Dichiarava il 18 di dicembre dell’anno
2008 – anno d’inizio del “flagello” tuttora in corso della grande crisi - don
Vittorio Nozza, al tempo direttore della “Caritas”, al quotidiano “Corriere
della sera”: “Non va allontanato il povero, ma la povertà. Non si può continuare a
emarginare chi non partecipa allo sviluppo economico. E lo sviluppo economico
non è la soluzione. Serve uno sviluppo solidale”. Oggi, quando imperversa
il nuovo “flagello” denominato “coronavirus”, proviamo a parlare della povertà e
degli esiti di quel primo “flagello”. Tema ostico. Sfuggevole come il “flagello”
nuovo. C’è qualcuno che esterna e vede negli avvenimenti il ritorno di quelle “sette
piaghe” del mondo biblico. Non c’è da stare allegri. Per tornare al tema che
tuttora rimane dai contorni cangianti. Tra antiche credenze e certezze ed impietosi
numeri statistici. E come parlare della povertà se la non si è vissuta? Penso
che sia difficile parlarne solo per sentito dire. E poi: di quale povertà
oggigiorno s’intende pur parlare? Della povertà dei mezzi economici? Della
povertà in spirito? Ricordo di avere un tempo addietro ascoltato gli indimenticabili
coniugi Fo-Rame in una puntata della trasmissione
televisiva “Il tempo che fa”.
Raccontava Franca Rame della sua famiglia d’origine. Dei suoi genitori di
diversa estrazione sociale. L’uno, il padre, di condizione miserrima, vissuto nel
ed al seguito di un carretto di teatranti di marionette; la madre, figlia di un
ingegnere, padre di dieci figli. Al che, alla numerosissima famiglia
dell’ingegnere, era di fatto impossibile uscire di casa tutti assieme non
disponendo, a quel tempo, di tante scarpe quante ne occorressero per calzare la
coppia prolifica e la numerosissima figliolanza. Si era poveri a quel tempo ed in
quella condizione? Poveri di mezzi, ma nello spirito si era poveri al contempo?
Si era poveri e felici ugualmente? Per non parlare dei motti o detti popolari: “Il
danaro non porta la felicità”. Al che si dedurrebbe, meglio esserne
privi e dunque poveri. Ché il danaro sostanzia lo stato di non povertà. Roba da
non credere. Difficile penetrare il problema. E dove risulta scritto che con il
danaro non si possa, all’occorrenza, anche essere felici? Non sempre, di certo.
Intanto i problemi assillanti del quotidiano otterrebbero una risposta. Ma non
averne, di danaro, soprattutto oggigiorno, aggiunge il problema più grosso ai
problemi già assillanti nell’esistenza di milioni di esseri umani.
Ricordo di un amico carissimo che si peritava di asserire e sostenere con vigoria verbale che sarebbe stato meglio non “inciampare”, a suo modo di vedere, in lucrose vincite di lotteria, vincite che avrebbero comportato maggiori preoccupazioni e feroci mal di testa. Proprio così; si predisponeva ai mal di testa a seguito di una sostanziosa vittoria di lotteria, la qualsivoglia. Incredibile davvero. Ed io a sostenere che, al contrario, il suo mal di testa, generato dalle sue preoccupazioni economiche quotidiane, si sarebbe di colpo risolto innanzi ad una nuova prospettiva di sensato e misurato benessere. Meglio sempre e comunque diffidare dei proverbi popolari. Somigliano tantissimo a certi precetti religiosi che, con l’illusione della vita a venire al di sopra delle nuvole, vita addirittura eterna, con l’illusione di una divina e luminosissima appagante visione, ha indotto nel passato, e forse anche nel presente induce, ha indotto dicevo gli esseri umani a non richiedere al “Cesare” di turno quanto spettante come facenti parte, a tutti gli effetti, dell’immensa famiglia umana. Ci si rende conto, anche con questo semplice argomentare, come parlare della povertà sia un problema di enorme spessore. Mi ha soccorso nell’impresa una intervista pubblicata su di un supplemento del quotidiano “la Repubblica” a firma di Alessandra Baduel, intervista che ha per titolo “I poveri? Li inventiamo noi”. Di seguito, tagliuzzando forse anche maldestramente il pregevole scritto, ne propongo le parti più interessanti. Alessandra Baduel ha intervistato “l'iraniano Majid Rahnema”, 85 anni e tante vite alle spalle: ministro dell'Università, della Ricerca e della Scienza (tra il 1967 e il 1971), poi al lavoro con i contadini di Alashtar, nel Lurestan iraniano, prima di girare il mondo per decenni, seguendo i programmi di sviluppo dell'Onu e dell'Unesco”. Sarei passato oltre nello sfogliare la patinata rivista di quel quotidiano – del maggio 2009? - dedicata alle donne se non mi avesse attirato quel titolo dell’intervista, ed anche il suo incipit, ove la giornalista lascia parlare il suo straordinario ospite: “Fu un africano a farmi capire cosa non andava nelle nostre analisi. Ero in Mali per conto dell'Onu. Gli chiesi come faceva, nei giorni in cui non aveva da mangiare. Mi rispose con tre parole: - Vado dal vicino -. Ecco, questo è qualcosa che il Primo mondo rende impossibile". Straordinario. Nell’opulento occidente cristianizzato la possibilità di sedersi alla mensa del vicino, per chi ha fame, ed in un giorno