Ha
scritto Federico Rampini sull’ultimo numero del settimanale “D” – “Mentre il coronavirus occupa le prime
pagine dei giornali” – del 22 di febbraio: (…). Una “normale” influenza di
stagione, solo qui negli Stati Uniti uccide almeno ottomila persone all’anno,
fino a 12mila quando è più forte. Lo consideriamo un flagello inevitabile (…).
Le vittime della malaria? Un milione all’anno. Per il 90% muoiono nell’Africa subsahariana, e abbiamo deciso che non fanno notizia anche loro. (…). Il coronavirus, grazie a misure di isolamento tardive ma draconiane, mentre scrivo resta essenzialmente un’emergenza cinese, nel resto del mondo il contagio riguarda numeri piccoli. (…). È il grande capitale a decidere quali delle notizie siano da darsi o meno. Interessa oggigiorno a “lor signori” la Cina con le sue disavventure sanitarie poiché essa è divenuta l’opificio del mondo intero. Cosa saranno mai le popolazioni subsahariane? È il grande capitale che ha deciso della loro povertà e del non fare notizia alcuna nel contesto delle nazioni. Ha scritto Marco Travaglio su “il Fatto Quotidiano” di oggi – “Burloni” - che «la virologa dell’ospedale Sacco di Milano, Maria Rita Gismondo (…) invita alla calma contro l’isteria dominante facendo notare che non c’è nessuna “pandemia”, ma solo una “follia” collettiva, visto che “la scorsa settimana la mortalità per influenza è stata di 217 decessi al giorno e per Coronavirus 1”». Provo ora a parlare del “coronavirus” dalle ridenti contrade “nebroidee”. In un luogo solenne di esse, ove si formano e si confermano le pubbliche opinioni, si discuteva della piaga ultima, scontato che fosse il “coronavirus”, che ha sottratto di slancio alla (mala)politica di questo disastrato Paese il centro della pubblica attenzione. Ed al “verdumaio”, che interpellatomi e trascinandomi con riluttanza nell’agone apostrofandomi, per antica condivisione politica, con il Suo consueto “compagnero”, non mi rimase che manifestargli la mia grandissima fiducia che alla fine della vicenda a vincere saremo noi e non il “coronavirus”. Ricordavo al carissimo “verdumaio” ed agli incolpevoli, preoccupati astanti, come l’uomo sia riuscito a sconfiggere pestilenze e colera, lebbra e quant’altro abbia allietato la sua difficile storia. Riuscito vittorioso sempre – l’uomo intendo dire – pur non disponendo nei secoli più bui della sua storia dell’immensa scienza e dell’immensa tecnologia delle quali oggi si dispone. Su segnalazione della carissima amica Agnese A. trascrivo il sempre illuminato pensiero di Umberto Galimberti tratto da “Il virus, la paura, l'istinto: le parole dell'epidemia secondo Umberto Galimberti”, intervista al quotidiano “l’Adige” ripreso dal sito “l’Adige.it” del 24 di febbraio 2020: «La tempesta perfetta. Il coronavirus è la tempesta perfetta. Perché mescola la paura con l’angoscia. Come il terrorismo». (…). Professore, il coronavirus unisce paura e angoscia, termini che lei studia da sempre. - Sì, è così. Con una differenza sostanziale tra i due aspetti. La paura, infatti, è un ottimo meccanismo di difesa, perché siamo di fronte a un soggetto determinato. L’angoscia invece subentra quando non si capisce da dove viene il pericolo. Non c’è un soggetto chiaro davanti a noi, ma un nemico che non si vede. I bambini, non a caso, non hanno paura ma provano angosce -.
Le vittime della malaria? Un milione all’anno. Per il 90% muoiono nell’Africa subsahariana, e abbiamo deciso che non fanno notizia anche loro. (…). Il coronavirus, grazie a misure di isolamento tardive ma draconiane, mentre scrivo resta essenzialmente un’emergenza cinese, nel resto del mondo il contagio riguarda numeri piccoli. (…). È il grande capitale a decidere quali delle notizie siano da darsi o meno. Interessa oggigiorno a “lor signori” la Cina con le sue disavventure sanitarie poiché essa è divenuta l’opificio del mondo intero. Cosa saranno mai le popolazioni subsahariane? È il grande capitale che ha deciso della loro povertà e del non fare notizia alcuna nel contesto delle nazioni. Ha scritto Marco Travaglio su “il Fatto Quotidiano” di oggi – “Burloni” - che «la virologa dell’ospedale Sacco di Milano, Maria Rita Gismondo (…) invita alla calma contro l’isteria dominante facendo notare che non c’è nessuna “pandemia”, ma solo una “follia” collettiva, visto che “la scorsa settimana la mortalità per influenza è stata di 217 decessi al giorno e per Coronavirus 1”». Provo ora a parlare del “coronavirus” dalle ridenti contrade “nebroidee”. In un luogo solenne di esse, ove si formano e si confermano le pubbliche opinioni, si discuteva della piaga ultima, scontato che fosse il “coronavirus”, che ha sottratto di slancio alla (mala)politica di questo disastrato Paese il centro della pubblica attenzione. Ed al “verdumaio”, che interpellatomi e trascinandomi con riluttanza nell’agone apostrofandomi, per antica condivisione politica, con il Suo consueto “compagnero”, non mi rimase che manifestargli la mia grandissima fiducia che alla fine della vicenda a vincere saremo noi e non il “coronavirus”. Ricordavo al carissimo “verdumaio” ed agli incolpevoli, preoccupati astanti, come l’uomo sia riuscito a sconfiggere pestilenze e colera, lebbra e quant’altro abbia allietato la sua difficile storia. Riuscito vittorioso sempre – l’uomo intendo dire – pur non disponendo nei secoli più bui della sua storia dell’immensa scienza e dell’immensa tecnologia delle quali oggi si dispone. Su segnalazione della carissima amica Agnese A. trascrivo il sempre illuminato pensiero di Umberto Galimberti tratto da “Il virus, la paura, l'istinto: le parole dell'epidemia secondo Umberto Galimberti”, intervista al quotidiano “l’Adige” ripreso dal sito “l’Adige.it” del 24 di febbraio 2020: «La tempesta perfetta. Il coronavirus è la tempesta perfetta. Perché mescola la paura con l’angoscia. Come il terrorismo». (…). Professore, il coronavirus unisce paura e angoscia, termini che lei studia da sempre. - Sì, è così. Con una differenza sostanziale tra i due aspetti. La paura, infatti, è un ottimo meccanismo di difesa, perché siamo di fronte a un soggetto determinato. L’angoscia invece subentra quando non si capisce da dove viene il pericolo. Non c’è un soggetto chiaro davanti a noi, ma un nemico che non si vede. I bambini, non a caso, non hanno paura ma provano angosce -.
