Sembra che si voglia perfidamente infilare il dito
nella piaga, ora che il “coronavirus” ha fatto la sua parte.
Ma tornare a parlare della Cina è importante non tanto poiché essa è divenuta
nel tempo l’opificio del mondo intero – ed ecco lo sdilinquirsi dei tanti in
questi giorni per le mancate provvigioni industriali attese ma non giunte da
quel mondo - quanto per il contributo che essa ha dato affinché una economia ed
una finanza prendessero le caratteristiche che contraddistinguono questi anni “ruggenti”
(“ruggenti”, ma per chi?).
Ha scritto l’indimenticabile Andrea Camilleri: Forse, senza saperlo, stiamo combattendo la prima guerra globale degli anni duemila. Una guerra che non usa più armi, che non bombarda né fa esplodere atomiche, che non provoca morte ma produce fame, disoccupazione, scontro sociale, impoverimento, insomma riduce sul lastrico i perdenti. Il pensiero l’ho tratto dal volumetto “Segnali di fumo” recentemente ri-editato da UTET (luglio 2019) ma che ha avuto una prima edizione per la “De Agostini Libri” nel mese di maggio dell’anno 2014. Ed i perdenti chi sono? Ma certamente anche quegli operai che la Cina reprime. Nulla è rimasto di quello che è stato “l’impero celeste”. Nulla è rimasto della Cina della “rivoluzione culturale”. Il capitale, di qualsivoglia colore sia, produce gli stessi effetti in ogni angolo del globo terracqueo. La logica è la stessa. In quale direzione potranno guardare per una “speranza nuova” i diseredati della Terra? Tratto da “Cina. Debito alle stelle sprechi e repressione Il gigante economico si è ammalato” di Moisés Naím, pubblicato sul quotidiano “la Repubblica” del 28 di febbraio dell’anno 2016: (…). Nel 1981, quando furono avviate le riforme economiche, l’85 per cento della popolazione viveva in condizioni di miseria, mentre adesso i poveri non superano il 7 per cento. Il progresso della Cina si è irradiato anche al resto del mondo: il Celeste Impero è diventato il principale compratore di materie prime, uno dei grandi esportatori di prodotti lavorati, il maggiore acquirente di obbligazioni occidentali e un importante investitore, soprattutto nei paesi meno sviluppati. Oggi si può applicare alla Cina quello che tante volte è stato detto degli Stati Uniti: se Pechino starnutisce, il mondo si prende il raffreddore. E di questi tempi l’economia cinese non si limita a starnutire: è malata a tutti gli effetti. I sintomi. Sono tanti. Il più evidente è che nel 2015 l’economia è cresciuta ai ritmi più bassi da 25 anni a questa parte. E sono 4 anni, ormai, che la crescita è regolarmente inferiore all’anno precedente. Poi è arrivato il tracollo della Borsa e una caotica svalutazione della moneta, seguita da un’imponente fuga di capitali: solo a gennaio sono partiti verso altri lidi 110 miliardi di dollari, mentre in tutto il 2015 il flusso netto di capitali verso l’estero è stato di 637 miliardi, una somma senza precedenti e un grave indicatore di sfiducia. Una popolazione che mediamente risparmia il 30 per cento del suo reddito vede calare il valore della moneta e preferisce mettere al sicuro i suoi risparmi fuori dal paese. Ma il sintomo più preoccupante di tutti è il debito immenso che si sta accumulando: nel 2007 era a una volta e mezza le dimensioni dell’intera economia, ora si è triplicato. L’indebitamento principale si registra nelle amministrazioni locali, che hanno finanziato la costruzione di un’enorme quantità di opere infrastrutturali ingiustificabili e rimaste incompiute. Ora il governo centrale è obbligato ad assorbire queste perdite, e la conseguenza sarà un aumento del deficit di bilancio. Che cosa è successo? Com’è stato possibile che le cose si siano complicate a tal punto? La risposta si riassume in due parole: boom e crisi. Quando un’economia cresce ad alta velocità per tre decenni, crescono anche gli sperperi e gli sprechi, i cattivi investimenti, la corruzione e tanti errori che il boom consente di nascondere o ignorare. D’altro lato, la crisi mondiale che è scoppiata nel 2008 ha indotto le autorità cinesi a lanciare il più grande piano di stimoli economici della storia. L’obiettivo era impedire che Stati Uniti ed Europa contagiassero la sua economia: la crescita sostenuta andava mantenuta a qualsiasi costo. E così è stato. Ma questo sforzo ha alimentato le distorsioni che oggi la affliggono. Che succederà?
