Da ragazzo quelli dell’Olimpo mi furono subito simpatici assai. È che somigliavano
tanto a noi umani, miseri mortali. E poi erano sempre indaffarati come i comuni
mortali. C’era chi si intendeva della caccia, e chi dell’agricoltura, e chi
della pratica vitivinicola. E chi della medicina a curare i corpi. Non poteva
mancare tra di essi anche il cultore delle arti guerriere. E qualcun altro
ancora soleva atteggiarsi molto umanamente ad universale amatore. Sembra che
proprio il padre di tutti quelli dell’Olimpo fosse un infaticabile struggitore
di bellezze femminili. In fondo un mondo di dei a misura d’umano. Un paradosso
quasi. È che essi, ovvero quelli dell’Olimpo, essendo talmente vicini agli
umani nelle loro passioni e pulsioni, erano dagli stessi mortali considerati
benevolmente, come componenti più fortunati della famiglia; in fondo non
incutevano timore alcuno in virtù di un comune destino condiviso seppur a
livelli differenti. Immortali e beoni quelli, mortali nonostante tutto gli
umani. Non si era allora pervenuti ad un dio unico e solo, magari ad un “dio degli eserciti” di rabbinica e
cristiana memoria; la qualcosa avrebbe suscitato ben altro atteggiamento degli
umani nei confronti di quei beoni dell’Olimpo. Mi sentirei gratificato e come
se stessi sull’Olimpo sol se potessi consultare tutti gli incunaboli polverosi
dispersi per l’universo mondo; solo per poter accertare, in quegli incunaboli
ed in altri tomi diversi e ponderosi, frutto dell’umano ingegno, della non
registrata memoria in essi di guerre di religione tra gli umani per conto di
quelli dell’Olimpo. Ben altra cosa accade da quando quei buontemponi hanno
traslocato chissà dove lasciando il loro monte indifeso all’assalto del dio
cosiddetto unico e solo. Bel vantaggio ne è derivato per gli umani tutti. È dalla
scomparsa di quelli e dall’avvento del dio unico e solo che la terra si bagna
abbondantemente del sangue dei combattenti benedetti sotto i labari ed i
vessilli sventolanti in nome di un dio occhiuto e feroce spesso anche.
Scrivevo quanto appena letto in un post – “Quelli dell’Olimpo” – del lunedì 19 di gennaio dell’anno 2009. Giorni addietro mi è capitato di incontrare – non fisicamente, ma per le infinite, meravigliose, sempre più oggigiorno inesplorate vie della lettura - Alì Ahmad Said Esber che è un novantenne poeta siriano meglio conosciuto come Adonis. In un colloquio – “Adonis contro Dio” - con il giornalista Gigi Riva pubblicato sul settimanale L’Espresso del 9 di febbraio ultimo alla domanda – “lei sostiene (…) …che i tre monoteismi hanno lo stesso problema” - il poeta risponde: “(…). Ciascun monoteismo dice: io sono la verità e non c’è verità all’infuori della mia”. Ad altra domanda più avanti sostiene: “la visione monoteistica segna l’inizio della decadenza dell’umanità, porta guerre e odio. Il monoteismo non ha mai prodotto un Aristotele, un Platone, un Omero. Nella Bibbia il libro di Giobbe, secondo me il più bello, altro non è se non la riscrittura di un grande poema sumero. Il monoteismo è anticreazione perché ogni creazione mette in dubbio il ruolo di Dio come unico creatore. Ed alla domanda “lei benché areligioso ritiene più interessante il politeismo perché ammette una pluralità” Adonis risponde: “Non c’è una forza unica che impone la legge. Con gli dei del mondo greco si discuteva. Loro avevano pulsioni umane, si innamoravano, entravano in guerra. Proclamare Dio come invisibile provoca la conseguenza che nessuno lo può