qualsiasi, è divenuto un tabù. Un tabù che assume, a maggior ragione, una sua trita e ritrita ritualità allorquando si “aggiunge un posto a tavola” in speciali e sacre ricorrenze pensando così di essersene riscattati, o allorquando, con un sms o altre diavolerie del genere, si corre in soccorso degli sventurati di turno, indigeni e non, ma indigenti sempre, e ci si mette così a posto quel poco di coscienza che permane e si tacitano i pochi rimorsi ricorrenti, rimorsi nel quotidiano convenientemente riposti e sollecitati in occasioni speciali dal piccolo mostro della casa, per la diffusissima accettazione supina delle ingiustizie planetarie. Riflette infatti l’intervistato: "Lottiamo contro la povertà, o contro i poveri? Li definiamo così per aiutarli, o per sfruttarli meglio?". E chi non ricorda della carità pelosa del bel paese che ha fatto affluire nelle contrade sperdute dei derelitti di questo pianeta derrate alimentari scadute, scadute al pari delle forniture dei necessari farmaci per milioni di esseri umani afflitti da malanni secolari o di nuova comparsa? Non ha timore l’intervistato a parlare, come suol dirsi, fuori dai denti, e per dare forza al suo ragionamento prende di mira una figura straordinaria dei tempi correnti, ovvero il premio Nobel Mohamed Yunus, non “l’uomo del banco dei pegni” ma colui che ha inventato il cosiddetto microcredito. Afferma l’intervistato: "L'idea iniziale è buona. In più i poveri sono affidabili: onorano sempre i loro debiti. Ma a ben vedere, si tratta solo di un'ottima operazione bancaria. Perché il microcredito prevede dei tassi d'interesse. E non mi risulta che qualcuno abbia mai contestato a Yunus il fatto che i suoi tassi sono fra il 30 e il 35 per cento. Ha anche fatto un patto con delle compagnie telefoniche, creando un meccanismo terribile: chi ottiene un prestito da lui, se compra un cellulare non paga più gli interessi. Ma intanto s'indebita con le compagnie. Per fortuna l'opposizione di Vandana Shiva gli ha impedito il patto analogo che voleva fare con la Monsanto, produttrice di semi Ogm". E così continua, riferendosi alla situazione economico-finanziaria globalizzata: "L'attuale sistema emargina milioni di persone bollandole come povere. Secondo la Banca mondiale, sulla terra ne esistono quattro miliardi. Due milioni e 800 mila sono in povertà relativa, cioè commisurata al nostro benessere: due dollari al giorno. Un milione e 200 mila vivono con meno di un dollaro al giorno. La chiamiamo povertà assoluta. Ma sono definizioni e cifre che abbiamo creato noi. (…). In passato, fare economia significava gestire al meglio le spese di casa, o di un'attività. Oggi invece l'economia pensa solo a sé stessa. E le campagne di aiuto a chi ha bisogno sono in realtà campagne contro quelle persone. È tutto calcolato, in modo che i poveri continuino a prendersi solo i nostri avanzi. (…). Lo ammetto senza fatica: ragiono da socialista, da marxista, definiamolo come vogliamo questo pensiero, ma di questo si tratta. (…). Non credo che Dio esista, e intendo il Dio dei poveri, che è diverso dagli altri Dei. Il poeta persiano Rumi (…) raccontò una storia: un pastore sta accudendo il suo montone e intanto parla con Dio. - Tu pensi a tutti -, dice, - e nessuno pensa a te. Vorrei tanto farlo io. Pulirti, accudirti, come faccio con il mio montone -. Ecco, noi dobbiamo imparare a usare il linguaggio del pastore. (…). Miseria è l'impossibilità di avere beni di cui senti la necessità. (…). …esiste un'economia interessata soltanto alle proprie necessità, che inventa dei bisogni fini a se stessi. È la società di mercato che ha creato condizioni tali da impedire alle persone di essere povere alla maniera tradizionale, togliendo loro potenza. Ed è questo che ha distrutto la povertà conviviale. Chi pensava, soltanto quindici o vent'anni fa, che tutti dovessero possedere un telefono cellulare? Ora, chi non lo ha sa che deve considerarsi un miserabile. E si parla dei poveri come se fossero dei parassiti. Nella storia degli esseri umani non c'erano mai state così tante persone messe ai margini dalla società. (…). Il problema del mondo è che esiste un pugno di persone con molti soldi e che sono interessate soltanto a quelli. Per i poveri il punto centrale non è il denaro. Lo è diventato quando sono stati tolti a forza dal loro contesto. (…). Se dai a tutti quattro dollari a testa al giorno, non ci saranno più i quattro miliardi di persone in povertà che calcola la Banca mondiale, ma non avremo risolto nulla. Invece dobbiamo chiederci cosa vogliono realmente quei quattro miliardi di persone. (…). Tutti pensano che si debbano trovare soluzioni economiche, ecco perché anche le rivoluzioni, pur con le migliori intenzioni, non hanno funzionato. Sono le persone che devono cambiare, dal basso. Gandhi diceva che il modo migliore di aiutare i poveri sta nel saltare giù dalle loro spalle. (…)”. N.d.r. Majid Rahnema ha scritto e pubblicato per i tipi Einaudi “Quando la povertà diventa miseria” (2005).