Per questo lei fa un paragone tra la diffusione del
virus e il terrorismo. - Sì, perché il terrorismo ci colpisce all’improvviso,
con modalità che non ci aspettiamo -.
Lei giustifica così il terrore generale che ha colpito
tante persone. La tentazione è di isolarsi, di sospettare dell’altro. - Gli
eccessi di angoscia portano a comportamenti pazzi, non mirati. Non ci si può
difendere dalla diffusione del virus e si finisce per dubitare di tutti, con la
conseguenza che i rapporti personali diventano sempre più inquietanti -.
Lei personalmente ha modificato il suo stile di vita?
- No, le mie abitudini non sono cambiate. Mi sento abbastanza rassicurato e non
posso certo penalizzare la mia vita. Vado a tutte le conferenze alle quali
vengo invitato: spesso sono luoghi con tante persone e il contatto è molto
ravvicinato, come quando ti chiedono di firmare un libro -.
Tutti i virologi sostengono che la quarantena è il
sistema più efficace per contenere il contagio. Ma l’isolamento in sé fa paura,
ormai siamo abituati a non avere limitazioni fisiche. - Certo, la quarantena ci
fa tornare la mente alla peste, alla spagnola. Ma aggiungo anche un’altra cosa
-.
Dica professore. - I virus c’erano molto prima di noi
e ci saranno quando l’umanità sarà estinta, se proseguirà con certi
comportamenti sconsiderati -.
A cosa si riferisce? - Al detto biblico “non
commettere atti impuri”, preso alla lettera. Un detto che ci ammonisce dal non
mescolare le cose, dal non contaminare le specie diverse. Non a caso l’origine
del virus sembra causato da qualcuno che ha mangiato pipistrelli -.
La diffusione del coronavirus, tra i vari aspetti da
analizzare, rappresenta anche un grande colpo al sogno dell’uomo di annullare
ogni limite. - Ma c’è un ottimismo esasperato, una fiducia nella tecnologia
come soluzione di qualsiasi problema. Prometeo i greci lo avevano incatenato,
noi invece gli abbiamo tolto le catene e di conseguenza ogni limite. Del resto
prima parlavo del pipistrello come origine del virus, ma c’è anche l’ipotesi
della creazione in laboratorio, come era stato ipotizzato con l’Aids -.
In questo mondo si alimentano però le incredibili teorie del complotto mondiale. - Teorie che non mi appartengono. Però in laboratorio l’errore ci può stare anche in perfetta buona fede. Del resto, la capacità del nostro fare oltrepassa gli effetti del fare stesso: non sempre siamo in grado di prevedere a cosa porterà la nostra tecnologia. E poi ricordate che siamo frutto dell’amore e dell’autodistruttività: tenuto conto che il nostro non è certo il periodo dell’amore, ma piuttosto dell’odio, è chiaro che spesso sia l’altra componente a dominare -.
Dal punto di vista dei rapporti umani come usciremo da
questo virus? - Già siamo diffidenti nei confronti degli altri, anzi molto
spesso razzisti. Quante volte avete sentito una persona dire «Non sono razzista
ma…»? Ecco, già questo è razzismo. Finiremo per accentuare questa situazione:
un altro colpo alle relazioni sociali -.
Forse saremo smentiti a breve, ma la comunicazione
politica basata su barconi, migranti e improbabili uscite dall’euro ha dovuto
abbassare il volume, per lasciare spazio alla comunicazione sul virus e su come
difendersi. - Ma la politica non è preparata ad affrontare situazioni
incomprensibili e imprevedibili. Solo la scienza rappresenta una difesa contro
l’improbabile e l’angoscia originaria dell’uomo di cui abbiamo parlato
all’inizio dell’intervista -.
Questa forse sarà la grande lezione che ci lascerà la
diffusione del virus, sperando di vincere la partita prima possibile. La
scienza e la competenza prima di tutto. - Della scienza dobbiamo fidarsi. Lo
dico in un Paese, come l’Italia, dove vige la dittatura dell’incompetenza: a
proposito dei vaccini c’era chi si fidava più della propria portinaia che degli
esperti. La strategia della precauzione tipica della scienza è uno strumento
fondamentale -.
Però le famiglie faticano a gestire la percezione
della pericolosità del virus. I giovani non ce la fanno proprio a non
continuare a muoversi, a viaggiare, ad avere relazioni. Il coronavirus sembra
invece terrorizzare i più anziani. - Perché i giovani sono imprevidenti, non
hanno l’idea di morte che invece hanno gli anziani. I quali sono più vicini
alla loro fine e quindi adottano stili di vita più prudenti -.
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