“E se cambiassimo punto di vista?” è il titolo di una riflessione del
professor Umberto Galimberti pubblicata su di un supplemento del quotidiano “la
Repubblica” (luglio 2009?). La riporto di seguito nella sua interezza,
lasciando, all’occasionale smarrito lettore della rete, di farne un buon uso
speculativo per trarne una ancor pur “semplice” - ma non semplicistica - indicazione
di vita. A parer mio, affinché si possa o si debba cambiare il cosiddetto “punto di vista”, necessiterebbe l’insorgere
di sconvolgimenti tali e per i quali tutto ciò che si è vissuto venisse a
perdere il suo significato, od ancor più, il suo più intrinseco valore.
Nelle società-melassa del terzo millennio, nelle società dalla “vita liquida”, secondo la formula letteraria andata di moda, società dominate dalla impietosità delle immagini, impietosità delle immagini poiché riferentisi il più delle volte a fatti e sconvolgimenti lontani, che investono i cosiddetti “altri” e non il cosiddetto “prossimo tuo”, nelle società del terzo millennio, dicevo, anche gli sconvolgimenti più tragici hanno il tempo di esistere nell’immaginario collettivo, ed ancor più nelle coscienze dei singoli, sino al dissolversi delle immagini che quegli sconvolgimenti hanno immortalato, immortalato per mezzo dei freddi, anodini, elettronici, strumenti di comunicazione di massa. Spento lo sfarfallio di quei mezzi, smorzato il loro gracchiare, non rimane nella coscienza collettiva e dei singoli neanche un’emozione che sia. E nella cacofonia delle voci incalzanti del terzo millennio, nel continuo profferir parole senza senso alcuno, in questa epoca di disorientamento planetario, disorientamento che dovrebbe essere foriero di chissà quali futuri o più che prossimi sconvolgimenti - al pari del disorientamento indotto dalle tenebrose previsioni dei tempi passati, previsioni spaventevoli, quelle, per le quali si impetravano, con riti salmodianti, le preghiere indirizzate al cielo plumbeo ed indifferente di quei tempi oscuri - l’ascolto di una voce di certo “non dal sen fuggita”, ma “pensata” nell’intrinseco suo valore, l’ascolto di quella voce rimane strumento per indurre a quell’utile esercizio della riflessione che l’epoca nostra bandisce come neghittoso esercizio, laddove esso sarebbe invece l’insostituibile compagno di ventura nell’attraversamento del pelago, sempre più turbolento, del vivere quotidiano. Ha scritto Umberto Galimberti: Scrive Platone nelle Leggi (903 c) - Anche quel piccolo frammento che tu rappresenti, o uomo meschino, ha sempre il suo intimo rapporto con il cosmo e un orientamento a esso. E, anche se tu non ti accorgi, non per te infatti questa vita si svolge, ma tu piuttosto vieni generato per la vita cosmica -. (…). …è il senso dell'uomo sulla Terra, al di là di tutte le rappresentazioni religiose che fanno dell'uomo il centro dell'universo. Tutti infatti conoscono quella frase orgogliosa di Pascal (Pensiero 264): - L'uomo non è che una canna, la più fragile di tutta la natura, ma è una canna pensante. E anche quando l'universo lo schiacciasse, l'uomo sarebbe sempre più nobile di ciò che lo uccide, dal momento che egli sa di morire, mentre l'universo non sa nulla -. Nessuno, invece, si prende mai cura di ricordare quell'altra considerazione abbastanza angosciata sempre di Pascal (Pensiero 205): - Gettato nell'infinita immensità degli spazi che ignoro, e che non mi conoscono, provo spavento -. È lo spavento, in una visione cosmica, dell'insignificanza dell'uomo sulla Terra, a cui Platone in parte allude nella frase che abbiamo citato in apertura e su cui torna Nietzsche in Verità e menzogna in senso extramorale: - In un angolo remoto dell'universo scintillante e diffuso attraverso infiniti sistemi solari c'era una volta un astro, su cui animali intelligenti scoprirono la conoscenza. Fu il minuto più tracotante e menzognero della storia del mondo: ma tutto ciò durò soltanto un minuto. Dopo pochi respiri della natura, la stella si irrigidì e