Ricordo di un amico carissimo che si peritava di asserire e sostenere con vigoria verbale che sarebbe stato meglio non “inciampare”, a suo modo di vedere, in lucrose vincite di lotteria, vincite che avrebbero comportato maggiori preoccupazioni e feroci mal di testa. Proprio così; si predisponeva ai mal di testa a seguito di una sostanziosa vittoria di lotteria, la qualsivoglia. Incredibile davvero. Ed io a sostenere che, al contrario, il suo mal di testa, generato dalle sue preoccupazioni economiche quotidiane, si sarebbe di colpo risolto innanzi ad una nuova prospettiva di sensato e misurato benessere. Meglio sempre e comunque diffidare dei proverbi popolari. Somigliano tantissimo a certi precetti religiosi che, con l’illusione della vita a venire al di sopra delle nuvole, vita addirittura eterna, con l’illusione di una divina e luminosissima appagante visione, ha indotto nel passato, e forse anche nel presente induce, ha indotto dicevo gli esseri umani a non richiedere al “Cesare” di turno quanto spettante come facenti parte, a tutti gli effetti, dell’immensa famiglia umana. Ci si rende conto, anche con questo semplice argomentare, come parlare della povertà sia un problema di enorme spessore. Mi ha soccorso nell’impresa una intervista pubblicata su di un supplemento del quotidiano “la Repubblica” a firma di Alessandra Baduel, intervista che ha per titolo “I poveri? Li inventiamo noi”. Di seguito, tagliuzzando forse anche maldestramente il pregevole scritto, ne propongo le parti più interessanti. Alessandra Baduel ha intervistato “l'iraniano Majid Rahnema”, 85 anni e tante vite alle spalle: ministro dell'Università, della Ricerca e della Scienza (tra il 1967 e il 1971), poi al lavoro con i contadini di Alashtar, nel Lurestan iraniano, prima di girare il mondo per decenni, seguendo i programmi di sviluppo dell'Onu e dell'Unesco”. Sarei passato oltre nello sfogliare la patinata rivista di quel quotidiano – del maggio 2009? - dedicata alle donne se non mi avesse attirato quel titolo dell’intervista, ed anche il suo incipit, ove la giornalista lascia parlare il suo straordinario ospite: “Fu un africano a farmi capire cosa non andava nelle nostre analisi. Ero in Mali per conto dell'Onu. Gli chiesi come faceva, nei giorni in cui non aveva da mangiare. Mi rispose con tre parole: - Vado dal vicino -. Ecco, questo è qualcosa che il Primo mondo rende impossibile". Straordinario. Nell’opulento occidente cristianizzato la possibilità di sedersi alla mensa del vicino, per chi ha fame, ed in un giorno qualsiasi, è divenuto un tabù. Un tabù che assume, a maggior ragione, una sua trita e ritrita ritualità allorquando si “aggiunge un posto a tavola” in speciali e sacre ricorrenze pensando così di essersene riscattati, o allorquando, con un sms o altre diavolerie del genere, si corre in soccorso degli sventurati di turno, indigeni e non, ma indigenti sempre, e ci si mette così a posto quel poco di coscienza che permane e si tacitano i pochi rimorsi ricorrenti, rimorsi nel quotidiano convenientemente riposti e sollecitati in occasioni speciali dal piccolo mostro della casa, per la diffusissima accettazione supina delle ingiustizie planetarie. Riflette infatti l’intervistato: "Lottiamo contro la povertà, o contro i poveri? Li definiamo così per aiutarli, o per sfruttarli meglio?". E chi non ricorda della carità pelosa del bel paese che ha fatto affluire nelle contrade sperdute dei derelitti di questo pianeta derrate alimentari scadute, scadute al pari delle forniture dei necessari farmaci per milioni di esseri umani afflitti da malanni secolari o di nuova comparsa? Non ha timore l’intervistato a parlare, come suol dirsi, fuori dai denti, e per dare forza al suo ragionamento prende di mira una figura straordinaria dei tempi correnti, ovvero