La Cina deve abbandonare un’economia basata sugli investimenti (soprattutto in infrastrutture) e le esportazioni di prodotti lavorati e passare a un modello fondato sui consumi interni e la crescita dei servizi. Per riuscirci, è necessario che il Governo porti avanti riforme che nell’immediato sono impopolari, ma che instraderebbero il paese su una traiettoria sostenibile. Purtroppo, non sembra che tutto questo succederà a breve. Il primo ministro, Li Keqiang, ha appena lanciato un’intensa campagna «informativa» finalizzata a spiegare che l’economia va bene e che i problemi sono soprattutto di «comunicazione». Ma la censura e la propaganda non alleviano le difficoltà, al contrario: il più delle volte le aggravano. Quindi, la Cina si incarterà? Sì. Si è già incartata. E si incarterà ancora di più. Il patto sociale fra il Partito comunista e la popolazione finora era che la gente, in cambio di lavoro e salari migliori, accettava passivamente la mancanza di libertà. Non sarà facile tenere in piedi in questo patto. Ci sono già una serie di micro-eventi significativi. Il partito comunista reprime gli operai. Nel 2015 ci sono stati 2.774 scioperi, il doppio del 2014. L’aumento della conflittualità ha spinto il governo a esercitare una forte repressione contro i leader dei lavoratori. Gli osservatori internazionali segnalano che la repressione contro i sindacati in Cina è aumentata (anche se attacchi e pressioni da parte del governo sono sempre stati la norma: verifiche fiscali, violenza mafiosa, vessazioni da parte della polizia ecc.). Un articolo sul Washington Post conclude così: «È un crudele paradosso che il Partito comunista reprima i lavoratori». Imprenditori che spariscono. Guo Guangchang viene chiamato il Warren Buffet cinese. È un miliardario che controlla la più grande impresa privata cinese, la Fosun. A dicembre, Guo è scomparso. La versione ufficiale era che stava «collaborando a certe indagini delle autorità». Qualche giorno dopo, e senza ulteriori spiegazioni, è ricomparso per presiedere l’assemblea degli azionisti della Fosun. A Yang Zezhu, uno dei personaggi più in vista nel settore finanziario cinese, è andata molto peggio: a gennaio si è buttato da una finestra lasciando un bigliettino in cui spiegava di averlo fatto perché il Partito stava indagando su di lui per «ragioni personali ». Sono solo due esempi di un numero sorprendentemente alto di imprenditori di primo piano che sono spariti, hanno improvvisamente rinunciato, sono emigrati o sono stati arrestati. La lista include il fior fiore dell’imprenditoria cinese. È risaputo che una delle priorità del presidente Xi Jinping è la lotta contro la corruzione. E la sparizione e detenzione di imprenditori è una manifestazione di questa crociata. Ma è anche il segnale che è usata come strumento per eliminare possibili rivali. Anche i libri spariscono… Quelli contabili, innanzitutto. Poco tempo fa, la polizia ha dovuto usare due retroescavatori per tirar fuori da un buco profondissimo 1.200 registri che contenevano la contabilità di una delle più grandi truffe cinesi: la finanziaria Ezubao prometteva il 15 per cento annuo di rendimento, novecentomila persone si sono fidate e hanno perso 7,6 miliardi di dollari. Poi ci sono editori, librai e scrittori. Come Lee Bo, 65 anni, cittadino britannico con residenza a Hong Kong, che è sparito a dicembre. Sua moglie ha denunciato alla polizia che era stato sequestrato e portato a Pechino. Qualche giorno dopo, ha ritirato la denuncia e ha spiegato che suo marito era andato a Pechino di sua volontà per aiutare la polizia in un’indagine. Di altre quattro persone legate alla casa editrice non si hanno notizie dallo scorso anno. Piccolo particolare: la casa editrice pubblica libri critici nei confronti della dirigenza cinese. Un altro editore, Yiu Man, di 73 anni, stava preparando la pubblicazione di un libro intitolato “Il padrino Xi Jinping”, scritto dal dissidente Yu Jie. Ma non è riuscito a pubblicarlo, perché è stato condannato a 10 anni di carcere per aver portato alcune bottiglie di vernice industriale da Hong Kong a Shenzhen senza pagare le tariffe doganali… Spariscono anche le parole e i numeri. Il professore Francis Fukuyama ha appena individuato le parole che sono sparite dall’edizione cinese del suo ultimo libro. Per citarne alcune: «Mao», «le proteste di Tienanmen», «la grande carestia», «corruzione» e «Stato di diritto». C’è anche una lunghissima lista di parole che non compaiono nei motori di ricerca di Internet o si cancellano se qualcuno le scrive sui social network. Sono spariti anche dati statistici indispensabili per valutare la situazione economica, e altri sono stati chiaramente contraffatti. Riassumendo: censura, propaganda, occultamento di informazioni, pressioni, incarcerazione di dissidenti, attivisti, imprenditori e chiunque protesti contro il governo. Sono alcune delle risposte di Pechino alle conseguenze sociali e politiche della sua crisi economica. I governi di solito aggravano la crisi con le loro reazioni. Questo è un esempio.