gli animali intelligenti dovettero morire. Qualcuno potrebbe inventare una favola di questo genere, ma non riuscirebbe tuttavia a illustrare sufficientemente quanto misero, spettrale, fugace, privo di scopo e arbitrario sia il comportamento dell'intelletto umano entro la natura. Vi furono eternità in cui esso non esisteva; quando per lui tutto sarà nuovamente finito, non sarà avvenuto nulla di notevole. Per quell'intelletto, difatti, non esiste una missione ulteriore che conduca al di là della vita umana. Esso piuttosto è umano, e soltanto chi lo possiede e lo produce può considerarlo tanto pateticamente, come se i cardini del mondo ruotassero su di lui -. Se, non dico in ogni ora del giorno, ma almeno talvolta adottassimo questo punto di vista che relativizza il significato e l'importanza della vicenda umana nell'economia dell'universo, forse tanta violenza, tanta ansia di potere, tanta sopraffazione, che da sempre caratterizzano la storia dell'uomo, non penso che sparirebbero, ma certamente troverebbero una loro misura, e soprattutto si scoprirebbe forse l'amore, che è poi l'unica cosa che giustifica l'esistenza umana nel breve attimo in cui le è dato di vivere. Questo pensiero ci sfiora in occasione della morte di quelle persone, a noi vicine, che davano senso alla nostra vita. Custodiamo questo pensiero.
Nelle società-melassa del terzo millennio, nelle società dalla “vita liquida”, secondo la formula letteraria andata di moda, società dominate dalla impietosità delle immagini, impietosità delle immagini poiché riferentisi il più delle volte a fatti e sconvolgimenti lontani, che investono i cosiddetti “altri” e non il cosiddetto “prossimo tuo”, nelle società del terzo millennio, dicevo, anche gli sconvolgimenti più tragici hanno il tempo di esistere nell’immaginario collettivo, ed ancor più nelle coscienze dei singoli, sino al dissolversi delle immagini che quegli sconvolgimenti hanno immortalato, immortalato per mezzo dei freddi, anodini, elettronici, strumenti di comunicazione di massa. Spento lo sfarfallio di quei mezzi, smorzato il loro gracchiare, non rimane nella coscienza collettiva e dei singoli neanche un’emozione che sia. E nella cacofonia delle voci incalzanti del terzo millennio, nel continuo profferir parole senza senso alcuno, in questa epoca di disorientamento planetario, disorientamento che dovrebbe essere foriero di chissà quali futuri o più che prossimi sconvolgimenti - al pari del disorientamento indotto dalle tenebrose previsioni dei tempi passati, previsioni spaventevoli, quelle, per le quali si impetravano, con riti salmodianti, le preghiere indirizzate al cielo plumbeo ed indifferente di quei tempi oscuri - l’ascolto di una voce di certo “non dal sen fuggita”, ma “pensata” nell’intrinseco suo valore, l’ascolto di quella voce rimane strumento per indurre a quell’utile esercizio della riflessione che l’epoca nostra bandisce come neghittoso esercizio, laddove esso sarebbe invece l’insostituibile compagno di ventura nell’attraversamento del pelago, sempre più turbolento, del vivere quotidiano. Ha scritto Umberto Galimberti: Scrive Platone nelle Leggi (903 c) - Anche quel piccolo frammento che tu rappresenti, o uomo meschino, ha sempre il suo intimo rapporto con il cosmo e un orientamento a esso. E, anche se tu non ti accorgi, non per te infatti questa vita si svolge, ma tu piuttosto vieni generato per la vita cosmica -. (…). …è il senso dell'uomo sulla Terra, al di là di tutte le rappresentazioni religiose che fanno dell'uomo il centro dell'universo. Tutti infatti conoscono quella frase orgogliosa di Pascal (Pensiero 264): - L'uomo non è che una canna, la più fragile di tutta la natura, ma è una canna pensante. E anche quando l'universo lo schiacciasse, l'uomo sarebbe sempre più nobile di ciò che lo uccide, dal momento che egli sa di morire, mentre l'universo non sa nulla -. Nessuno, invece, si prende mai cura di ricordare quell'altra considerazione abbastanza angosciata sempre