"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

giovedì 27 febbraio 2020

Dell’essere. 24 «Freud dice che nessuno di noi crede fino in fondo alla propria morte».


Lo scrivo ai tempi del “coronavirus” che pur hanno del “miracoloso”, pur non credendo ai miracoli che siano. Ma accade ai tempi del “coronavirus” che la mia immersione totale nel frastuono assordante della comunicazione di massa, comunicazione di massa con le sue incongruenze, le sue banalità e le sue plateali bugie, quella mia immersione nella cacofonia della comunicazione di massa almeno una cosa è riuscita a determinare: sembrerà un’assurdità totale la “cosa” che vado ad affermare, ma lo stordimento dei media ha prodotto in me un effetto quasi liberatorio e consolatorio nei confronti della morte.
Non ne ho più paura, se pur ne abbia avuta in precedenza. Almeno penso di non averne poi tanta paura rispetto a ben altre moderne paure nel frattempo concretizzatesi. E questa affermazione non nasce da un credo religioso che non posseggo. Una speranza nell’aldilà come premio per il mio penare terreno mi tornerebbe oltremodo comodo e confortante. Ma non posseggo tutto ciò. Non che io non la aspettassi – la morte - al pari di tutti gli esseri viventi, e dico viventi e non solo degli umani. Certo, io l’attendo con la consapevolezza della mia inevitabile, come scritta negli astri, “uscita dal tempo”, che è la sola valenza di umanità possibile che ci appartenga, consapevolezza che per l’appunto ci rende diversi dal resto degli esseri biologicamente viventi. L’attendo, “la sorella morte”, come si può attendere un ospite, se non gradito, almeno cortesemente – o forzatamente - accettato, facendo come suol dirsi “buon viso a cattivo gioco”. Del gioco della vita. Ma nel frastuono assordante dei media la morte mi appare oggigiorno la liberazione dal male del vivere, quando questo male del vivere si presenta nelle forme estreme e disumane che i media, con un non tanto sottaciuto benevolo accoglimento, ci propinano con spietata insistenza e violenza tanto da avere nel tempo in me, ma penso nel resto dei passivi spettatori, concorso a sviluppare un atteggiamento di autodifesa che non esagero a definire di “mitridatizzazione” inconsapevole ma benefica nei confronti della morte. Ché del resto è il solo, sicuro sbocco che l’assordante, continua, tempesta mediatica possa sortire negli incolpevoli suoi umani destinatari. Ecco perché posso spingermi ad affermare che non temo la morte. Poiché al confronto delle violenze perpetrate senza umanità ed in nome della vita ai poveri e sfortunati esseri un tempo umani ma ridotti alla sola esistenza biologica, che conducono una parvenza di vita senza la consapevolezza umana “dell’essere nel tempo”, tirare le cuoia rappresenta una liberazione, un premio quasi dal cielo benevolmente concesso. Mi chiedo cosa oggigiorno possa esserci di più terribile ed inquietante che pensare alla prospettiva di divenire prigionieri dei cosiddetti difensori della vita in combutta con i danarosi, sussiegosi cerusici del tempo.  Un’idea agghiacciante. Una prospettiva di “non vita” da indurre ad invocare la “sorella morte” come forza liberatrice, consolatoria e provvidenziale assai. Tanto sono divenute angoscianti le altre moderne paure per l’unico essere terreno vivente consapevole del suo “stare nel tempo”, consapevolezza che è poi la cifra unica di una vita compiutamente umana. Approfondendo magistralmente il tema e scrivendovi con la “spiritualità” laica Sua in termini generali e valendosi della Sua grande competenza Umberto Galimberti ci ha consegnato una Sua riflessione apparsa su di un supplemento del quotidiano “la Repubblica” del 4 di aprile dell’anno 2009 col titolo “Noi e la morte”, che di seguito trascrivo nella sua interezza: Scrive Jacques-Bénigne Bossuet: - È una singolare debolezza dello spirito umano il fatto che la morte non gli sia mai presente, per quanto gli si metta in mostra da ogni parte e in mille modi. I mortali si preoccupano di seppellire il pensiero della morte con la stessa cura con cui sotterrano i morti -. In un saggio del 1915 dedicato a una riflessione sulla morte Freud dice che - nessuno di noi crede fino in fondo alla propria morte. Anche quando ci raffiguriamo come andrà dopo la morte, chi ci piangerà ecc., possiamo notare che noi siamo ancora lì in qualità di spettatori -. A riprova, Freud cita la dichiarazione di un suo paziente che, riferendosi alla propria moglie, afferma: - Se uno di noi due muore, io mi trasferisco a Parigi -. Dello stesso parere è Heidegger là dove scrive che: - Ogni volta che diciamo 'si muore' diffondiamo la persuasione che la morte riguarda il Si anonimo, sotteso al quale c'è la convinzione 'non sono io'. Infatti il Si anonimo è nessuno -. Dunque la nostra psiche non sa pensare la propria morte. Sappiamo che si muore, ma non riusciamo a interiorizzare questo pensiero e a farlo nostro come qualcosa che riguarda proprio noi. Anche in presenza di gravi malattie, il cui esito infausto spesso è noto allo stesso paziente, una sorta di pensieri ingannevoli e una danza di cieche speranze distraggono la mente, che, pur sapendo, è incapace di iscrivere la propria morte nell'ambito del proprio vissuto. Anche l'angoscia di morte, spesso dipinta sul volto di chi è nelle prossimità di questo ultimo passo, non riguarda propriamente la morte, ma la perdita degli amori di cui si è nutrita la sua vita. Questa è l'angoscia di morte. Il suo tema è l'amore. Ma proprio perché la morte è così incatenata, intrecciata e inanellata all'amore, questo non si estingue con la morte della persona amata. E non il ricordo, ma la persistenza di questo amore è la vera eternità concessa agli uomini, ben segnalata da Sartre che in proposito scrive: - Essendo morta la sua vita, solo la memoria dell'altro può impedire che si avvizzisca tagliando tutti i suoi ormeggi col presente.
La caratteristica di una vita morta è di essere una vita di cui l'altro diventa il guardiano -. Il contenuto profondo di questa memoria si chiama amore, che permane anche in assenza dell'altro perché, come non cessa di ripetere Emanuele Severino: - La presenza è sempre, e non coincide con l'apparire e lo sparire -. Quando non parliamo più con chi ci ha lasciato per non incontrare il suo silenzio, rischiamo di far tacere quello che noi siamo diventati grazie all'amore che abbiamo dato e ricevuto dall'altro. E così, separandoci da quella parte di noi che gli corrispondeva, noi lo facciamo semplicemente ri-morire. In questo modo, come scrive Paul Ricoeur, - anticipiamo la nostra futura morte come la possibile non risposta a tutte le parole di tutti gli uomini -, diventando così infedeli a quella caratteristica tipica della condizione umana, per cui io non sono solo io, ma anche un altro per gli altri. Qui si annida segretamente un'infedeltà tragica che fa impallidire tutti i futili tradimenti della vita. Non è la morte, infatti, a estinguere l'amore, ma la nostra rimozione che vuol dimenticare tutto ciò che quell'amore in noi ha generato, affidandosi a quel malfamato luogo comune, secondo il quale il tempo porta rimedio. Nel tempo c'è solo infedeltà. Solo nell'amore c'è eternità. E non dobbiamo dare al tempo il diritto di seppellire l'amore che ancora ci nutre. Pur sapendo, come scriveva Pirandello, che - i vivi credono di piangere i loro morti e invece piangono una loro morte, una loro realtà che non è più nel sentimento di quelli che se ne sono andati -. Questo è il dolore. Ma si è mai visto un amore che non si nutre anche di dolore?

