"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

martedì 18 febbraio 2020

Letturedeigiornipassati. 86 «Un muro che, come molti muri, non dovrebbe esistere».


Tratto da “Il posto fisso logora chi non ce l'ha” di Claudia De Lillo – in arte Elasti – pubblicato sul settimanale “D” del quotidiano “la Repubblica” del 18 di febbraio dell’anno 2017: Fino a tre anni fa avevo un posto fisso, un contratto a tempo indeterminato, un badge aziendale, una postazione in un open space, ferie, malattia e straordinari pagati, colleghi a cui volevo bene. Ero stata assunta 18 anni prima e pensavo che, in quell'open space, avrei raggiunto la pensione.
Arrivati alla maggiore età, sono pochi i lavori capaci di entusiasmare ancora, eppure quel senso d'ineluttabile appartenenza era rassicurante. Tuttavia le mie certezze pensionistiche si infransero un martedì mattina di fine ottobre, quando la mia capa mi convocò. «Cara Elasti», disse con tono forzatamente distaccato, «la società lancerà a breve un piano di esuberi volontari. È necessario che tre persone lascino spontaneamente l'azienda». Mi si chiuse lo stomaco. «Ci chiedevamo se magari tu... ecco, fossi interessata a...». La sua voce s'incrinò impercettibilmente. «Interessata a?» domandai, perché non avevo capito o forse avevo capito benissimo, ma avevo bisogno di parole precise. «A dare le dimissioni». Impallidii. «Non devi rispondere subito. Hai una settimana per pensarci. E puoi anche dire di no». «Questa è l'occasione per cercare nuove strade che ti somiglino di più», mi dicevano i miei affetti e la mia coscienza. Invece io piagnucolavo derelitta, offesa e spaventata. Non mi capacitavo che, dopo 18 anni di cammino professionale insieme, qualcuno potesse dirmi: «Ehi, è stato bello. Ora però, cortesemente, spostati da qui». Mi mancò il coraggio per accettare e affrontare una promettente e terrificante incertezza. Dissi: «No, grazie», consapevole che, in quell'open space, avrei comunque avuto i giorni contati. Alcuni mesi dopo trovai la forza e una valida, seppur precaria, alternativa. Lasciai il posto fisso che mi aveva accolto ragazzetta e mi aveva visto crescere. Sono passata al lato oscuro del mondo del lavoro: oggi ho una partita Iva e un domani incerto. Faccio varie cose, per la maggior parte divertenti. Spero di non ammalarmi e difendo, dai feroci attacchi dei miei figli, la piccola trincea-studio che mi sono ritagliata accanto alla mia camera da letto. Con il senno di poi sono grata a quel lavoro maggiorenne per essersi accorto prima di me che non eravamo più fatti l'uno per l'altra. Qualche settimana fa tuttavia ho visitato la sede italiana di una multinazionale. Ho incontrato un gruppo di donne (operaie, impiegate, ingegnere, dirigent). Mi hanno mostrato uffici, catena di montaggio, laboratori, mensa. Le ho ascoltate mentre raccontavano del loro lavoro. Parlavano di turni, badge, ferie pagate e soprattutto un senso di appartenenza orgogliosa, uno spirito di gruppo, un cameratismo solidal. Erano contente e grate di quello che avevano e che erano. «Qui stiamo bene», dicevano. Improvvisamente mi sono ricordata di un tempo in cui anch'io mi sentivo parte di un tutto. Anch'io pranzavo insieme a colleghi che erano famiglia. Anch'io mi sentivo garantita, protetta, destinata a un cammino comodo e segnato, seppure prevedibile e a tratti noioso. Ho avuto nostalgia della macchinetta del caffè, degli orari, dei riti, della complicità, dello scudo di un marchio da anteporre al proprio nome. Mi sono sentita sola e priva di reti. Ma non tornerei indietro. E non solo perché il posto per me non c'è più. Oggi sono più libera e felice di allora. Eppure quella riga dritta e invalicabile tra i lavoratori garantiti e quelli che non lo sono è una misura tangibile della disparità di trattamento e tutele tra chi è dentro e chi è fuori. È un muro che, come molti muri, non dovrebbe esistere.

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