discutere se è invisibile. E se qualcuno, un profeta, parla con lui perché non lo possono fare gli altri? È contraddittorio”. Alla domanda “La religione ha bisogno di dittatori?” Adonis risponde: “Al contrario: sono i dittatori ad aver bisogno di Dio per sostenere che sono la sua ombra, la sua proiezione sulla terra”. L’intervistatore insiste: Un mondo che lei immagina senza monoteismi. Un Dio che sia, come Bertolt Brecht fa dire al suo Galileo, “in noi o in nessun luogo”. Adonis: “Dio ha bisogno dell’uomo. L’uomo non ha bisogno di Dio”. In quell’oramai remoto gennaio dell’anno 2009 molto mi rinfrancò leggere la prosa, come sempre dotta e straordinaria, di Umberto Galimberti in una Sua corrispondenza che ha per titolo “Dio e gli dei”, corrispondenza pubblicata su di un supplemento (2009?) del quotidiano “la Repubblica” della quale, di seguito, trascrivo ampi stralci: Scrive Nietzsche: - E gli dèi morirono dal gran ridere quando udirono che un dio voleva essere il solo -. (…). …gli dèi greci meritano tutti gli aggettivi poco lusinghieri con cui (…) li (si) connota, ma hanno il merito di essere molti. Questa molteplicità è il principio della tolleranza di cui non è capace il monoteismo, detentore di una verità assoluta, e quindi escludente tutte le altre possibili espressioni umane che gli dèi rappresentano. Nella loro espansione territoriale, Atene nella contaminazione con altre genti e Roma nella conquista di terre e di popoli, non avevano difficoltà a portare nel loro Olimpo gli dèi delle popolazioni con cui entravano in contatto o che conquistavano. Questo consentiva di mantenere e riconoscere l'identità di ciascun popolo e le credenze della sua gente. La tolleranza incomincia infatti con l'accettazione delle rispettive divinità, con il loro riconoscimento. Quando questo principio fallisce incominciano le guerre di religione che sono più cruente e crudeli delle guerre dettate da interessi economici o territoriali. Perché la religione esprime in forma mitica la configurazione antropologica di un popolo, il modo di condurre la sua vita, a partire dallo scenario celeste che ogni religione disegna, per superare (…) la dimensione tragica dell'esistenza umana (…). Gli dèi sono morti e il monoteismo ha distrutto, non solo metaforicamente, tutti i templi degli antichi dèi. Ma di recente sembra che anche Dio sia morto, perché il mondo non accade più secondo i suoi dettami. Se togliamo la parola Dio dal Medioevo, quando l'arte era arte sacra, la letteratura era inferno, purgatorio e paradiso, persino la donna era donna-angelo, non capiamo nulla di quell'epoca, mentre tolta la parola Dio, la nostra epoca si lascia comprendere benissimo, meno forse se togliamo la parola denaro o la parola tecnica. Quindi Dio non fa più mondo, non lo crea più. Dio è morto. Ma la morte di Dio non ci ha restituito gli dèi, per cui il nostro paganesimo è senza Olimpo. Ci ha però lasciato quell'eredità tipica delle religioni monoteiste che si chiama intolleranza, inevitabile conseguenza di chi si crede in possesso della verità assoluta. Un'intolleranza che non è estirpata e neppure lenita dagli inviti all'amore e alla comprensione del prossimo e del diverso da noi, a cui le parole della religione opportunamente ci invitano senza persuaderci, finché permane il principio per loro irrinunciabile di essere i depositari della verità assoluta. Per cui gli altri chi sono? Poveri erranti? Questa è la ragione per cui sarebbe auspicabile il ritorno degli dèi.