Ha scritto l’indimenticabile Andrea Camilleri: Forse, senza saperlo, stiamo combattendo la prima guerra globale degli anni duemila. Una guerra che non usa più armi, che non bombarda né fa esplodere atomiche, che non provoca morte ma produce fame, disoccupazione, scontro sociale, impoverimento, insomma riduce sul lastrico i perdenti. Il pensiero l’ho tratto dal volumetto “Segnali di fumo” recentemente ri-editato da UTET (luglio 2019) ma che ha avuto una prima edizione per la “De Agostini Libri” nel mese di maggio dell’anno 2014. Ed i perdenti chi sono? Ma certamente anche quegli operai che la Cina reprime. Nulla è rimasto di quello che è stato “l’impero celeste”. Nulla è rimasto della Cina della “rivoluzione culturale”. Il capitale, di qualsivoglia colore sia, produce gli stessi effetti in ogni angolo del globo terracqueo. La logica è la stessa. In quale direzione potranno guardare per una “speranza nuova” i diseredati della Terra? Tratto da “Cina. Debito alle stelle sprechi e repressione Il gigante economico si è ammalato” di Moisés Naím, pubblicato sul quotidiano “la Repubblica” del 28 di febbraio dell’anno 2016: (…). Nel 1981, quando furono avviate le riforme economiche, l’85 per cento della popolazione viveva in condizioni di miseria, mentre adesso i poveri non superano il 7 per cento. Il progresso della Cina si è irradiato anche al resto del mondo: il Celeste Impero è diventato il principale compratore di materie prime, uno dei grandi esportatori di prodotti lavorati, il maggiore acquirente di obbligazioni occidentali e un importante investitore, soprattutto nei paesi meno sviluppati. Oggi si può applicare alla Cina quello che tante volte è stato detto degli Stati Uniti: se Pechino starnutisce, il mondo si prende il raffreddore. E di questi tempi l’economia cinese non si limita a starnutire: è malata a tutti gli effetti. I sintomi. Sono tanti. Il più evidente è che nel 2015 l’economia è cresciuta ai ritmi più bassi da 25 anni a questa parte. E sono 4 anni, ormai, che la crescita è regolarmente inferiore all’anno precedente. Poi è arrivato il tracollo della Borsa e una caotica svalutazione della moneta, seguita da un’imponente fuga di capitali: solo a gennaio sono partiti verso altri lidi 110 miliardi di dollari, mentre in tutto il 2015 il flusso netto di capitali verso l’estero è stato di 637 miliardi, una somma senza precedenti e un grave indicatore di sfiducia. Una popolazione che mediamente risparmia il 30 per cento del suo reddito vede calare il valore della moneta e preferisce mettere al sicuro i suoi risparmi fuori dal paese. Ma il sintomo più preoccupante di tutti è il debito immenso che si sta accumulando: nel 2007 era a una volta e mezza le dimensioni dell’intera economia, ora si è triplicato. L’indebitamento principale si registra nelle amministrazioni locali, che hanno finanziato la costruzione di un’enorme quantità di opere infrastrutturali ingiustificabili e rimaste incompiute. Ora il governo centrale è obbligato ad assorbire queste perdite, e la conseguenza sarà un aumento del deficit di bilancio. Che cosa è successo? Com’è stato possibile che le cose si siano complicate a tal punto? La risposta si riassume in due parole: boom e crisi. Quando un’economia cresce ad alta velocità per tre decenni, crescono anche gli sperperi e gli sprechi, i cattivi investimenti, la corruzione e tanti errori che il boom consente di nascondere o ignorare. D’altro lato, la crisi mondiale che è scoppiata nel 2008 ha indotto le autorità cinesi a lanciare il più grande piano di stimoli economici della storia. L’obiettivo era impedire che Stati Uniti ed Europa contagiassero la sua economia: la crescita sostenuta andava mantenuta a qualsiasi costo. E così è stato. Ma questo sforzo ha alimentato le distorsioni che oggi la affliggono. Che succederà?
