"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

domenica 16 febbraio 2020

Ifattinprima. 46 «La recessione ha comportato un impoverimento generale».



Tratto da “La nostra decrescita infelice” di Alessandro Penati, pubblicato sul quotidiano “la Repubblica” del 15 di febbraio 2020: (…). Nell'ultimo ventennio abbiamo vissuto una rapida rivoluzione tecnologica che ha cambiato i prodotti e i servizi che consumiamo: un'auto, un intervento chirurgico, un telefono, una pubblicità, un pagamento, sono solo apparentemente gli stessi beni di una volta. Una rivoluzione che ha anche modificato l'uso che facciamo del tempo libero, le interazioni con i nostri simili, e perfino gli strumenti della politica. E già si intravede un futuro in cui intelligenza artificiale, robot, 5G e stampanti 3D rivoluzioneranno anche il modo di produrre i beni. Una rivoluzione dominata dall'industria tecnologica americana, ora sfidata dalla Cina, che ha visto le imprese reinventarsi: Amazon, nata per vendere libri, è diventata un mercato virtuale per prodotti di terzi, ha innovato la logistica, è entrata nell'intrattenimento e si sta lanciando nel credito alle imprese. Non sappiamo se Tesla diventerà un colosso dell'auto o se sparirà: ma già dimostra che la tanto celebrata industria automobilistica tedesca non è stata capace di prevedere la discontinuità che sta mandando in pensione l'invenzione di Rudolf Diesel, vecchia di 125 anni, su cui aveva costruito la sua fortuna. I valori di Borsa, per quanto gonfiati, sono il segno tangibile di quanto la rivoluzione tecnologica abbia solo lambito la prima economia europea: nella grande contesa tra Usa e Cina, l'Europa sta a guardare. Perché tutto questo dovrebbe interessarci? Perché siamo l'unico tra 36 Paesi Ocse in cui il reddito pro-capite a potere di acquisto costante, la variabile che conta per i cittadini, è calato rispetto a quello del 2000, a fronte del +22% medio dei Paesi Ocse e il +17% dell'Eurozona. La colpa non è di crisi e austerità perché dal 2008 il reddito pro-capite di Portogallo, Spagna e Irlanda, che ne hanno avuta più di noi, è cresciuto, mentre in Italia è caduto del 5%. La nostra incapacità di crescere e creare reddito è antica; la crisi l'ha solo accentuata e i ritardi dell'Europa nella corsa al primato tecnologico l'hanno aggravata. Il recente crollo della produzione industriale ha riaperto i timori di recessione. Ancora più urgente, però, è arrestare il declino economico.
Abbiamo troppo capitale e risorse umane investite in settori in declino e fatichiamo a riorganizzare la struttura produttiva nel mutato quadro tecnologico. Generiamo il 74% del valore aggiunto nei servizi dove l'impatto della tecnologia è stato più forte (commercio, sanità, tempo libero, media, finanza, comunicazioni, mobilità, logistica) ma le nostre imprese hanno subito l'innovazione, invece di avvantaggiarsene. Costruzioni e servizi immobiliari, dove è difficile aumentare la produttività, pesano quanto il settore manifatturiero; dove manteniamo tanto capitale investito nella trasformazione di materie prime (acciaio, petrolio, plastica, cemento), che globalizzazione e green revolution hanno deprezzato. Lo Stato dovrebbe privilegiare le politiche per la crescita (l'araba fenice della riduzione delle imposte, certezza delle regole, controllo del debito pubblico, rapidità della burocrazia e della giustizia). Mentre oggi governo e opposizioni sono interessati solo a distribuzioni del reddito di breve respiro tese ad avvantaggiare il proprio elettorato di riferimento visto che, (…), la recessione ha comportato un impoverimento generale più che una forte redistribuzione del reddito. Lo Stato dovrebbe poi smettere di impegnare risorse per mantenere in vita aziende senza prospettive e usarle, invece, per favorire la mobilità dei fattori produttivi, attenuandone i costi sociali. E dovrebbe liberare i capitali oggi immobilizzati in una pletora di aziende mature e consolidate (Eni, Enel, Fincantieri, Poste etc.) per scopi poco credibili, se non quello di nominarne i vertici: Usa e Cina ci insegnano che le imprese strategiche si possono difendere bene (anzi meglio) senza lo Stato azionista, acquisendo così risorse che potrebbero essere destinate al finanziamento di ricerca e sviluppo (Usa e Cina lo fanno attraverso la spesa militare) e alla promozione di gruppi nazionali in nuovi settori strategici (batterie elettriche, 5G, logistica) o nella rivoluzione ecologica, dove l'Europa punta alla leadership. Ma lo Stato non basta. Non ci può essere sviluppo senza un sistema finanziario efficiente: è la finanza privata che ha fatto crescere i giganti della tecnologia negli Usa come in Cina. Da noi però il sistema finanziario è dominato da banche che puntano sui ricavi da commissioni e vengono spinte dalla regolamentazione a ridurre i rischi dei propri attivi. Il risparmio italiano viene investito in attività liquide all'estero; e una parte risibile di quello istituzionale impegnato da noi a lungo termine o nel venture capital. Diventa essenziale il capitale estero che però in Italia viene visto con malcelata ostilità e trova incertezza delle regole, imposte elevate e burocrazia inefficiente. Infine, gli imprenditori nostrani dovrebbero superare l'ossessione del controllo, causa di frammentazione e scarsezza dimensionale delle imprese, in un mondo dove tecnologia e globalizzazione hanno ingigantito la dimensione ottimale per poter competere. Per invertire il declino ci vorrebbero lungimiranza e chiarezza di obiettivi. Abbiamo invece una destra che vorrebbe risolvere la decrescita isolandoci dal resto del mondo in un sovranismo autarchico, desueto e illusorio. E una sinistra al governo che cerca la soluzione in un dirigismo d'altri tempi. Invece di guardare lontano, entrambe vorrebbero riportare indietro le lancette dell'orologio.

Nessun commento:

Posta un commento