia c'era un'unità del genere umano, basata sulla creazione dell'uomo a immagine di Dio, dunque senza differenze. Le teorie razziste, impegnate a classificare, gerarchizzare e dunque distinguere gli esseri umani "sottraggono l'uomo al suo statuto biblico di imago Dei". Non solo, perché il razzismo non si accontenta di differenziare, ma si assume l'arbitrio di pesare le differenze. Catalogando i vegetali o i minerali nessuno afferma la superiorità delle zucche sui fagioli, o dell'ardesia sul quarzo. Ma nel momento in cui si creano categorie per gli umani e le si chiamano razze, chi classifica fa parte della stessa specie dei classificati, e mentre vive all'interno opera dall'esterno esercitando il potere di gerarchizzare gli altri, e privilegiando il suo gruppo. Col sangue, il secondo criterio distintivo che precipita in fattore discriminante è la pelle, caricando le diversità cromatiche di significati ancestrali, fino a codificare la presunta differenza razziale proprio in base al colore dell'epidermide. Con il sangue e la pelle come primi e definitivi "marcatori" della diversità presunta naturale, l'individuo si riduce a corpo, spogliato di ogni soggettività politica, quindi di qualsiasi diritto universale. Anzi, attraverso quella doppia strettoia, i diritti si riducono, gerarchizzandosi, si subordinano alla valenza della "razza", al rango che nell'inventario le viene assegnato, e rimpiccioliscono quanto più cresce l'azione discriminatoria, fino alla persecuzione. Rimarcare una differenza altrui, e dedurne un vantaggio per sé, è razzialismo. Diventa razzismo quando questa differenza viene usata contro gli altri per trarne profitto. Quando cioè la diversità viene usata politicamente a proprio vantaggio, innescando una condotta discriminatoria che genera esclusione da un lato, potere dall'altro. Fino all'abuso supremo del genocidio, quando non contano più le azioni dei singoli individui perché si vuole annientare l'intero gruppo nazionale, con le vittime destinate all'annientamento - come ricorda Elie Wiesel - "solo perché erano nate ebree". Il nazismo cancella l'individuo nella sua personalità, mentre lo perseguita nella "razza". E il fascismo vara il Manifesto della razza, promette di "discriminare e non perseguitare", per poi precipitare nelle violenze, nel divieto del '38 "agli stranieri ebrei di fissare stabile dimora nel Regno", nell'ordine di espulsione degli ebrei italiani. Fin qui la storia. Ma oggi dovrebbe esserci uno scarto, perché il razzismo si trova davanti un ostacolo apparentemente insormontabile, prodotto dalla scienza. La genetica infatti ha definitivamente accertato che non si può classificare il genere umano sulla base di differenze biologiche rilevanti, smontando la teoria della razza e i preconcetti che ne derivavano, come l'idea che le diversità culturali fossero fondate sulla natura, perché la biologia le determinava. Ma l'idea di razza è rassicurante perché schematizza, banalizzando la realtà e irrigidendola dentro uno schema atavico. È addirittura pre-ideologica perché fonda l'ideologismo, in quanto non giudica le persone per ciò che fanno ma le pre-giudica per ciò che sono, in un riverbero di preconcetti sempre uguale in un universo chiuso, da cui non si può uscire dalla nascita alla morte, perché il razzismo è fissità e nega il divenire. Siamo giunti al momento in cui il concetto di razza può aggirare l'ostacolo scientifico che lo nega, semplicemente ignorandolo. Va oltre, si svincola dalla sua dipendenza biologica, approda alla storia e alla metafisica: la razza è destino, e qui trova il suo nuovo ed eterno fondamento. Così si spiega perché viviamo in un'epoca post-razziale ma non post-razzista. Le vecchie dinamiche di esclusione si perpetuano assumendo forme diverse, (…), la svalorizzazione dell'altro si riproduce inventando nuovi strumenti e "un vento nuovo soffia sulle ceneri del vecchio razzismo, ravvivando braci che sembravano spente". Attorno a noi, come dice Regis Debray, "gli oggetti si mondializzano, i soggetti si tribalizzano". Ecco allora che la nozione di "popolo" acquista una venatura etnico-tribale, la frattura di classe si ripropone in chiave etno-culturale, lo Stato di diritto viene riletto in chiave etnica, nazionalismo e sovranismo creano un'ideologia delle origini, la terra prevale sulla storia, l'identità del luogo conta più della soggettività delle persone. Il peccato d'origine è la nuova clausola d'esclusione. La continuità del razzismo è garantita da questo esatto processo, a dispetto della scienza, della genetica, della storia, della morale, della religione. Noi, e non altro, siamo il laboratorio perenne del razzismo, reinventato e ritualizzato continuamente. "Se la razza vive oggi, può accadere solo perché continuiamo a crearla e ricrearla nella nostra vita sociale". E nella nostra mente.

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