La Cina deve abbandonare un’economia basata sugli investimenti (soprattutto in infrastrutture) e le esportazioni di prodotti lavorati e passare a un modello fondato sui consumi interni e la crescita dei servizi. Per riuscirci, è necessario che il Governo porti avanti riforme che nell’immediato sono impopolari, ma che instraderebbero il paese su una traiettoria sostenibile. Purtroppo, non sembra che tutto questo succederà a breve. Il primo ministro, Li Keqiang, ha appena lanciato un’intensa campagna «informativa» finalizzata a spiegare che l’economia va bene e che i problemi sono soprattutto di «comunicazione». Ma la censura e la propaganda non alleviano le difficoltà, al contrario: il più delle volte le aggravano. Quindi, la Cina si incarterà? Sì. Si è già incartata. E si incarterà ancora di più. Il patto sociale fra il Partito comunista e la popolazione finora era che la gente, in cambio di lavoro e salari migliori, accettava passivamente la mancanza di libertà. Non sarà facile tenere in piedi in questo patto. Ci sono già una serie di micro-eventi significativi. Il partito comunista reprime gli operai. Nel 2015 ci sono stati 2.774 scioperi, il doppio del 2014. L’aumento della conflittualità ha spinto il governo a esercitare una forte repressione contro i leader dei lavoratori. Gli osservatori internazionali segnalano che la repressione contro i sindacati in Cina è aumentata (anche se attacchi e pressioni da parte del governo sono sempre stati la norma: verifiche fiscali, violenza mafiosa, vessazioni da parte della polizia ecc.). Un articolo sul Washington Post conclude così: «È un crudele paradosso che il Partito comunista reprima i lavoratori». Imprenditori che spariscono. Guo Guangchang viene chiamato il Warren Buffet cinese. È un miliardario che controlla la più grande impresa privata cinese, la Fosun. A dicembre, Guo è scomparso. La versione ufficiale era che stava «collaborando a certe indagini delle autorità». Qualche giorno dopo, e senza ulteriori spiegazioni, è ricomparso per presiedere l’assemblea degli azionisti della Fosun. A Yang Zezhu, uno dei personaggi più in vista nel settore finanziario cinese, è andata molto peggio: a gennaio si è buttato da una finestra lasciando un bigliettino in cui spiegava di averlo fatto perché il Partito stava indagando su di lui per «ragioni personali ». Sono solo due esempi di un numero sorprendentemente alto di imprenditori di primo piano che sono spariti, hanno improvvisamente rinunciato, sono emigrati o sono stati arrestati. La lista include il fior fiore dell’imprenditoria cinese. È risaputo che una delle priorità del presidente Xi Jinping è la lotta contro la corruzione. E la sparizione e detenzione di imprenditori è una manifestazione di questa crociata. Ma è anche il segnale che è usata come strumento per eliminare possibili rivali. Anche i libri spariscono… Quelli contabili, innanzitutto. Poco tempo fa, la polizia ha dovuto usare due retroescavatori per tirar fuori da un buco profondissimo 1.200 registri che contenevano la contabilità di una delle più grandi truffe cinesi: la finanziaria Ezubao prometteva il 15 per cento annuo di rendimento, novecentomila persone si sono fidate e hanno perso 7,6 miliardi di dollari. Poi ci sono editori, librai e scrittori. Come Lee Bo, 65 anni, cittadino britannico con residenza a Hong Kong, che è sparito a dicembre. Sua moglie ha denunciato alla polizia che era stato sequestrato e portato a Pechino. Qualche giorno dopo, ha ritirato la denuncia e ha spiegato che suo marito era andato a Pechino di sua volontà per aiutare la polizia in un’indagine. Di altre quattro persone legate alla casa editrice non si hanno notizie dallo scorso anno. Piccolo particolare: la casa editrice pubblica libri critici nei confronti della dirigenza cinese. Un altro editore, Yiu Man, di 73 anni, stava preparando la pubblicazione di un libro intitolato “Il padrino Xi Jinping”, scritto dal dissidente Yu Jie. Ma non è riuscito a pubblicarlo, perché è stato condannato a 10 anni di carcere per aver portato alcune bottiglie di vernice industriale da Hong Kong a Shenzhen senza pagare le tariffe doganali… Spariscono anche le parole e i numeri. Il professore Francis Fukuyama ha appena individuato le parole che sono sparite dall’edizione cinese del suo ultimo libro. Per citarne alcune: «Mao», «le proteste di Tienanmen», «la grande carestia», «corruzione» e «Stato di diritto». C’è anche una lunghissima lista di parole che non compaiono nei motori di ricerca di Internet o si cancellano se qualcuno le scrive sui social network. Sono spariti anche dati statistici indispensabili per valutare la situazione economica, e altri sono stati chiaramente contraffatti. Riassumendo: censura, propaganda, occultamento di informazioni, pressioni, incarcerazione di dissidenti, attivisti, imprenditori e chiunque protesti contro il governo. Sono alcune delle risposte di Pechino alle conseguenze sociali e politiche della sua crisi economica. I governi di solito aggravano la crisi con le loro reazioni. Questo è un esempio.
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