di Pascal (Pensiero 205): - Gettato nell'infinita immensità degli spazi che ignoro, e che non mi conoscono, provo spavento -. È lo spavento, in una visione cosmica, dell'insignificanza dell'uomo sulla Terra, a cui Platone in parte allude nella frase che abbiamo citato in apertura e su cui torna Nietzsche in Verità e menzogna in senso extramorale: - In un angolo remoto dell'universo scintillante e diffuso attraverso infiniti sistemi solari c'era una volta un astro, su cui animali intelligenti scoprirono la conoscenza. Fu il minuto più tracotante e menzognero della storia del mondo: ma tutto ciò durò soltanto un minuto. Dopo pochi respiri della natura, la stella si irrigidì e gli animali intelligenti dovettero morire. Qualcuno potrebbe inventare una favola di questo genere, ma non riuscirebbe tuttavia a illustrare sufficientemente quanto misero, spettrale, fugace, privo di scopo e arbitrario sia il comportamento dell'intelletto umano entro la natura. Vi furono eternità in cui esso non esisteva; quando per lui tutto sarà nuovamente finito, non sarà avvenuto nulla di notevole. Per quell'intelletto, difatti, non esiste una missione ulteriore che conduca al di là della vita umana. Esso piuttosto è umano, e soltanto chi lo possiede e lo produce può considerarlo tanto pateticamente, come se i cardini del mondo ruotassero su di lui -. Se, non dico in ogni ora del giorno, ma almeno talvolta adottassimo questo punto di vista che relativizza il significato e l'importanza della vicenda umana nell'economia dell'universo, forse tanta violenza, tanta ansia di potere, tanta sopraffazione, che da sempre caratterizzano la storia dell'uomo, non penso che sparirebbero, ma certamente troverebbero una loro misura, e soprattutto si scoprirebbe forse l'amore, che è poi l'unica cosa che giustifica l'esistenza umana nel breve attimo in cui le è dato di vivere. Questo pensiero ci sfiora in occasione della morte di quelle persone, a noi vicine, che davano senso alla nostra vita. Custodiamo questo pensiero.
Carissimo Aldo,anche oggi, la lettura di questo meraviglioso post mi ha indotto "a quell'utile esercizio della riflessione che l'epoca nostra bandisce come neghittoso esercizio, laddove esso sarebbe invece l'insostituibile compagno di ventura nell'attraversamento del pelago, sempre più turbolento, del vivere quotidiano". Credo che lo scopo della vita sia essere felici, quindi è necessario capire che cosa determina il grado più elevato di felicità. Ritengo che la felicità sia conseguenza della pace interiore. Noi, come tutti gli esseri umani, siamo destinati ad affrontare dei problemi. Se perdiamo la speranza e ci lasciamo sopraffare dallo sconforto, la nostra capacità di risolvere i problemi diminuisce. Bisogna diventare consapevoli del fatto che non siamo semplicemente creature materiali e sarebbe sbagliato riporre tutte le nostre speranze di felicità unicamente nello sviluppo materiale. Dobbiamo scoprire, prima di ogni altra cosa, chi siamo, la nostra vera natura, in modo da capire di che cosa abbiamo effettivamente bisogno. Il Professor Galimberti afferma:"...e soprattutto si scoprirebbe forse l'amore, che è poi l'unica cosa che giustifica l'esistenza umana nel breve attimo in cui le è dato di vivere". Sono profondamente convinta che nessun essere umano sia nato libero dal bisogno d'amore. Nessuna cosa materiale, per quanto di valore, può farci sentire amati, perché la nostra identità più profonda e la nostra vera essenza sono nella nostra vera natura, quella interiore. Bisogna abituare la nostra mente a un senso di altruismo universale e sviluppare un sentimento di responsabilità nei confronti degli altri, desiderando di aiutarli attivamente a superare i loro problemi. Credo che a qualsiasi livello della società (familiare, nazionale, internazionale) la chiave per un mondo più felice e prospero stia nella capacità di amare. Ancora grazie e buona continuazione. Agnese A.
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