il premio Nobel Mohamed Yunus, non “l’uomo del banco dei pegni” ma colui che ha inventato il cosiddetto microcredito. Afferma l’intervistato: "L'idea iniziale è buona. In più i poveri sono affidabili: onorano sempre i loro debiti. Ma a ben vedere, si tratta solo di un'ottima operazione bancaria. Perché il microcredito prevede dei tassi d'interesse. E non mi risulta che qualcuno abbia mai contestato a Yunus il fatto che i suoi tassi sono fra il 30 e il 35 per cento. Ha anche fatto un patto con delle compagnie telefoniche, creando un meccanismo terribile: chi ottiene un prestito da lui, se compra un cellulare non paga più gli interessi. Ma intanto s'indebita con le compagnie. Per fortuna l'opposizione di Vandana Shiva gli ha impedito il patto analogo che voleva fare con la Monsanto, produttrice di semi Ogm". E così continua, riferendosi alla situazione economico-finanziaria globalizzata: "L'attuale sistema emargina milioni di persone bollandole come povere. Secondo la Banca mondiale, sulla terra ne esistono quattro miliardi. Due milioni e 800 mila sono in povertà relativa, cioè commisurata al nostro benessere: due dollari al giorno. Un milione e 200 mila vivono con meno di un dollaro al giorno. La chiamiamo povertà assoluta. Ma sono definizioni e cifre che abbiamo creato noi. (…). In passato, fare economia significava gestire al meglio le spese di casa, o di un'attività. Oggi invece l'economia pensa solo a sé stessa. E le campagne di aiuto a chi ha bisogno sono in realtà campagne contro quelle persone. È tutto calcolato, in modo che i poveri continuino a prendersi solo i nostri avanzi. (…). Lo ammetto senza fatica: ragiono da socialista, da marxista, definiamolo come vogliamo questo pensiero, ma di questo si tratta. (…). Non credo che Dio esista, e intendo il Dio dei poveri, che è diverso dagli altri Dei. Il poeta persiano Rumi (…) raccontò una storia: un pastore sta accudendo il suo montone e intanto parla con Dio. - Tu pensi a tutti -, dice, - e nessuno pensa a te. Vorrei tanto farlo io. Pulirti, accudirti, come faccio con il mio montone -. Ecco, noi dobbiamo imparare a usare il linguaggio del pastore. (…). Miseria è l'impossibilità di avere beni di cui senti la necessità. (…). …esiste un'economia interessata soltanto alle proprie necessità, che inventa dei bisogni fini a se stessi. È la società di mercato che ha creato condizioni tali da impedire alle persone di essere povere alla maniera tradizionale, togliendo loro potenza. Ed è questo che ha distrutto la povertà conviviale. Chi pensava, soltanto quindici o vent'anni fa, che tutti dovessero possedere un telefono cellulare? Ora, chi non lo ha sa che deve considerarsi un miserabile. E si parla dei poveri come se fossero dei parassiti. Nella storia degli esseri umani non c'erano mai state così tante persone messe ai margini dalla società. (…). Il problema del mondo è che esiste un pugno di persone con molti soldi e che sono interessate soltanto a quelli. Per i poveri il punto centrale non è il denaro. Lo è diventato quando sono stati tolti a forza dal loro contesto. (…). Se dai a tutti quattro dollari a testa al giorno, non ci saranno più i quattro miliardi di persone in povertà che calcola la Banca mondiale, ma non avremo risolto nulla. Invece dobbiamo chiederci cosa vogliono realmente quei quattro miliardi di persone. (…). Tutti pensano che si debbano trovare soluzioni economiche, ecco perché anche le rivoluzioni, pur con le migliori intenzioni, non hanno funzionato. Sono le persone che devono cambiare, dal basso. Gandhi diceva che il modo migliore di aiutare i poveri sta nel saltare giù dalle loro spalle. (…)”. N.d.r. Majid Rahnema ha scritto e pubblicato per i tipi Einaudi “Quando la povertà diventa miseria” (2005).
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