2 commenti:

  1. Carissimo Aldo, sono certa che "l'uscita dal tempo" non rappresenta la nostra fine definitiva. Noi tutti, nel corso di questa nostra vita terrena, numerose volte siamo morti e poi rinati... È mi piace pensare che continueremo ancora a farlo, anche se in maniera diversa, quando questa nostra vita contingente arriverà al capolinea. Appena mi è stato possibile, mi sono soffermata a riflettere su alcuni punti di questo meraviglioso e importantissimo post:"La presenza è sempre e non coincide, infatti, con l'apparire e lo sparire". "Non è la morte a estinguere l'amore, ma la nostra rimozione che vuol dimenticare tutto ciò che quell'amore in noi ha generato...". "Solo nell'amore c'è eternità". L'amore eterno esiste, è quell'amore che supera le barriere dello spazio, del tempo e anche dell'assenza fisica. Ma l'amore, per essere eterno, deve essere frutto di un lungo cammino, un amore che nasce da una profonda consapevolezza, dalla scelta di impegnarsi, avendo come obiettivo il benessere di un'altra persona, un amore incondizionato. Grazie per la condivisione e buon lavoro. Agnese A.

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  2. Salve, grazie per il post, per caso ha anche una copia dell'articolo originale di Galimberti? SOno un'insegnante e ne avrei bisogno per motivi didattici. Grazie ancora

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