Scrivevo quanto appena letto in un post – “Quelli dell’Olimpo” – del lunedì 19 di gennaio dell’anno 2009. Giorni addietro mi è capitato di incontrare – non fisicamente, ma per le infinite, meravigliose, sempre più oggigiorno inesplorate vie della lettura - Alì Ahmad Said Esber che è un novantenne poeta siriano meglio conosciuto come Adonis. In un colloquio – “Adonis contro Dio” - con il giornalista Gigi Riva pubblicato sul settimanale L’Espresso del 9 di febbraio ultimo alla domanda – “lei sostiene (…) …che i tre monoteismi hanno lo stesso problema” - il poeta risponde: “(…). Ciascun monoteismo dice: io sono la verità e non c’è verità all’infuori della mia”. Ad altra domanda più avanti sostiene: “la visione monoteistica segna l’inizio della decadenza dell’umanità, porta guerre e odio. Il monoteismo non ha mai prodotto un Aristotele, un Platone, un Omero. Nella Bibbia il libro di Giobbe, secondo me il più bello, altro non è se non la riscrittura di un grande poema sumero. Il monoteismo è anticreazione perché ogni creazione mette in dubbio il ruolo di Dio come unico creatore. Ed alla domanda “lei benché areligioso ritiene più interessante il politeismo perché ammette una pluralità” Adonis risponde: “Non c’è una forza unica che impone la legge. Con gli dei del mondo greco si discuteva. Loro avevano pulsioni umane, si innamoravano, entravano in guerra. Proclamare Dio come invisibile provoca la conseguenza che nessuno lo può discutere se è invisibile. E se qualcuno, un profeta, parla con lui perché non lo possono fare gli altri? È contraddittorio”. Alla domanda “La religione ha bisogno di dittatori?” Adonis risponde: “Al contrario: sono i dittatori ad aver bisogno di Dio per sostenere che sono la sua ombra, la sua proiezione sulla terra”. L’intervistatore insiste: Un mondo che lei immagina senza monoteismi. Un Dio che sia, come Bertolt Brecht fa dire al suo Galileo, “in noi o in nessun luogo”. Adonis: “Dio ha bisogno dell’uomo. L’uomo non ha bisogno di Dio”. In quell’oramai remoto gennaio dell’anno 2009 molto mi rinfrancò leggere la prosa, come sempre dotta e straordinaria, di Umberto Galimberti in una Sua corrispondenza che ha per titolo “Dio e gli dei”, corrispondenza pubblicata su di un supplemento (2009?) del quotidiano “la Repubblica” della quale, di seguito, trascrivo ampi stralci: Scrive Nietzsche: - E gli dèi morirono dal gran ridere quando udirono che un dio voleva essere il solo -. (…). …gli dèi greci meritano tutti gli aggettivi poco lusinghieri con cui (…) li (si) connota, ma hanno il merito di essere molti. Questa molteplicità è il principio della tolleranza di cui non è capace il monoteismo, detentore di una verità assoluta, e quindi escludente tutte le altre possibili espressioni umane che gli dèi rappresentano. Nella loro espansione territoriale, Atene nella contaminazione con altre genti e Roma nella conquista di terre e di popoli, non avevano difficoltà a portare nel loro Olimpo gli dèi delle popolazioni con cui entravano in contatto o che conquistavano. Questo consentiva di mantenere e riconoscere l'identità di ciascun popolo e le credenze della sua gente. La tolleranza incomincia infatti con l'accettazione delle rispettive divinità, con il loro riconoscimento. Quando questo principio fallisce incominciano le guerre di religione che sono più cruente e crudeli delle guerre dettate da interessi economici o territoriali. Perché la religione esprime in forma mitica la configurazione antropologica di un popolo, il modo di condurre la sua vita, a partire dallo scenario celeste che ogni religione disegna, per superare (…) la dimensione tragica dell'esistenza umana (…). Gli dèi sono morti e il monoteismo ha distrutto, non solo metaforicamente, tutti i templi degli antichi dèi. Ma di recente sembra che anche Dio sia morto, perché il mondo non accade più secondo i suoi dettami. Se togliamo la parola Dio dal Medioevo, quando l'arte era arte sacra, la letteratura era inferno, purgatorio e paradiso, persino la donna era donna-angelo, non capiamo nulla di quell'epoca, mentre tolta la parola Dio, la nostra epoca si lascia comprendere benissimo, meno forse se togliamo la parola denaro o la parola tecnica. Quindi Dio non fa più mondo, non lo crea più. Dio è morto. Ma la morte di Dio non ci ha restituito gli dèi, per cui il nostro paganesimo è senza Olimpo. Ci ha però lasciato quell'eredità tipica delle religioni monoteiste che si chiama intolleranza, inevitabile conseguenza di chi si crede in possesso della verità assoluta. Un'intolleranza che non è estirpata e neppure lenita dagli inviti all'amore e alla comprensione del prossimo e del diverso da noi, a cui le parole della religione opportunamente ci invitano senza persuaderci, finché permane il principio per loro irrinunciabile di essere i depositari della verità assoluta. Per cui gli altri chi sono? Poveri erranti? Questa è la ragione per cui sarebbe auspicabile il ritorno degli dèi.
"L'intolleranza è unicamente essenziale al monoteismo:un dio unico è per sua natura, un dio geloso, che non soffre l'esistenza di alcun altro dio". A. Schopenhauer.
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