"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

mercoledì 5 febbraio 2020

Letturedeigiornipassati. 84 «Einstein: - Perché la guerra? -».


Tratto da “Perché la guerra?” di Umberto Galimberti, pubblicato sul settimanale “D” del quotidiano “la Repubblica” del 5 di febbraio dell’anno 2011: Scrive Platone: «Solo i morti hanno visto la fine della guerra». (…). …la guerra e il diniego.
Cominciamo dal diniego che, come scrive Stanley Cohen, professore di sociologia a Oxford, ‘è un modo per mantenere segreta a noi stessi la verità che non abbiamo il coraggio di affrontare’. Già Sigmund Freud aveva segnalato con il termine Verleugnung l'atteggiamento di chi dice che non esiste ciò che invece sa che esiste. Qui il linguaggio è di grande aiuto come quando, nelle operazioni di guerra, una strage si chiama danno collaterale, una deportazione trasferimento di popolazione, una guerra missione di pace. Con questo tipo di linguaggio e di denominazione non scatta dentro di noi alcuna indignazione che potrebbe modificare il corso delle cose, e se qualche sospetto apre una piccola breccia nella nostra coscienza, per cui fatichiamo a chiamare una strage danno collaterale, passiamo al secondo livello di diniego che consiste nel negare che questo fatto interpelli proprio noi. È il caso dei bambini-soldato del Darfur e del Sudan che ubbidiscono a comandi terribili impartiti dai loro capi, e poi condannati a morte quando diventano prigionieri della parte avversa. Sono fatti che ci interpellano? E ancora: la fame nel mondo? La disperazione degli immigrati che muoiono nell'attraversare i nostri mari, sono cose che ci riguardano? Oppure, per non toccare con mano la nostra impotenza o il nostro sommesso senso di colpa, finiamo per considerare queste tragedie umane alla stregua delle catastrofi naturali? E ora veniamo alla guerra, sempre nobile se combattuta per la patria, o per sublimi ideali, o per difendere la nostra ricchezza, che naturalmente è tale solo se riusciamo a conservarla, o addirittura santa se avviene in nome di Dio, invocato, come nella guerra in Iraq, sia dai mussulmani sia dai cristiani, entrambi dimentichi che si trattava dello stesso Dio (di Abramo di Isacco e di Giacobbe). Alla domanda rivoltagli da Einstein: - Perché la guerra? -, Freud rispose che di tutti i caratteri psicologici della civiltà, due sembrano i più importanti: il rafforzamento dell'intelletto che comincia a dominare la vita pulsionale, e l'interiorizzazione dell'aggressività, con tutti i vantaggi e i pericoli che da ciò conseguono. Orbene, poiché la guerra contraddice nel modo più stridente a tutto l'atteggiamento psichico che ci è imposto dal processo di incivilimento, dobbiamo necessariamente ribellarci contro di essa: semplicemente non la sopportiamo più. Non si tratta soltanto di un rifiuto intellettuale e affettivo, per noi pacifisti si tratta di un'intolleranza costituzionale, di un'idiosincrasia portata, per così dire, al massimo livello. E mi sembra in effetti che le degradazioni estetiche della guerra concorrano a determinare il nostro rifiuto in misura quasi pari alle sue atrocità. [...] Nel frattempo possiamo dire una cosa: tutto ciò che favorisce l'incivilimento lavora anche contro la guerra".

1 commento:

  1. Carissimo Aldo, questo post, tratto da uno scritto del Professore Galimberti, come sempre accade, mi ha indotto a riflettere profondamente . La società moderna esalta le capacità dell'"io" a discapito del "noi". La nostra è una società orientata al consumismo, al narcisismo estremo e non si occupa di temi quali condivisione, altruismo, ma rinforza comportamenti orientati alla sopraffazione dell'altro, alla competizione, all'avere, all'apparire, piuttosto che al sentire e all'essere. Mi è tornata alla mente una recensione letta tempo fa, relativa a un libro di J. Rifkin "La civiltà dell'empatia", dove si sostiene che l'empatia è l'unica soluzione praticabile per salvare un mondo che cerca di risolvere la propria crisi d'identità, prendendo in prestito strumenti ormai antistorici e inutili. L'empatia deve diventare il fondamento di una coscienza reale di questo mondo sempre più globalizzato. Bisognerà giungere al recupero della socialità empatica. "Riusciremo a raggiungere un'empatia globale in tempo utile per evitare il crollo della civiltà e salvare la terra?"(La civiltà dell'empatia. J. Rifkin.) Negli ultimi anni l'empatia è stata promossa a tutti i livelli, da quello sociale, a quello politico, artistico, culturale ed economico. Riuscire ad immedesimarsi nella gioia o nel dolore altrui sembra essere una qualità preziosa da coltivare, partendo dal presupposto che un mondo di persone empatiche sarebbe un mondo più giusto. Nel 2006 Barack Obama, parlando agli studenti della Northwestern University, suggeriva di riflettere e di porre l'attenzione non solo sulle mancanze politiche ed amministrative del paese, ma anche sul suo deficit di empatia, cioè quella capacità di "mettersi nei panni degli altri" e di vedere il mondo attraverso i loro occhi. Grazie e buona continuazione. Agnese A.

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